Giorno per giorno – 15 Maggio 2020

Carissimi,
“Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi e vi ho costituiti perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga; perché tutto quello che chiederete al Padre nel mio nome, ve lo conceda. Questo vi comando: amatevi gli uni gli altri. (Gv 15, 16-17). Non c’è nessun merito all’origine del nostro essere cristiani (sempre che lo siamo per davvero), c’è solo la sua scelta – di Gesù – , imprudente e azzardata quanto basta, di chiamarci al suo seguito. Sapendo in anticipo che, forse, avremmo fatto qualcosa di buono (con le grucce che ci ha offerto ogni volta di nascosto), ma anche che avremmo combinato disastri, attribuendogli dottrine che sono l’esatto contrario del suo insegnamento vivo, per trasmettere il quale ci ha rimesso la vita. Sicché i frutti, lungo i secoli di cristianità, sono stati spesso frutti di violenza e di morte, non la propria, ma quella degli altri, eletti di volta in volta, per darsi una giustificazione, a nemici della fede e della [in]civiltà che ne ha usurpato il nome. Nulla comunque è, anche per noi, perduto, dato che la sua pazienza è infinita. L’importante è non continuare a ingannare noi stessi, chiedendo invece incessantemente al Padre, nel nome di Gesù, di trasformarci a sua immagine, testimoni credibili del suo amore per noi e del nostro in risposta al suo, attraverso il dono incondizionato di noi stessi agli altri.

Oggi è memoria di Isidoro e Maria, santi contadini, di Pacomio, padre del monachesimo, e di Michel Kayoya, martire nel Burundi.

Di Isidoro, sappiamo proprio poco. Nacque in una famiglia contadina e fece sempre il bracciante. Gli piaceva lavorare la terra, ma trovava il tempo, ogni giorno, di ritagliarsi i suoi spazi di gratuità, partecipando alla Messa e dedicandosi alle sue devozioni. Con un certo spasso dei suoi compagni di lavoro.Ma lui li lasciava dire. Incontrò la donna che faceva per lui, una tale Maria, che sposò e da cui ebbe un figlio, morto da piccolo. Vissero insieme il resto della vita, lui lavorando duro fuori casa, e lei dentro. E il denaro che si sudavano, poco, bastava comunque per tanti. Se un povero bussava alla porta, per loro era sempre il Povero. E non se ne andava mai via a mani o con la pancia vuote. E loro erano pieni di allegria. Un giorno poi lui, uno dei piccoli amati da Dio, morì. Era il 15 maggio 1130.

Pacomio era nato nell’Alto Egitto, l’anno 287, da genitori pagani. A vent’anni era stato arruolato a forza nell’esercito imperiale e, durante un trasferimento, era finito in carcere a Tebe con tutte le reclute. Fu in quell’occasione che il giovane venne per la prima volta a contatto con dei cristiani: gente che di notte portava ai prigionieri del cibo. Chi vi manda?, chiedevano loro. Il Dio del cielo, rispondevano. E Pacomio pregò allora quel Dio di liberarlo, che lo avrebbe servito per la vita intera. Quando fu congedado, si recò a Khenoboskion e si aggregò ad una piccola comunità cristiana, dove fu istruito nei santi misteri, al fine di ricevere il battesimo. Visse lì per un certo tempo, dedicandosi al servizio della gente. Conobbe un vecchio anacoreta, Palamone, e lo scelse come guida spirituale. Infine gli giunse un’illuminazione: perché non dar vita a una comunità alternativa? C’erano altri cristiani e cristiane che si erano allontanate dalle città, insoddisfatte dello stile di vita che le caratterizzava. Forse valeva la pena di mettersi insieme e provare a se stessi e agli altri che “un altro mondo era possibile”. Si stabilirono nel villaggio abbandonato di Tabennesi e cominciarono ad organizzarsi in una vita di preghiera, lettura della Parola di Dio e lavoro manuale. Nasceva così il monachesimo cenobitico. Al vescovo Atanasio che gli chiese un giorno: Ma insomma chi diavolo siete?, Pacomio rispose: siamo semplici cristiani. Perdinci, ma se è vero che il monaco è un semplice cristiano, allora ogni cristiano è un monaco. Corretto! Ma nell’uno e nell’altro caso, vale la pena di aggiungere: se si prende sul serio. Pacomio morì nel 346, durante un’epidemia di peste, dopo aver servito i suoi sino alla fine.

Michel Kayoya era nato nel 1934 a Kibumbu, in Burundi. Entrato in seminario, dopo gli studi filosofici, nel 1958 venne mandato in Belgio a studiare teologia. Nel 1963 fu ordinato sacerdote. Nominato vice parroco a Rusengo, si impegnò nei movimenti di Azione Cattolica e assunse la responsabilità delle cooperative. Dal 1967, per tre anni, fu rettore del seminario minore di Mugera; nel 1970 fu chiamato a ricoprire l’ufficio di economo generale della Diocesi di Muynga. Nel mese di aprile 1972, le autorità ecclesiastiche l’obbligarono a lasciare il luogo. Il 15 maggio venne ucciso dai Tutsi nel corso del massacro che costerà la vita ad altre 200 mila persone. Il cadavere fu gettato in una fossa comune. Era sostenitore di un umanesimo che ha alla base il rispetto: “Rispetto del povero, rispetto del piccolo, rispetto del vecchio, rispetto dell’invalido”. Il contrario della civiltà occidentale. A chi gli chiedeva conto del perché fosse cristiano, rispondeva: “Ho deciso di restare cristiano non per paura di impegnarmi, non per paura di lottare. Come cristiano sentivo in me una gioia, un motivo di impegno superiore ed un’energia nuova per consacrarmi alla causa dei miei fratelli, gli uomini. Ero cristiano, volevo che nella lotta contro la fame, la carestia, l’ingiustizia, il disonore, il mio popolo si tessesse un’eternità vera”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.15, 22-31; Salmo 57; Vangelo di Giovanni, cap.15, 12-17.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli della Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui con un brano della “Vita copta di Pacomio e Teodoro” . Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Per disposizione provvidenziale di Dio, vennero a lui tre uomini, di nome Psentaesi, Sourous e Psoi, che gli dissero: “Vogliamo farci monaci qui con te”. Pacomio allora si intrattenne con loro per sapere se avrebbero potuto separarsi dai genitori e seguire il Salvatore e li mise alla prova. Visto che le loro disposizioni erano buone, li rivestì dell’abito monastico e li accolse con gioia presso di sé. Costoro, entrati nella santa congregazione, si dedicarono a grandi esercizi di ascesi. Vedevano Pacomio che si affaticava da solo nei lavori del monastero, nella coltivazione dell’orticello, nella preparazione dei pasti. Se qualcuno bussava alla porta, era lui ad aprire; se qualcuno si ammalava, l’assisteva fino alla guarigione dicendo tra sé, riguardo ai suoi compagni: “Sono neofiti, non hanno ancora raggiunto la maturità sufficiente per servire gli altri”. Li esentava così da ogni lavoro, esortandoli: “Per la vostra salvezza, cercate di custodire bene la vostra vocazione”. I neofiti però gli dissero: “Ci dispiace di vederti faticare da solo”. Ed egli rispondeva: “Chi è l’uomo che, legata la bestia alla ruota, se ne dimenticherà, così da farla cadere nel pozzo? Ebbene, se il Signore vedrà che sono stanco, manderà altri capaci di aiutarmi nel lavoro”. Stabilì poi per loro delle regole secondo le scritture, una costituzione che non fosse pietra di scandalo, e delle tradizioni utili alle anime: vestito e cibo assolutamente uguali per tutti e un giaciglio decoroso. (Vita copta di Pacomio e Teodoro, 23).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 15 Maggio 2020ultima modifica: 2020-05-15T22:01:30+02:00da fraternidade
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