Giorno per giorno – 13 Maggio 2020

Carissimi,
“Io sono la vera vite e il Padre mio è il vignaiolo. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo toglie e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può far frutto da se stesso se non rimane nella vite, così anche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci” (Gv 15, 1-2. 4-5). Il primo segno di Gesù, narrato nel vangelo di Giovanni, era stato la traformazione dell’acqua in vino, e nel vino migliore (cf Gv 2, 1-11). Segno, prima di ogni altro significato spirituale, della preoccupazione di Gesù, e di sua madre, per l’allegria della gente. Preoccupazione che percorre, del resto, tutto l’evangelo. Forse non è proprio un caso che lo stesso vangelo si chiuda con questa breve parabola, in cui Gesù identifica l’Io Sono divino, da lui incarnato, con la vite, da cui abbiamo l’uva che produce il vino che allieta il cuore dell’uomo. Senza far cenno di quella che è, un po’ impropriamente, chiamata istituzione dell’eucaristia, nella narrazione dei sinottici, e che è semmai l’anticipazione simbolica del significato annesso da Gesù alla sua morte – significato che Giovanni riporta nel discorso sul pane di vita – “carne per la vita del mondo” (Gv 6, 51), sembra si possa alludere qui al vino della gioia – frutto di quell’amore che, nelle parole di Gesù pronunciate (nei sinottici) sul vino, ne fanno immagine del sangue sparso in dono per la vita di tutti. Questa è la lezione di Gesù per i suoi: innestati in Cristo, che è la fonte della gioia (niente a che vedere con i molti cristiani rancorosi che si fanno vedere in giro), diffonderla ostinatamente, facendosi senza sosta dono d’amore.

Oggi il nostro calendario ci porta le memoria di Bede Griffiths, monaco-sannyasi, e di René Voillaume, piccolo fratello di Gesù.

Alan Richard Griffiths era nato, ultimo di tre figli, il 17 dicembre 1906 a Walton-on-Thames, in Inghilterra, da una famiglia un tempo benestante, ma ora impoverita. Giunta l’età degli studi, il giovane ottenne tuttavia una borsa di studio, che gli consentirà di studiare fino al conseguimento della laurea in giornalismo, a Oxford. Dopo la laurea, per circa un anno, il giovane Griffiths visse con due amici un’esperienza di vita semplice ed essenziale, a contatto con la natura, alimentata dalla lettura della Bibbia e di altri testi di letteratura cristiana. Dopo una visita all’abbazia benedettina di Prinknash, chiese di ricevere il battesimo – che gli fu somministrato la vigilia del Natale 1931 e, l’anno successivo entrò in monastero, assumendo il nome di Bede. Nel 1937 pronunciò i suoi voti perpetui e nel 1940 fu ordinato sacerdote. Per circa quindici anni se ne stette relativamente tranquillo, scandendo la sua vita, come vuole la Regola, tra preghiera, studio e lavoro. Nel 1955, la svolta, con la richiesta di trasferirsi in India, “alla scoperta dell’altra metà dell’anima”. Assieme a Benedict Alapott, un prete indiano nato in Europa, si stabilì per tre anni a Kengeri, nel Bangalore, poi nel 1958, raggiunse p. Francis Acharya, nel Kerala, collaborando alla fondazione dell’ Ashram Kurisumala, un monastero di rito siriaco, dove assunse il nome di Dhayananda (Beatitudine della preghiera). Nel 1968, infine, si trasferì, con altri due monaci indiani, Swami Amaldas e Swami Christodas, all’Ashram Saccidananda, a Shantivanam, nello stato del Tamilnadu, vicino a Tiruchirappalli. L’ashram, fondato nel 1950 da Jules Monchanin e Henry Le Saux, era stato il primo tentativo di fondare in India una comunità cristiana che seguisse i costumi di un ashram e s’adattasse, nel modo di vivere e di pensare, allo stile indù. Bede Griffiths, che adesso prese a chiamarsi Dayananda (Beatitudine della Compassione), si conformò in tutto al costume vedico, vestendo la veste arancione del sannyasi e vivendo in assoluta povertà, fino alla morte, che lo colse, uomo dal cuore universale, il 13 maggio 1993.

René Voillaume era nato a Versailles il 19 luglio 1905. Ordinato prete nel 1929, aveva proseguito gli studi all’Angelicum di Roma e si era poi specializzato in lingua araba e islamistica a Tunisi. L’8 settembre 1933, nella basilica parigina del Sacro Cuore a Montmartre, insieme a Guy Champenois, Marcel Boucher, Georges Gorrée e Marc Gerin, Voillaume dava inizio alla famiglia dei Piccoli fratelli di Gesù. Decisero di stabilirsi insieme a El-Abiodh, nell’Algeria del Sud, seguendo le impronte di Charles de Foucauld, l’eremita solitario che a lungo sognò, senza riuscirvi, di fondare una congregazione che avesse come ideale la vita nascosta di Gesù a Nazareth. Nel 1939, dall’incontro di Voillaume con Magdeleine Hutin, avvenuto l’anno prima, sarebbe nata la congegazione delle Piccole sorelle di Gesù. Altre famiglie sarebbero in seguito sorte, alimentate dall’intuizione spirituale di fratel Charles e dalla traduzione che Voillaume seppe farne nel cuore del nostro tempo. Quando, prima di morire Voillaume diede spazio ai ricordi autobiografici, volle sottolineare l’importanza che, nella sua vicenda spirituale, ebbero il Santissimo Sacramento e Nazareth. Quest’ultima letta nei suoi due significati di vita di silenzio, preghiera, lavoro e povertà, e quello di inserimento in un ambiente povero, in cui, fuori da ogni troppo facile retorica, si condivide la vita e il lavoro di tutti. Il 13 maggio 2003, alle soglie dei 98 anni padre Voillaume moriva a Aix-en-Provence, assistito dai rappresentanti delle varie famiglie spirituali nate dai suoi scritti e dalla sua vita.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap. 15, 1-6; Salmo 122; Vangelo di Giovanni, cap.15, 1-8.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale ne sia la religione, la cultura o la filosofia di vita.

È tutto, anche per stasera. Noi ci congediamo qui, con un testo di René Voillaume, tratto dal suo “Pregare per vivere” (Cittadella Editrice). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Non potremo giungere a conoscere veramente Gesù, se prima il nostro cuore e la nostra vita non saranno stati trasformati dalla carità e dallo spirito delle beatitudini. San Giovanni ci avverte: “Colui che intende rimanere in lui, deve comportarsi come egli si è comportato” (1 Gv. 2, 6). Ma contemporaneamente è vero anche il contrario: noi non possiamo vivere pienamente la carità senza conoscere Gesù. È facile costatare fino a che punto noi siamo incapaci di manifestare interamente la carità: è proprio su questo piano, che si riscontra la mancanza di unità che c’è in noi, il dualismo fra spirito e materia insito nell’uomo caduto e ferito dal peccato. Ora, è la contemplazione nella luce dello Spirito, che sola può assicurare l’unità fra la preghiera e il dono di sé agli altri, tra l’amore per Dio e quello per i fratelli. E c’è un’illuminazione su ciò che l’amore ci chiede, che non potremo avere se non conosciamo il cuore del Cristo; c’è una conoscenza del Cristo che è indispensabile per farci scoprire le sollecitazioni della carità nelle sue manifestazioni più esteriori e concrete, più umili e più eroiche. Ci sono delle sfumature di delicatezza, di tenerezza, di rispetto per gli uomini, di infinita misericordia che non riusciamo a manifestare, se prima non saremo in grado di contemplarle nel cuore del Cristo e se il Cristo non verrà in noi. Senza questo, siamo costretti a delle approssimazioni inette in materia di carità e, forse, a delle falsificazioni. L’esercizio della carità è come razionalizzato dalle nostre vedute ristrette. Senza un certo grado di contemplazione, non credo si possano mettere in pratica i comandamenti di Gesù e sforzarsi di essere perfetti come il Padre celeste è perfetto! (René Voillaume, Pregare per vivere).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 13 Maggio 2020ultima modifica: 2020-05-13T22:47:49+02:00da fraternidade
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