Giorno per giorno – 02 Maggio 2020

Carissimi,
“Da allora molti dei suoi discepoli si tirarono indietro e non andavano più con lui. Disse allora Gesù ai Dodici: Forse anche voi volete andarvene? Gli rispose Simon Pietro: Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 66-69). Il discorso sul pane di vita segna la prima grave frattura, il primo scisma, potremmo dire, tra i discepoli di Gesù. I molti di cui parla il vangelo cominciano col mormorare. Gesù, percependolo, li affronta a viso aperto. Sa che arretrando, ne andrebbe della verità di Dio, racchiusa nella sua rivendicazione, che a quel tempo doveva suonare pressoché blasfema, di essere l’Io Sono di Dio disceso dal cielo come il Pane di vita, sotto cui si cela il mistero della sua carne “data per la vita del mondo” (v. 51). Che sovverte tutto ciò che da sempre, sotto tutti i cieli, si tende mediamente a pensare di Dio e della religione. Succede così che molti dei suoi, sorpresi a mormorare, alla fine preferiscono andarsene. Oggi, gran parte di quanti si dicono cristiani, magari non mormorano e quindi restano, ma è come se non ci fossero, tanto non si sentono neppure sfiorati dal discorso di Gesù. Altri restano, ma mormorano e persino fomentano odî, inimicizie e rivolte contro chi si proponga di richiamare il senso più vero della fede in Gesù e della sua sequela. Preferendo una religione a carattere devozionale o civile, che non incomodi i potenti, benedica, senza esigere troppo, le diverse stagioni della vita e i propri santi e meno santi egoismi, e fornisca uno straccio di identità da sbandierare contro chi è sentito diverso. Cioè, proprio contro coloro per cui Dio, nel suo Figlio Gesù, si è consegnato alla morte perché avessero vita. Noi, con Pietro, che pure avrebbe capito solo più tardi cosa significassero tutti questi discorsi del Maestro, alla domanda di Gesù, se per caso vogliamo andarcene anche noi, risponderemo: “Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna”.

Il nostro calendario ci ricorda oggi Atanasio, Pastore e Padre della Chiesa, Matrona di Mosca, mistica, Paulo Freire, educatore dalla parte degli oppressi, e dom Tomás Balduino, vescovo e profeta della Chiesa di Goiás. .

Atanasio era nato ad Alessandria d’Egitto nel 295. Appena ventenne si era fatto conoscere nella sua Chiesa per due discorsi, uno “Contro i greci”, l’altro “Sull’Incarnazione” che rivelavano, oltre che la sua fede profonda, una notevole capacità di argomentazione teologica. Per questo, quando nel 325 l’imperatore Costantino convocò il Concilio di Nicea, per risolvere il problema della divinità di Cristo, il suo vescovo, Alessandro, pensò bene di portarselo appresso come consulente teologico. Tre anni più tardi, alla morte dell’anziano patriarca, l’ancor giovane Atanasio venne chiamato a succedergli nella cattedra che la tradizione vuole sia stata di san Marco. Erano tempi grami tuttavia. Costantino non ne capiva molto di dispute teologiche, ma, deve aver pensato che giovasse più al potere imperiale l’immagine di un Dio unico punto e basta (sostenuta da Ario), che questa Unità del molteplice, o molteplicità dell’Unità, implicata dal Dio trinitario degli ortodossi, di cui Atanasio era diventato campione. Sicché, con uno strategico voltafaccia, scelse alla fine le tesi più vicine ad Ario, spedendo in esilio Atanasio. Quest’ultimo, tuttavia, seguitò imperterrito. Non aveva accettato di essere vescovo per andare a braccetto col potere e con le mode del suo tempo. Sicché, le condanne si susseguirono negli anni, con i diversi imperatori: Costanzo, Giuliano e Valente. Questi allontanamenti frequenti, portarono Atanasio a contatto con i monaci del deserto, con Antonio, in primo luogo, di cui il vescovo scriverà poi la vita, contribuendo in tal modo, a diffondere l’ideale monastico in tutta l’ecumene cristiana. Divenuto vecchio, ma non vinto, fu finalmente, dietro la pressione popolare, restituito alla sua sede patriarcale per l’ultima volta. Lì morì, pacificamente, tra la gente che l’amava, il 2 maggio dell’anno 373.

Matrona Dimitrievna Nikonova nacque nel 1881 nel villaggio di Sebino, nel governatorato di Tula, quarta figlia di una famiglia di contadini. Nata priva della vista, fu arricchita, fin da bambina, di numerosi carismi, compreso il dono della cura. A quattordici anni potè recarsi in pellegrinaggio a numerosi monasteri, a Kiev, a San Pietroburgo e in altre città russe. San Giovanni di Kronstadt, incontrandola nella sua chiesa, la chiamò “colonna della Russia”. A 17 anni, Matrona perse l’uso delle gambe e rimase paralizzata per il resto della vita. Benché analfabeta, meravigliava chi l’andava a visitare per la conoscenza di luoghi e fatti lontani. Nel 1925, si trasferì a Mosca, vivendo da allora in casa di amici e benefattori e dedicandosi ad accogliere ogni giorno quanti venivano a chiederne i consigli o la preghiera per ottenere la guarigione da qualche male fisico o spirituale. A tutti dispensava parole semplici e piene di saggezza, che esortavano ad amare il prossimo, a partecipare ai santi misteri, a soccorrere quanti versassero in condizioni di bisogno, soprattutto malati e anziani. Matrona si spense il 2 maggio 1952.

Paulo Reglus Neves Freire nacque il 19 settembre 1921, a Recife, nello Stato del Pernambuco, una delle regioni più povere del Brasile, dove potè sperimentare sulla propria pelle le difficoltà di sopravvivenza delle classi più povere. Nel 1944 conobbe e sposò Elza Maia Costa Oliveira, insegnante elementare, da cui apprese il gusto per l’educazione, a cui dedicherá tutta la vita. La sua proposta pedagogica, conosciuta come “pedagogia degli oppressi”, mira a stimolare l’azione dell’essere umano sulla realtà. Portando i soggetti del dialogo educativo a condividere condizioni di vita, sofferenze e aspirazioni, li rende capaci di una trasformazione creatrice del mondo. Arrestato nel corso del colpo di stato del 1964, dopo 72 giorni di prigionia, fu costretto a lasciare il paese. Si rifugiò in Cile, dove per cinque anni lavorò ai programmi di educazione per adulti e scrisse la sua opera maggiore. In seguito insegnò in numerose università straniere e collaborò nei progetti educativi di vari Paesi, delle Nazioni Unite e del Consiglio Mondiale delle Chiese. Rientrato in Brasile nel 1980, riprese il suo impegno pedagogico come professore universitario, come animatore del movimento di educazione popolare e come attivo partecipante delle comunità ecclesiali di base. La sua prassi educativa ricevette numerosi riconoscimenti a livello mondiale. Freire morì a São Paulo di infarto al miocardo il 2 maggio 1997.

Paulo Balduíno de Sousa Décio era nato a Posse, nello Stato di Goiás, il 31 dicembre 1922, figlio di José BalduÍno de Sousa Décio e di Felicidade de Sousa Ortiz. Entrato nell’Ordine Domenicano, compì il noviziato, assumendo il nome di Tomás. Studiò filosofia a São Paulo, e teologia in Francia, a Saint Maximin, dove fu ordinato presbitero, nel 1948. Rientrato in Brasile, fu professore di filosofia nella Facoltà di Filosofia di Uberaba e poi a Juiz de Fora (Minas Gerais). Nel 1957 fu nominato superiore della missione domenicana a Conceição do Araguaia, nel Pará, dove conobbe da vicino la realtà indigena e contadina. Per svolgere un lavoro più efficace con gli indios, si laureò in Antropologia e Linguistica all’Università di Brasilia e studiò la lingua degli Indios Xicrin, del gruppo Bacajá, Kayapó. Per muoversi più facilmente nel vastissimo territorio della Prelazia fece il corso di pilota d’aviazione. Amici solidali italiani gli donarono un teco-teco, con cui potè prestare un inestimabile servizio, soprattutto nel sostegno e nell’articolazione dei popoli indigeni. Aiutò anche a salvare molte persone perseguitate dalla dittatura militare. Nel 1965, anno in cui si chiuse il Concilio Vaticano II, fu nominato Prelato di Conceição do Araguaia. Lì visse in maneira determinante e combattiva i primi conflitti con le grandi imprese agropecuarie che si stabilivano nella regione com gli incentivi fiscali dell’allora Sudam e che invadevano aree indigene, espellevano famiglie di piccoli contadini, facendo arrivare braccianti da altri Stati, soprattutto dal Nordeste brasiliano, che erano poi sottomessi spesso a regimi analoghi al lavoro schiavo. Nominato e ordinato vescovo della Città di Goiás, nel 1967, assunse la cura della diocesi, dove rimase 31 anni, fino al 1999. Qui, dom Tomás fece opera di adeguamento della vita ecclesiale al nuovo spirito del Concilio Vaticano II e della Conferenza di Medellin (1968). La sua attuazione, a fianco dei poveri, nello spirito dell’opzione per i poveri, segnò profondamente la Diocesi e la sua gente. I contadini solevano riunirsi nel Centro di Pastorale, dove dom Tomás abitava, per definire le loro forme di organizzazione e le strategie di lotta. Questa attività provocò l’ira del governo militare e dei latifondisti che perseguitarono e assassinarono alcuni leader dei lavoratori, e tramarono per eliminare lo stesso vescovo. Dom Tomás fu personaggio chiave nel processo di creazione del Consiglio Indigenista Missionario (CIMI) nel 1972, e della Commissione Pastorale dela Terra (CPT) nel 1975. Dopo la rinuncia al governo della diocesi, presentata al papa, nel 1999, al compimento del settantacinquesimo anno di età, trasferitosi a Goiânia, ha continuato a lavorare alacremente fino agli ultimi mesi di vita. Innumerevoli i riconoscimenti internazionali per le sue attività a favore dei diritti umani e di lotta contro la miseria. Si è spento alle 23 e trenta di venerdì 2 maggio 2014. Vive nella vita di Dio.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.9,31-42; Salmo 116, 12-17; Vangelo di Giovanni, cap.6, 60-69.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano del libro di Paulo Freire “Pedagogia degli oppressi” (EGA), che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Solo sopprimendo la situazione di oppressione, è possibile restaurare l’amore che in essa era proibito. Se non amo il mondo, se non amo la vita, se non amo gli uomini, non mi è possibile il dialogo. D’altra parte non c’è dialogo senza umiltà. Dare un nome al mondo, per ricrearlo permanentemente, non può essere un atto arrogante. Il dialogo, come incontro degli uomini nel compito comune di saper agire, si interrompe se i suoi poli (o uno dei due) perdono l’umiltà. Come posso dialogare se alieno l’ignoranza, se, cioè, la vedo sempe nell’altro e mai in me? Come possso dialogare, se mi pongo come uomo differente, virtuoso per eredità, di fronte agli altri, semplici “questo”, in cui non riconosco altri io? Come posso dialogare, se mi sento chiuso in una élite di uomini puri, padroni della verità e del sapere, per i quali tutti coloro che si trovano fuori sono “questi” o “indigeni inferiori”? Come posso dialogare se parto dall’idea che dare un nome al mondo è compito di uomini scelti, e che la presenza delle masse nella storia è un segno del suo logorio, che devo evitare? Come posso dialogare, se mi chiudo al contributo degli altri , che mai riconosco, e me ne sento persino offeso? Come posso dalogare se temo il superamento, e se solo pensandoci soffro e mi deprimo? L’autosufficienza è incompatibile con il dialogo. Gli uomini, che non hanno umità o la perdono, non possono avvicinarsi al popolo. (Paulo Freire, Pedagogia degli Oppressi).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 02 Maggio 2020ultima modifica: 2020-05-02T22:50:52+02:00da fraternidade
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