Giorno per giorno – 20 Novembre 2019

Carissimi,
“Un uomo di nobile stirpe partì per un paese lontano per ricevere un titolo regale e poi ritornare. Chiamati dieci servi, consegnò loro dieci mine, dicendo: Impiegatele fino al mio ritorno. Ma i suoi cittadini lo odiavano e gli mandarono dietro un’ambasceria a dire: Non vogliamo che costui venga a regnare su di noi” (Lc 19, 12-14). La parabola delle mine è una variante di quella dei talenti, raccontata altrove (cf Mt 25, 14-36). Istruzione sulla testimonianza all’Evangelo (i beni affidatici) nel tempo dell’assenza fisica del Signore, in attesa del suo ritorno. Qui, in aggiunta, nel contesto di una società che ne rifiuta la sovranità. Da non intendersi, questa, come ci dicevamo stamattina, nella prospettiva di un regime teocratico, quanto piuttosto nella proposta, significata dall’evento di Gesù, di relazioni fraterne, caratterizzate dalla cura, dal servizio e dalla dedizione reciproche. Negandoci a questa proposta, non se ne avrà che un risultato di intolleranza, odio, violenza e morte, come recita la conclusione della parabola. Che, per superare lo scandalo che essa suscita, è opportuno chiarire trattarsi, ogni volta, nel corso del tempo, della conseguenza interna delle scelte operate e non, come può apparire, decisione del Signore, al suo ritorno. Che è ciò che, invece, avvenne nella vicenda reale, da cui la parabola trae spunto: Archelao, il diciannovenne figlio di Erode il Grande, designato alla sua successione, alla morte del padre, nell’anno 4 a.C., si era recato a Roma per ottenere dall’imperatore l’investitura ufficiale. Per impedirla, quanti lo detestavano gli avevano fatto seguire una delegazione. Tutto fu inutile, e Archelao si vendicò duramente degli avversari al suo ritorno. Nucleo centrale della parabola resta comunque l’importanza che riveste la testimonianza alla Buona Notizia affidataci, che deve tradursi in scelte e attitudini concrete, senza ridursi perciò ad una devozione privata, slegata dalle piccole e grandi sfide che ci fronteggiano. Il Signore ce ne chiede conto ad ogni giorno.

Il 20 novembre, qui in Brasile, si celebra la Giornata Nazionale della Consapevolezza Negra. Che coincide con la memoria del martirio di Zumbi di Palmares e di tutti coloro che caddero per rivendicare il diritto della popolazione negra (ma non solo) di questo e di ogni altro continente a vivere in libertà una vita che si dispieghi in pienezza, bellezza e abbondanza. Che è poi il progetto del Regno.

Zumbi era nato nel 1655. Come molti altri negri nati in Brasile, aveva avuto una formazione cristiana. Educato da un sacerdote portoghese, che svolgeva il suo ministero a Porto Calvo, in Alagoas, a 15 anni era fuggito verso un quilombo, uno dei tanti villaggi, dove, lontani dai centri abitati, vivevano comunitariamente i negri (ma anche alcuni bianchi e indios) che erano riusciti a sottrarsi alla schiavitù. Nel quilombo di Palmares, Zumbi e i suoi compagni si educavano a convivere e a costruire relazioni basate sulla libertà, la giustizia, la collaborazione fraterna. I portoghesi si resero presto conto che Palmares stava diventando “pericolosa”, dato che molti, troppi africani, prendendolo ad esempio, costruivano sempre nuovi quilombos. Quando le incursioni dei portoghesi cominciarono ad intensificarsi, Zumbi organizzò la difesa di Palmares e ne guidò la resistenza. Dopo una resistenza durata oltre vent’anni, nel 1693 la repubblica di Palmares fu distrutta e i suoi villaggi rasi al suolo: migliaia di persone furono catturate e uccise. Zumbi scampò al massacro. Fuggito nella foresta, con pochi sopravvissuti, fece perdere le proprie tracce, rifugiandosi in un posto sicuro. Poco tempo dopo, uno dei suoi compagni catturato dai portoghesi svelò il luogo del suo rifugio. Gli fu tesa un’imboscata e Zumbi fu ucciso. La sua testa venne esposta nella piazza centrale di Macaco quello stesso giorno: il 20 novembre del 1695.

Il nostro calendario ci porta anche la memoria di Lev Tolstoj, profeta della nonviolenza.

Lev Nicolaevic Tolstoj nacque a Jasnaja Poljana, in Russia, il 9 settembre 1828 (28 agosto secondo il calendario giuliano), quarto figlio del conte Nikolaj Ilic e dalla principessa Marija Nikolaevna. Dopo anni di vita dissipata, inquietudini, viaggi, ma anche di molte letture che lo spinsero ad esordire nel mondo della letteratura, nell’autunno 1862 sposò Sof’ja Andreevna Bers, che gli darà 14 figli (di cui cinque morti in tenera età). Seguì la stagione la stagione dei grandi romanzi (Guerra e Pace, Anna Karenina). Nel 1879 cominciò a scrivere Confessione, storia della sua conversione ad un cristianesimo rigorosamente fedele al Vangelo e sempre più diffidente nei confronti delle chiese istituzionali. Tale posizione lo rese inviso alla gerarchia ortodossa, che nel 1901 lo scomunicò, ma richiamò l’attenzione di scrittori, scienziati, politici, religiosi, uomini comuni, di ogni parte del mondo, attratti dalla predicazione e dalla testimonianza del suo cristianesimo anarchico e radicale e dalla sua teoria della “non resistenza al male mediante la violenza”, che ispirerà in seguito il giovane Mohandas Gandhi. La crescente incomprensione e i dissidi con la moglie, a causa delle sue scelte esistenziali, lo portarono, il 10 novembre 1910, a fuggire di casa. Tre giorni dopo, febbricitante, dovette ricoverarsi nella casa del capostazione di Astapovo, dove morì assistito dalla figlia Alessandra, alle sei del mattino del 20 novembre 1910 (7 novembre del calendario giuliano). Una folla immensa, nonostante i tentativi messi in atto dalle autorità per contenerla, partecipò ai funerali.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
2° Libro dei Maccabei, cap. 7,1.20-31; Salmo 17; Vangelo di Luca, cap. 19,11-28.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale ne sia la religione, la cultura o la filosofia di vita.

È tutto. Noi ci si congeda qui, lasciandovi a una citazione di Lev Tolstoj, tratta dal suo saggio “Amatevi gli uni gli altri”, che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Se gli uomini pensano solo alla loro vita materiale, questa loro vita non può che essere infelice. Ed è ciò che accade oggi. Mentre la vita non deve essere così, non deve essere infelice. La vita ci è stata data perché sia per noi un bene e questo noi ci attendiamo da lei. Ma perché sia così, dobbiamo capire che la vera vita non è nel corpo, ma in quello spirito che abita dentro il nostro corpo, dobbiamo capire che il nostro bene non consiste nei piaceri del corpo e nel fare ciò che chiede il corpo, ma nel fare ciò che esige quell’unico spirito, che abita in tutti noi. Questo spirito vuole il suo proprio bene, cioè il bene dello spirito, e poiché questo spirito è il medesimo in tutti, esso vuole il bene di tutti gli uomini. Desiderare il bene degli altri, significa amarli. E nulla può impedirci di amare e più si ama, più la vita diviene libera e felice. Di conseguenza, gli uomini, per quanto facciano, non sono mai in grado di soddisfare i loro desideri materiali, perché ciò che serve al corpo non sempre è possibile procurarselo e per procurarselo bisogna lottare contro gli altri; al contrario l’anima, che ha bisogno solo d’amore, può essere soddisfatta facilmente: per amare non dobbiamo lottare contro nessuno, anzi più amiamo, più andiamo d’accordo con gli altri. Nulla poi ostacola l’amore e più uno ama, più diventa felice ed allegro, non solo, ma rende felici ed allegri anche gli altri. (Lev Tolstoj, Amatevi gli uni gli altri).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairrro.

Giorno per giorno – 20 Novembre 2019ultima modifica: 2019-11-20T22:52:28+01:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo