Giorno per giorno – 08 Ottobre 2019

Carissimi,
“Marta era tutta presa dai molti servizi. Pertanto, fattasi avanti, disse: Signore, non ti curi che mia sorella mi ha lasciata sola a servire? Dille dunque che mi aiuti. Ma Gesù le rispose: Marta, Marta, tu ti preoccupi e ti agiti per molte cose, ma una sola è la cosa di cui c’è bisogno. Maria si è scelta la parte migliore, che non le sarà tolta” (Lc 10, 40-42). Le due sorelle dovevano entrambe aver a cuore Gesù, come dev’essere anche per tutti coloro che si impegnano al servizio del Regno. C’è però un pericolo, di cui forse ci vuol fare avvertiti il brano evangelico di oggi, ed è quello di un attivismo, con cui si finisce per trascurare l’ascolto dell’ospite e amico. Che è l’unica cosa che davvero conta, capace di fondare e orientare il nostro agire coerentemente col suo. Forse, nella microscopica realtà di quest’angolo di periferia della periferia del mondo è quanto hanno capito – diversamente non ci sarebbe spiegazione – Ana, Felicia, Cecilia, Cleusa e, quando possono, Mariana e Arcelina, che si ritrovano, la mattina presto, nella cappella del monastero, prima di recarsi al lavoro o alle faccende di casa, per pregare le lodi e meditare il vangelo, col vescovo, Fernando, Dorvando, p. Geraldo, Divino e qualcun altro. Così si mette insieme Marta e Maria. Senza per altro giudicare (perché è proprio questo che impariamo da Lui) chi sceglie l’una o l’altra cosa o anche nessuna delle due. Dato che ciò che importa veramente è che Lui ci ha scelti comunque e che noi, quali si sia, siamo la sua miglior parte.

Il nostro calendario ci porta la memoria di Sergio di Radonež, patriarca dei monaci della Russia ortodossa, di Néstor Paz Zamora, martire in Bolivia, e di Penny Lernoux, giornalista in difesa dei poveri in America Latina.

Bartolomeo, questo era il suo nome di battesimo, era nato il 3 maggio del 1313, a Rostov Vielikij (Russia). Da piccolo, con tutta la buona volontà, non gli riusciva proprio di imparare a leggere. Finché un giorno incontrò un monaco. E gli confidò il suo cruccio piangendo. Quello allora lo benedisse, gli diede un po’ di pane e gli disse: Va con Dio. Da allora fu tutto più facile. Quando ebbe poco più di vent’anni, decise di ritirarsi con il fratello Stefano in una foresta, non lontano dal villaggio di Radonez, nei pressi di Mosca, dove qualche anno prima la famiglia si era trasferita. Costruì una cappella dedicata alla Trinità, dove il 7 ottobre del 1337 ricevette l’abito monastico, assumendo il nome Sergio. Nonostante la solitudine, i disagi e i pericoli della vita nella foresta, giunsero presto altri uomini, desiderosi di imitarne l´esempio che, pochi anni più tardi lo vollero come loro igùmeno (abate). In breve la Comunità monastica crebbe in modo considerevole e Sergio seppe guidarla con grande umiltà ma anche con fermezza. Fondò molti altri monasteri e la sua fama si diffuse moltissimo. Tipico santo contadino, alieno da ogni intellettualismo, era semplice, umile, serio e gentile e visse una vita di preghiera, digiuno e lavoro. Insegnò ai suoi monaci che la fuga dal mondo e dalla sua logica non esimeva, ma, al contrario, imponeva spirito di servizio e aiuto concreto nei confronti del prossimo, oltre che la pratica rigorosa della povertà, a livello personale e comunitario. Pochi mesi prima di morire, convocati i suoi monaci, nominò il suo successore. Quando poi sentì vicina la morte, li mandò a chiamare, diede loro le ultime istruzioni spirituali, ricevette i sacramenti e, sollevate le mani al cielo, rese l’anima a Dio. Era il 25 settembre del 1392 (corrispondente nel calendario gregoriano all’8 ottobre).

Le poche notizie che disponiamo su Néstor Paz Zamora le ricaviamo dal Martirologio latino-americano. Figlio di un generale boliviano, Néstor era stato per alcuni anni in seminario, dove aveva compiuto i suoi studi di teologia. Uscitone, si era legato alle comunità di Charles de Foucauld, di cui sentiva di condividere profondamente la spiritualità. Era studente di medicina all’Università, quando decise di unirsi alla guerriglia di Teoponte, in cui sarebbe morto di stenti, poco dopo, l’8 ottobre 1970. Tutta la sua esperienza di cristiano mistico e militante è mirabilmente contenuta nelle pagine del Diario che dedicò alla moglie Cecy. Da esso traspare il significato trascendente e sempre valido che Néstor leggeva nella sua lotta per la “terra nuova”, dove l’amore fosse la legge fondamentale. Il 12 agosto scrisse: “Sono un lievito che lavora continuativamente. Questa è almeno la sensazione che ho. Una grande pace e una grande tranquillità mi invadono. Sto ‘vitalmente’ passando dall’idea della ‘morte’ come diminuzione all’idea della ‘morte’ come pienezza e passo ad una nuova dimensione. Non la cerco, ma, se venisse, l’aspetterei con la serenità e la tranquillità che merita un tale momento, e persino le chiederei che li avvisasse che sono passato al Padre, che il ‘vieni, Signore Gesù’ è diventato realtà in me”.

Penny Lernoux era nata il 6 gennaio 1940 in un’agiata famiglia cattolica della California. Al termine di un brillante corso di studi universitari, era diventata giornalista, recandosi a lavorare, dal 1961, in America Latina, e fissando la sua residenza dapprima a Rio de Janeiro, poi a Bogotà e Caracas e, infine, nuovamente a Bogotà. A partire dal 1974 operò come scrittrice freelance. Sposata e madre di una figlia, da subito percepì l’estremo contrasto esistente tra la ricchezza di politici, latifondisti e uomini di affari latinoamericani, da un lato, e la povertà delle masse della regione, dall’altro. Affascinata dalla proposta radicale del Vangelo, si avvicinò alle comunità cristiane di base e si interessò da vicino alla teologia della liberazione, che ne facevano lo strumento per interpretare e cambiare una realtà, caratterizzata da un violento sfruttamento economico e da brutali regimi dittatoriali. Fu per molti anni corrispondente del National Catholic Reporter, oltre a scrivere per altre testate e pubblicare numerosi libri. Colpita da un tumore ai polmoni, due settimane prima della morte, consapevole della gravità del suo stato, confessava: “Mi sento come se stessi scendendo per un nuovo sentiero. Non è una paura fisica o la paura della morte, perché i poveri dell’America Latina, con il loro coraggio, mi hanno insegnato una teologia della vita che, attraverso la solidarietà e la nostra lotta comune, trascende la morte. È piuttosto una sensazione di impotenza – ed io che ho sempre voluto essere campione dei poveri mi ritrovo proprio come impotente – e, anch’io, devo tendere la mia scodella da mendicante; devo imparare – sto imparando – l’estrema impotenza di Cristo. È un’esperienza purificante. Quante cose sembrano ora meno importanti, specialmete le ambizioni”. Morì l’8 ottobre 1989. Aveva lasciato scritto: “Tu puoi anche guardare una favela o un villaggio contadino… ma è soltando entrando in quel mondo – e vivendoci – che comincerai a capire cosa significa essere senza potere, essere come Cristo”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Giona, cap.3, 1-10; Salmo 130; Vangelo di Luca, cap.10, 38-42.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura il brano di un articolo di Adalberto Mainardi apparso nel sito “Russianecho.net” col titolo “San Sergio di Radonež, servitore e custode del mistero trinitario” e che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Alla minuscola comunità che dal 1340 si raccoglie intorno a lui, Sergio indicherà come modello delle relazioni fraterne l’umiltà e la sottomissione reciproca: in Sergio l’umiltà e la dolcezza si approfondiscono sempre più, attingono al loro fondamento cristologico: “sempre più debolmente si manifesta il rigore dell’ascesi, ma sempre più forte si avverte quella disarmata mitezza, che arriva nell’igumeno quasi all’impotenza”. “Fate attenzione, fratelli, imploro voi tutti; abbiate anzitutto il timore di Dio, la purezza del cuore e un amore sincero; e con questo l’ospitalità, l’umiltà che viene dalla sottomissione, l’ascesi e la preghiera”. Dietro queste parole che la tradizione ama ripetere, sta la grande intuizione di Sergio: il mistero della Trinità è mistero di comunione profonda nella vita dei credenti, e l’amore nella vita comune dei fratelli è l’icona della vita trinitaria di Dio. L’agape nelle relazioni comunitarie è il riflesso del movimento ineffabile d’amore del Padre verso il Figlio, e che attraverso il Figlio, nello Spirito santo, ci è stato rivelato e comunicato: “Come tu, Padre, sei in me e io in te, siano anch’essi in noi una cosa sola… perché il mondo sappia che tu mi hai mandato e li hai amati come hai amato me” (Gv 17, 21 e 23). San Sergio riconduce al cuore della Trinità, che si autorivela nell’economia di salvezza, quel mistero di sottomissione e abbassamento che contempliamo nel Figlio: prima del monaco Andrej, che la dipinse, Sergio vide l’identità dell’ora di Gesù del quarto evangelo con la gloria dell’Unigenito nel seno del Padre: “Padre, è giunta l’ora, glorifica il Figlio tuo, perché il Figlio glorifichi te… E ora, Padre, glorificami davanti a te, con quella gloria che avevo presso di te prima che il mondo fosse” (Gv 17,1 e 5). (Adalberto Mainardi, San Sergio di Radonež, servitore e custode del mistero trinitario).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 08 Ottobre 2019ultima modifica: 2019-10-08T22:41:21+02:00da fraternidade
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