Giorno per giorno – 06 Ottobre 2019

Carissimi,
“Gli apostoli dissero al Signore: Aumenta la nostra fede! Il Signore rispose: Se aveste fede quanto un granellino di senapa, potreste dire a questo gelso: Sii sradicato e trapiantato nel mare, ed esso vi ascolterebbe” (Lc 17, 5-6). La prima lettura della liturgia di oggi ci portava la sconsolata invocazione del profeta Abacuc: “Fino a quando, Signore, implorerò e non ascolti, a te alzerò il grido: ‘Violenza!’ e non soccorri? Perché mi fai vedere l’iniquità e resti spettatore dell’oppressione? Ho davanti rapina e violenza e ci sono liti e si muovono contese” (Ab 1, 2-3). E potrebbe essere, lo diceva padre Geraldo aprendo la sua omelia, la nostra preghiera di oggi. Com’è che le cose non cambiano? È davvero così scarsa la fede della nostra come delle precedenti generazioni? Forse che sì, forse che no. Noi si presta spesso più attenzione al male che dilaga che ai fiumi di bene che, il più delle volte silenziosamente, operano veri e propri miracoli. Più portentosi della mirabolante trasposizione in mare degli alberi immaginata da Gesù. Quale significato può avere la breve parabola che Gesù fa seguire alla sua parola sulla fede, in cui prende spunto dalle relazioni, per altro inique, tra padrone e servo, per farcene nondimeno ammaestrare? Perché mai, dopo aver compiuto tutto ciò che ci è stato ordinato, dovremmo concludere: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (v.10). Padre Geraldo anche in questo ha visto il nesso con la profezia di Abacuc, là dove si dice: “Il Signore mi disse: Scrivi la visione: essa attesta un termine, parla di una scadenza e non mentisce; se indugia, attendila, perchè certo verrà e non tarderà. Ecco, soccombe colui che non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede” (Ab 2, 2-4). In ogni nostro agire, pur nelle piccole cose (“siamo servi inutili”, da niente), dobbiamo continuare a lavorare, indefessamente, guidati dalla fede che il progetto di Dio si compirà. Si va compiendo. Fernando, dal canto suo, ha letto la parola “inutili” nel senso di “senza utile”, senza lucro, non in vista di un vantaggio personale, che è la modalità che deve caratterizzare la missione. E a questo proposito, citava le polemiche che da qualche tempo accompagnano la preparazione del Sinodo sull’Amazzonia, che si è aperto oggi a Roma. Quali interessi si nascondono dietro a questo evento? Il sospetto, veicolato ad arte dal governo Bolsonaro (e non solo), trova consensi anche in settori del tradizionalismo cattolico. Ma pure in questo caso, la risposta non può che essere: nessun interesse della Chiesa in quanto tale, ma solo la proposta evangelica (che non mira a fare proselitismo) in difesa della natura e della vita di quanti vi abitano, nel quadro di un’ecologia integrale, che rispetti e valorizzi la diversità di biomi, popoli e culture. “Che tutti abbiano vita e l’abbiano in abbondanza”.

I testi che la liturgia di questa XXVII Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Abacuc, cap.1, 2-3; 2, 2-4; Salmo 95; 2ª Lettera a Timoteo, cap.1, 6-8. 13-14; Vangelo di Luca, cap.17, 5-10.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e Chiese cristiane.

Oggi è memoria di Bruno di Colonia, monaco fondatore della Certosa, e di William Tyndale, riformatore e martire.

Nato, nel 1030, a Colonia (nell’attuale Germania), in una nobile famiglia, Bruno di Hartenfaust, una volta ordinato sacerdote, si dedicò per venticinque anni all’insegnamento della Teologia, nell’archidiocesi di Reims. A cinquantaquattro anni, dopo un ritiro nell’abbazia di Molesmes, in Francia, decise, con sei compagni, di darsi alla vita eremitica nella regione allora disabitata della Chartreuse. Abitando in piccole abitazioni individuali, i monaci presero a vivere un’esistenza austera, silenziosa e laboriosa, riunendosi solo per pregare insieme l’Ufficio Divino. Nacque così l’Ordine dei Certosini. Quattro anni più tardi, il papa Urbano II, suo antico allievo, lo volle a Roma come suo consigliere, per dar mano alla riforma della Chiesa. Ma l’atmosfera che si respirava alla corte pontificia e i crescenti dissidi tra il papa e l’imperatore non dovettero piacere granché all’austero monaco, che nel 1092, preferì tornare alla sua vita, recandosi questa volta in Calabria, dove fondò l’eremo di Serra, nei pressi di Squillace. Lì morì il 6 ottobre dell’anno 1101.

William Tyndale era nato nel 1493 nella contea di Gloucester. Poco si sa della sua giovinezza, salvo il fatto che studiò ad Oxford e a Cambridge. Divenuto prete, subì presto l’influenza delle idee riformatrici di John Wycliff, che sosteneva la necessità per la gente comune di riappropriarsi della Bibbia. Per fronteggiare questa “minaccia”, da oltre un secolo, nel 1408, era stata approvata una legge che proibiva ogni traduzione della Bibbia in inglese e comminava la scomunica a chiunque si azzardasse a leggere la Sacra Scrittura. Sorpreso per l’ignoranza che caratterizzava gran parte del clero, Tyndale dichiarò un giorno ad uno dei suoi colleghi: “Se Dio mi darà vita a sufficienza, farò sì che un qualunque popolano arrivi a conoscere la Bibbia più di voi”. Fino ad allora, l’unica traduzione disponibile della Bibbia era quella manoscritta da Wycliffe, distribuita clandestinamente dai Lollardi. Basata sulla Vulgata latina e non sui testi originali ebraici e greci, era tuttavia piuttosto approssimativa. Tyndale chiese allora al Vescovo di Londra, Cuthbert Tunstall, il permesso di intraprenderne una nuova. Ma, invano. Deluso, nel 1524, lasciò il Paese, recandosi ad Amburgo, dove si dedicò a tempo pieno a quello che ormai considerava il compito della sua vita. Scoperto e denunciato, fuggì a Worms, dove riuscì a dare alle stampe e ad inviare in Inghilterra la prima edizione della traduzione del Nuovo Testamento in lingua corrente. Era il 1526. Il vescovo Tunstall non gradì e ordinò di bruciare nella pubblica piazza tutte le copie sequestrate. Trasferitosi ad Anversa, dove contava di essere piú al sicuro, Tyndale pubblicò nel 1530 il Pentateuco e la seconda edizione del Nuovo Testamento. Sfortunatamente, nel maggio del 1535, tradito da un suo connazionale di nome Henry Phillips, fu arrestato e rinchiuso nella prigione di Vilvoorde, nei pressi di Bruxelles. Processato da un tribunale della Chiesa d’Inghilterra, che Enrico VIII aveva da poco reso indipendente da Roma, Tyndale fu condannato a morte. Prima di essere strangolato e poi bruciato, in piazza a Bruxelles, il 6 ottobre 1536, gridò: “Signore, apri gli occhi del Re d’Inghilterra!”. E l’anno successivo, di fatto, Enrico VIII avrebbe concesso la sua approvazione alla traduzione e alla diffusione della Bibbia di Tyndale.

È tutto, per stasera. Noi ci congeda, lasciandovi alla lettura di un brano di un certosino anonimo. Lo troviamo sotto il titolo “Fisionomia spirituale di San Bruno” nel sito “San Bruno e i certosini”, ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Lo sguardo di Bruno vede Dio soprattutto come bontà: “Vi può essere qualcosa di più buono di Dio? Anzi qual altro bene può esservi fuori di Dio solo? Perciò l’anima santa che in parte comprende ( … ) la bellezza di detto bene, accesa di divino amore, esclama: l’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente”. La bontà di Dio è dunque ciò che ha più di ogni altra cosa attirato e affascinato la sua anima, tanto che “traboccante dell’esperienza della bontà di Dio, è anch’egli un’anima di una estrema dolcezza”, e le immagini della tenerezza materna e della mitezza dell’agnello saranno quelle che i suoi figli di Calabria useranno per descrivere la sua bontà, di essa parleranno parecchi titoli funebri, particolarmente quelli composti da coloro che avevano personalmente conosciuto Bruno. Questa bontà e dolcezza sono indubbiamente la sorgente dello spirito di moderazione e di equilibrio che traspare dalla sua figura e che lui comunicherà alla sua famiglia religiosa, segno di un’anima pacificata e di un profondo ordine interiore. Così, pur vivendo una regola austera, egli non teme di godere delle bellezze della natura, perché sa che l’arco troppo teso diventa inutile, e per questo disapprova un’ascesi corporale che potrebbe compromettere la salute. Ma egli sa che questo equilibrio non è facile da ottenere: è il risultato di uno sforzo; la pace del cuore è il frutto di una continua lotta con se stessi, sostenuta per amore di Dio: “Dio rende ai suoi atleti, per la fatica della lotta, la ricompensa desiderata, la pace che il mondo ignora e la gioia nello Spirito Santo”. Questa gioia nello Spirito è un’altra caratteristica dell’animo di Bruno; è, possiamo dire, il tratto finale della figura di questo santo, il necessario coronamento del suo ritratto. Questa gioia brillava continuamente sul suo viso: “Aveva sempre il volto lieto”, scrivevano i suoi figli di Calabria, annunciandone la morte. La gioia è presente in più punti della lettera a Rodolfo, e tutto il messaggio ai suoi figli di Certosa ne trabocca. Era la gioia di poter vivere senza riserve per Dio, di poterlo amare senza divisioni, era “la gioia divina che dona la solitudine e il silenzio dell’eremo a quelli che li amano” e che è conosciuta “solo da quelli che ne hanno fatto l’esperienza”. (Un certosino, Fisionomia spirituale di San Bruno).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Ottobre 2019ultima modifica: 2019-10-06T22:38:53+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo