Giorno per giorno – 31 Agosto 2019

Carissimi,
“Avverrà come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì” (Mt 25, 14-15). Lungo i secoli, qualche ingegnoso cristiano, più interessato a moltiplicare i suoi beni, che a condividerli, ha preso un po’ troppo alla lettera la parabola, per giustificare così quella che potremmo chiamare l’etica (assai poco etica) del capitalismo (e della teologia della prosperità). In realtà, Gesù intendeva proprio il contrario, dato che per lui il discepolo è chiamato a vendere tutti i suoi beni e a condividerne il ricavato con i poveri (cf Mt 19, 21). Ciò che il signore della parabola affida in misura differente ai tre servitori, immagine della comunità, è l’annuncio-testimonianza della buona notizia del regno – l’amore del Padre da cui, in Gesù, ci si sente raggiunti e che siamo chiamati a “investire”, condividendolo con gli altri – affidata a ciascuno secondo le sue capacità di comprensione e di azione e la concreta situazione in cui si trova ad operare. Il nostro far fruttare il talento ricevuto consiste dunque nel moltiplicarlo nell’amore solidale con i poveri, in parole e gesti concreti. Il nostro seppellire il talento consisterà, invece, travisandone radicalmente il significato, nel ripiegarci su noi stessi, vivendo alla mercé del nostro egoismo, e finendo, però, così, per perdere tutto, compresi noi stessi.

Il calendario ci porta oggi le memorie di Mons. Leónidas Proaño, pastore povero tra i suoi indigeni; del Card. Carlo Maria Martini, “padre della Chiesa”, e di John Leary, giovane al servizio della vita e della pace. A tempo pieno.

Vescovo di Riobamba (Equador), taita (papà) e liberatore degli indios, profeta della Chiesa latino-americana, Leónidas Eduardo Proaño Villalba era nato il 29 gennaio 1910, a San Antonio de Ibarra, nella Provincia di Imbabura, in Ecuador, figlio unico, solo perché i fratelli, nati prima di lui, erano morti prematuramente. Quando, terminata la scuola, stava frequentando filosofia, decise di farsi prete, per essere “parroco di campagna e dedicarsi agli indigeni”. Ordinato presbitero nel 1936 e consacrato vescovo di Riobamba nel 1954, scelse di ascoltare, condividere, dialogare con la gente, vittima secolare dell’egoismo, della menzogna istituzionalizzata, della miseria e della disperazione. Diede così avvio alla “nuova evangelizzazione” che intendeva promuovere l’organizzazione contadina, la sua autonomia economica e il riscatto della cultura indigena. Lo chiamarono il “vescovo rosso”. Lui rispose: “Non sono marxista, né comunista, cerco solo di essere fedele al Vangelo”. Disse anche: “Il capitalismo è freddo, come è freddo tutto ciò che è metallico. Non gli importa degli uomini. Gli importano i profitti. E gli uomini e i popoli, gli importano solo nella misura in cui gli garantiscono dei profitti. Famelico com’è di profitti, non esita a divorare uomini e popoli. È freddo, senza cuore”. Quando, compiuti 75 anni, si ritirò dalla guida della diocesi, accettò le sofferenze causate da un cancro, senza ricorrere a cure straordinarie. Le sue ultime parole, in piena lucidità di mente, furono espressione di un drammatico esame di coscienza e denunciarono la grande responsabiltà della Chiesa per il peso sopportato dagli indios durante i secoli. Il Taita-Vescovo entrò nella casa del Padre, accolto da milioni di fratelli indigeni, il 31 agosto 1988.

Nato a Torino il 15 febbraio 1927, Carlo Maria Martini entrò diciassettenne nella Compagnia di Gesù, nel 1944, e fu ordinato presbitero dal Card. Maurilio Fossati, il 13 luglio 1952. Dopo aver conseguito il dottorato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana nel 1958, proseguì gli studi presso il Pontificio Istituto Biblico, di cui nel 1969 divenne rettore, affermandosi nel contempo come biblista di fama internazionale. Nel 1978 venne nominato da Paolo VI rettore dell’Università Gregoriana. E nella Quaresima dello stesso anno venne chiamato in Vaticano a predicare il ritiro quaresimale al Papa e alla curia romana. Giovanni Paolo II, nel dicembre dell’anno successivo, lo elesse Arcivescovo di Milano, consacrandolo personalmente il 6 gennaio del 1980. Nella diocesi ambrosiana, padre Martini si fece promotore della “Scuola della Parola” per facilitare ai giovani l’incontro con la Sacra Scrittura e il suo approfondimento, secondo il metodo della lectio divina. Altra iniziativa, a suo modo clamorosa, fu la “Cattedra dei non credenti”, con la quale invitò la Chiesa a porsi in ascolto delle posizioni che, su varie tematiche che interpellano la coscienza dell’uomo contemporaneo, sono venute maturando in ambito laico e in ambienti che non condividono la fede cristiana, sviluppando con essi un dialogo franco, rispettoso e reciprocamente arricchente. Questa attitudine all’ascolto di una Parola, che ci raggiunge contemporaneamente dalla Scrittura, dall’evento di Gesù e dall’umanità concreta in cui ci muoviamo e che si traduce nella proposta di una verità non preconfezionata, ma da ricercare ogni volta insieme all’altro che incontriamo, ci pare il segno che caratterizzò il ministero e il magistero pastorale del card. Martini. Compreso quello che copre l’arco di tempo successivo alle dimissioni dalla cattedra di Milano, per sopraggiunti limiti di età, nel 2002, durante il tempo trascorso nell’amata Gerusalemme, e, dopo il ritorno in Italia, nel 2007 fino al ritorno alla casa del Padre, avvenuto nel pomeriggio del 31 agosto 2012, all’Aloisianum di Gallarate. Le ultime parole, nella messa concelebrata il giorno prima della morte, le ha pronunciate lui, che da mesi non aveva più voce: “La messa è finita, andate in pace”. Papa Francesco l’ha definito “padre della Chiesa” e “profeta e uomo di discernimento e pace”.

Non sono molte le notizie che abbiamo su John Leary, ma sappiamo che, quando l’Amico gli si fece incontro definitivamente, era il 31 agosto 1982. Lui, come ogni giorno, stava percorrendo di corsa la strada che separa il Centro di Pax Christi, a Cambridge, dalla Haley House, la comunità del Catholic Worker a Boston, dove viveva. Un infarto fulminante lo fermò a metá del cammino. John aveva solo ventiquattr’anni, di cui, gli ultimi sei, li aveva trascorsi a Boston, studiando all’Harvard College e dedicando il resto del suo tempo ai prigionieri, ai senzatetto e agli anziani o coinvolgendosi in proteste e manifestazioni contro le spese militari, la pena di morte, l’aborto. Un paio di volte, era persino finito dentro. Giusto poco prima di morire si era laureato con pieni voti e lode in Scienze Religiose ad Harvard. Quanti lo incontravano restavano colpiti dalla sua allegria, dalla sua semplicità, dalla sua saggezza, così rara nei giovani della sua età. John era cresciuto in una modesta famiglia cattolica di origine irlandese nel New England. Ispirato da figure come Dorothy Day e Thomas Merton, aveva scoperto la via nonviolenta della croce di Gesù, nella dedizione agli altri, e se ne era appassionato. Partecipava ogni giorno all’Eucaristia, passava ore a leggere la Bibbia, pregava il rosario, e faceva spesso ritiri in un monastero trappista locale. Mentre faceva jogging, soleva recitare la preghiera del Nome. Sicché, quell’ultimo pomeriggio, dev’essere successo che Lui, a sentirlo per l’ennesima volta chiamare: “Signore Gesù Cristo, figlio del Dio vivo”, gli si è fatto incontro e gli ha detto: Eccomi. E se l’è portato via.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1ª Lettera ai Tessalonicesi, cap.4, 9-11; Salmo 98; Vangelo di Matteo, cap.25, 14-30.

La preghiera del Sabato è in comunione con le Comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano del Card. Carlo Maria Martini. Tratto dal suo libro “Credo la vita eterna” (Paulus), è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Per comprendere meglio il destino del nostro corpo, vorrei anzitutto ricorrere al racconto della trasfigurazione di Gesù. L’evangelista Luca, non sapendo in quale modo indicare la gloria del corpo di Gesù, dice che le sue vesti divennero luminose come la folgore e che la figura del suo volto “cambiò d’aspetto”, divenne altro (Lc 9, 29). Risplendette, cioè, di una bellezzza che è “altro” rispetto a quanto noi conosciamo: era la bellezza di Dio, del Santo. È importante sottolineare che, nel mezzo della sua vita sulla terra, il corpo di Gesù rivelò la sua gloria nascosta, riverbero anticipato di quella finale che si manifesterà nella risurrezione. La luce divina si comunica al corpo non solo al termine del cammino; tutta la vita è un lento cammino di illuminazione progressiva, che pervade ogni giorno sempre più la nostra esperienza quotidiana. È una voce celeste che ci offre il principio di questa illuminazione: “Ascolate lui” (Lc 9, 35). Ascoltando lui, Parola fatta carne, che ha vissuto in pienezza il comando dell’amore, ogni carne partecipa della sua gloria. Il volto del Padre, che tutti cerchiamo come luce del nostro volto e che nessuno può vedere, è quello del Figlio e di chiunque, ascoltandolo, si fa suo fratello. “Viene l’ora, ed è questa – scrive l’evangelista Giovanni – in cui i morti udranno la voce del Figlio di Dio, e quelli che l’avranno ascoltata, vivranno” (Gv 5, 25). E ancora: “Sappiamo che siamo passati dalla morte alla vita, perché amiamo i nostri fratelli” (1Gv , 13). La vita eterna, che nel futuro germoglierà in pienezza, ci è già data: è la qualità di vita propria di chi ascolta la parola del Figlio e vive da fratello. È l’esperienza vissuta anche da san Paolo, che gli fa dire: noi tutti a viso scoperto, riflettendo come in uno specchio la bellezza di Dio, veniamo trasformati a sua immagine, di gloria in gloria (cf 2Cor 3, 18). Se quando nasco ho un certo volto che ho ricevuto come in eredità, quando sono cresciuto mi ritrovo il volto che ho cercato di costruirmi. Perché il volto è la sedimentazione delle mie esperienze dolorose e gioiose, di schiavitù e di libertà, di egoismo e di amore: manifesta il buio o la luce delle parole seminate e coltivate nel mio cuore. È un grande conforto capire che la nostra esistenza è un processo di trasfigurazione per diventare sempre più conformi all’immagine del Figlio di Dio. (Carlo Maria Martini, Credo la vita eterna).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 31 Agosto 2019ultima modifica: 2019-08-31T22:36:40+02:00da fraternidade
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