Giorno per giorno – 22 Agosto 2019

Carissimi,
“Il regno dei cieli è simile a un re, che fece una festa di nozze per suo figlio. Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire” (Mt 22, 2-3). Due parabole in una, quelle che ci ha presentato il vangelo di oggi. Ambedue con esiti che ci dovrebbero un po’ preoccupare. Dunque, il regno di Dio è come una gran festa di nozze, al cui centro c’è la proposta e il significato di Gesù – la vita come dono per la vita di tutti -, che sposa l’umanità. Nozze che sono anticipate, rese visibili (o no), nella testimonianza offerta dalla chiesa, simboleggiata dagli invitati. Che, guarda un po’, quando arriva il momento, ed è sempre il momento, c’è sempre chi accampa una scusa per non parteciparvi, cioè per non testimoniare il lieto e solidale convivio a cui Dio ci chiama. Che non è il rifiuto di andare al culto, o alla messa, ma il negarsi a ciò a cui questa e quello ci rinviano, all’uscire di chiesa. E lo fanno in nome di “cose più importanti”, tipo i propri affari, i propri interessi, le proprie ricchezze. Che sappiamo tutti come va a finire. Quando prevalgono gli interessi di parte, la vita in società e tra le diverse società diventa una guerra di tutti contro tutti, che ci rende violenti, aggressivi, omicidi. E finisce male, prima per i profeti che Dio ci invia, ma poi anche per gli altri che si scannano a vicenda, senza che sia il “re”, com’è detto nella parabola, a prendere l’iniziativa di sterminarli. Ci si pensa da noi, per la logica interna delle nostre scelte. Dio comunque non desiste dal suo progetto e, venuti meno gli invitati della prima ora, o buona parte di essi, convoca quanti altri è possibile trovare in giro, “buoni e cattivi” (v.10), secondo il racconto. Ma, ecco un’altra sorpresa: passando tra gli invitati, ne scopre uno senza la “veste nuziale”, che, all’entrata dovevano aver provveduto a distribuire. E che sta a simboleggiare il comportamento che deve contraddistiguere i testimoni del Regno. Infiltrati ce n’è sempre, dev’essersi detto il Re, del tipo, chi si fa veder di chiesa, ma si comporta peggio degli altri, o lo fa per finalità nascoste, acquistarsi benemerenze, guadagnare voti e quant’altro. Qui da noi, abbiamo addirittura un presidente, che gioca a fare l’infiltrato senza aver ancora deciso bene di quale chiesa. Ma Dio non ci sta: proprio come Gesù aveva fatto coi mercanti del tempio (cf Mt 21, 13 ss), mette l’infiltrato alla porta, “dove è pianto e stridore di denti” (v.13). Come a dire, però, anche: se c’è pianto e rabbia, c’è spazio per il pentimento. Che possa essere così, per tutti quanti, compresi noi, si dimenticassero di ciò che è richiesto per testimoniare la bellezza del Regno di Dio.

Il calendario ci porta oggi la Festa di Maria, Contadina di Galilea, che si volle serva e che Dio si scelse come regina.

Come dire: Servire Dio (il suo progetto di liberazione dell’umanità, di ogni uomo e donna) è regnare. L’unico modo di regnare che Lui riconosce come suo. A maggior ragione nelle sue chiese. Ogni altra maniera si risolve quasi sempre in un’impresa a delinquere.

Oggi facciamo memoria anche di Alexis d’Ugine, presbitero ortodosso; e di Julio Lois Fernández, teologo dei poveri.

Alexis era nato il 1° luglio 1867 nel villaggio di Fomistchevo (distetto di Viazma), in Russia, nella famiglia di Ivan Medvedkoff, un semplice prete di campagna, che morì poco dopo la nascita del figlio. Nonostante le condizioni povere della famiglia, Alexis potè frequentare l’intero ciclo di studi classici che era offerto a quel tempo ai figli del clero sposato. Dopo aver lavorato per alcuni anni presso la chiesa dedicata a S. Caterina martire, a San Pietroburgo, ed essersi sposato, potè vedere coronato il suo desiderio di essere ordinato sacerdote, il 26 dicembre 1895. Già dal gennaio seguente si vide affidata una parrocchia molto povera, dedicata alla Dormizione della Vergine, a Vruda (provincia di San Pietroburgo), dove resterà 23 anni. Poco dopo lo scoppio della rivoluzione bolscevica del 1917, nel clima di persecuzione religiosa che si affermò, padre Alexis fu arrestato, picchiato e torturato a più riprese. Condannato alla fucilazione, ebbe tuttavia salva la vita. Nel 1919, come molti altri compatrioti, si recò in esilio in Estonia, dove lavorò duramente, prima come minatore, poi come guardiano notturno, senza tuttavia mai tralasciare di celebrare la Divina Liturgia. Dopo la morte della moglie, che lo lasciò solo con due figlie, nel 1929 chiese e ottenne di trasferirsi in Francia, dove il metropolita Euloge Guéorguievsky lo nominò rettore della piccola chiesa di Saint-Nicolas d’Ugine, in Savoia, il 15 dicembre dello stesso anno. Le sue relazioni con la comunità russa in esilio furono certamente la prova più dolorosa che gli toccò vivere, dovendo fare i conti con le lotte intestine che l’attraversavano e con i ripetuti tentativi degli opposti schieramenti di influenzarlo e di metterlo contro gli altri. Di carattere dolce e umile, si sforzò in diversi modi di essere per tutti fonte e causa di pace, quali fossero le condizioni sociali, gli orientamenti politici ed ecclesiali dei suoi fedeli. La lotta e le persecuzioni che un piccolo gruppo di ex-militari gli mosse, con il tentativo di metterlo in cattiva luce agli occhi del metropolita, non riuscì ad ottenerne l’allontanamento, ma contribuì, assieme al duro lavoro e alle altre prove sostenute in passato, a minarne la salute. Nel luglio 1934, padre Alexis fu ricoverato all’ospedale di Annecy, dove gli fu diagnosticato un tumore allo stomaco in via di generalizzazione. Nelle ultime settimane di vita, ricevette nella sua camera d’ospedale la visita di un numero crescente di persone, desiderose dei suoi consigli spirituali. A quanti l’avevano calunniato, mandò a chiedere perdono, affermandosi colpevole. Il giorno prima della morte, dopo essersi confessato e aver ricevuto la comunione, cantò a lungo inni religiosi. Morì all’alba del 22 agosto 1934. È stato canonizzato dal Patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo, il 4 febbraio 2004.

Non sono molti i dati di cui disponiamo circa la biografia di Julio Lois Fernández, ma ci dicono quanto basta. Nato a Pontevedra (Galizia – Spagna) nel 1935, aveva collaborato fin da giovane con la Juventud Obrera católica (JOC) e con la Hermandad Obrera de Acción católica (HOAC). Licenziato in Diritto all’Università di Santiago de Compostela, diplomato in Sociologia Pastorale a Roma, e dottore in Teologia all’Università Pontificia di Salamanca, la sua formazione religiosa coincise con il processo conciliare del Vaticano II, di cui assorbì l’ansia per una vera e profonda riforma della Chiesa, saldamente fondata sull’evento di Gesù, in grado di far propria la lezione della comunità delle origini, attenta ai segni dei tempi, capace di passi coraggiosi sul terreno del dialogo ecumenico e dell’affermazione della libertà religiosa, pronta a raccogliere le sfide che le venivano dalla storia concreta di uomini e donne del suo tempo. Tra il 1966 e il 1970 fu professore nel seminario di Cochabamba (Bolivia), oltre a prestare il suo servizio pastorale nelle parrocchie della periferia, il che contribuì a segnare in profondità la vocazione teologica, che non aveva abbandonato. Tornato in Spagna, svolse le funzioni di coadiutore della parrocchia di Santo Tomás de Villanueva, nel quartiere madrilegno di Vallecas, dove diede forte impulso ai movimenti cattolici di base. Come professore, insegnò Cristologia a generazioni di preti e di laici in tutta la Spagna, una Cristologia incarnata e liberatrice. Il teologo Xavier Pikaza lo ricorda così: “È stato uomo di una pace immensa, critico radicale, ma a partire dalla sua testimonianza di vita, senza gesti altisonanti, senza critiche meschine… È stato uomo di tutti, in dialogo con vescovi e con operai, con la gente del barrio-barrio di Vallecas e con i professori. È stato uomo di pace, per questo lo hanno eletto presidente della “Asociación Juan XXIII”, perché poteva rappresentare tutti. È stato amico dei poveri e amico dei loro amici, un intellettuale prodigioso, che ha preferito dedicare la sua vita e la pastorale reale della vita (dei giovani) allo scrivere grandi libri”. È scomparso il 22 Agosto 2011.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro dei Giudici, cap.11, 29-39a; Salmo 40; Vangelo di Matteo, cap.22, 1-14.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

È tutto. Noi ci congediamo qui, lasciandovi a una citazione di Julio Lois Fernández tratta da un suo scritto, apparso col titolo “Cristo y la opción por el pobre” in “Selecciones de Teología” 49/193 (2010). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Va ricordato che la lingua greca, in cui sono stati scritti i vangeli, ha due termini per riferirsi ai poveri: pénes e ptochós. Il primo designava le persone costrette a lavorare duramente per soddisfare i loro bisogni fondamentali. Il secondo, le persone radicalmente bisognose che si trovavano in una situazione di assoluta dipendenza. Potremmo dire che Gesù era un pénes e non propriamente un ptochós. Quando Gesù lasciò Nazaret per svolgere il suo compito di annunciare e rendere presente il Regno di Dio, scelse una forma concreta di vivere marginale e in qualche modo peregrinante, tipica di un “carismatico itinerante” (G. Theissen), senza un posto fisso “dove posare il capo” (Mt 8, 20). Come indica Meier “abbandonò i suoi mezzi di sostentamento e il luogo di origine, si convertì in ‘disoccupato’ e itinerante al fine di assumere un ministero profetico e non sorprende che abbia incontrato incredulità e rifiuto quando tornò nel suo villaggio a insegnare nella sinagoga… Contando basicamente sulla buona volontà, sul sostegno e sui contributi economici dei suoi seguaci, Gesù divenne intenzionalmente marginale agli occhi degli ebrei normali e ordinari della Palestina”. In questo, il suo girovagare, come ha sottolineato J. M. Castillo, appare circondata dalla gente semplice (óchlos), in contrapposizione ai dirigenti, ai nobili e alla classe superiore. Un altro fatto significativo è che il gruppo dei suoi discepoli più intimi sembra essere composto da persone appartenenti al óchlos. E sebbene non conosciamo in dettaglio lo status dei dodici, sappiamo che quattro di loro erano pescatori, un altro pubblicano e, almeno un altro, molto probabilmente, uno “zelota”. Sappiamo anche che tra i suoi seguaci più fedeli, deve essere incluso un numero significativo di donne che, nel mondo ebraico dei tempi di Gesù, contavano molto poco. Infine, è certo che la vita storica di Gesù finì “fuori della porta della città” (Eb 3, 12), “gettato fuori della vigna” (Mc 12, 8), “subendo la morte di un escluso” (Pannenberg) , che non poteva applicarsi a nessun cittadino romano. Morì appeso al legno di una croce, morte destinata ai maledetti da Dio (cf Gal 3, 13 e Dt 21, 23). Come dice Meier eloquentemente, “dal punto di vista romano Gesù subì la terribile morte degli schiavi e dei ribelli. E, agli occhi degli ebrei, cadde sotto il rigore di Dt 21, 23: Dio maledice colui che è appeso”. Per entrambi i gruppi, il processo e l’esecuzione di Gesù hanno fatto di lui un emarginato in modo atroce e abominevole. (Julio Lois Fernández, Cristo y la opción por el pobre).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 22 Agosto 2019ultima modifica: 2019-08-22T22:44:15+02:00da fraternidade
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