Giorno per giorno – 29 Luglio 2019

Carissimi,
“Gesù disse a Marta: Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo? Gli rispose: Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo” (Gv 11, 25-27). Il vangelo proposto per questa memoria di Marta (nella chiesa cattolica), nonché di Maria e di Lazzaro (nella chiesa anglicana e nei calendari monastici), avrebbe potuto avere come premessa l’annotazione che l’evangelista aveva posto poco prima, quando aveva scritto: “Gesù voleva molto bene a Marta, a sua sorella e a Lazzaro” (v. 5). Coltivare l’amicizia per Gesù, sentirsi raggiunti dal suo amore e riverberarlo, è stato un po’ il tema di questa giornata di ritiro che alcuni di noi hanno tenuto oggi in monastero. Tutti noi abitiamo a Betania, “casa del povero”, in attesa ogni volta di una sua visita, soprattutto quando sperimentiamo infermità e morte di qualcuno di noi, o attorno a noi, per scoprire un significato nuovo anche a ciò che ferisce e uccide la speranza. Tutti noi siamo Lazzaro (“Dio-aiuta”), che è in qualche modo sinonimo di Gesù (“Dio-salva”), nelle due prospettive diverse di chi riceve e di chi dà aiuto e salvezza. Ciò che è vissuto come esperienza dello scoraggiamento e della disperazione, al limite della perdita di fede (“dove è mai Dio?”), può rivelarsi occasione di un rinnovato incontro con Lui, nella percezione del suo operare salvifico che ci restituisce ad una vita, la sua, niente meno che eterna. Ora, se noi ci siamo davvero sentiti raggiunti, perdonati, salvati dall’agire di Gesù, cosa facciamo poi della nostra esistenza – la nostra casa – nei confronti degli altri innumerevoli Lazzaro che incontriamo? Doniamo loro la Parola di vita e salvezza che abbiamo ricevuto, o, indifferenti, li lasciamo morire di stenti alla nostra porta, come l’altro Lazzaro di cui racconta la parabola lucana (cf Lc 16, 19-31)? Su questo si gioca la nostra fede.

Oggi il calendario ci porta la memoria di Marta, Maria e Lazzaro, amici e ospiti del Signore; cui noi aggiungiamo quella di William Wilberforce, politico abolizionista, e quella di Yves Lescanne, amico dei “nanga mbôkô”, martire della strada, in Camerun.

Marta, Maria e Lazzaro erano i tre fratelli di Betania, a cui, secondo il Vangelo, Gesù voleva molto bene (cf Gv 11,5) e nella cui casa il Maestro soleva ospitarsi (cf Lc 10,38ss.): esempio di fede, di accoglienza pronta, di servizio generoso, di disponibilità all’ascolto. Sant’Agostino, parlando di loro, scrisse: “Nessuno di voi dica: Beati quanti ebbero la sorte di ospitare il Signore in casa loro […], perché, di fatto, voi potete avere un uguale privilegio, dato che lo stesso Signore affermò: – Ogni volta che farete ciò ad uno dei più piccoli tra i miei fratelli, è a me che l’avrete fatto” (Agostino, Discorso 103).

William Wilberforce era nato il 24 agosto 1759 a Hull, in Inghilterra nella famiglia del ricco commerciante Robert Wilberforce. Rimase orfano di padre all’età di nove anni e, diciassettenne, fu inviato a studiare al St. John’s College a Cambridge. Dove però, agli studi seri, preferì di gran lunga l’allegro e dissipato mondo che gli si offriva fuori dalle mura. Senza tuttavia particolari eccessi, tanto che riuscì, bene o male, a laurearsi. Non avendo granché voglia di seguire le orme paterne, quasi per scherzo decise di darsi alla politica. Fu così che, nel 1780 a soli ventun anni, si candidò e fu eletto alla Camera dei Comuni. Quello scherzo si sarebbe tradotto poi in serio impegno politico e sarebbe durato cinquant’anni. Il 15 aprile 1797, conobbe Barbara Ann Spooner, e la sposò sei settimane più tardi. Insieme ebbero sei figli. Nel frattempo, la sua vita di fede aveva conosciuto una svolta decisiva. Era successo che, dopo aver trascorso la sua giovinezza senza particolari interessi in materia di religione, durante un viaggio in Francia e in Italia con Isaac Milner, suo antico compagno di università, prese a leggere la Bibbia e a trovar tempo per la preghiera. Sicché al ritorno in patria, nel 1785, maturò la decisione di un cambiamento radicale nella sua vita, che ebbe riflessi profondi anche nella sua attività politica. Nel 1787 presentò alla Camera dei Comuni una mozione per l’abolizione del commercio degli schiavi. La battaglia sarebbe durata vent’anni, ma la sua costanza fu premiata: il 25 marzo 1807 lo Slave Trade Act entrò in vigore. Certo, abolito il commercio, restava però la schiavitù. E Wilberforce continuò per molti anni le sue campagne, volte ad eliminarla. Il 26 luglio 1833, già sul letto di morte, ebbe la gioia di sapere approvata la legge che l’aboliva definitivamente. Dopo tre giorni, la mattina del 29 luglio, William Wilberforce si spense.

Di Yves Lescanne sappiamo solo che era nato in Gironda, il 20 marzo 1940, ed era un “piccolo fratello del Vangelo”, la stessa famiglia di Carlo Carretto, di Arturo Paoli e dei nostri amici Yves, Gianluca, Alberto, Franco e Gabriele, della fraternità di Spello. Che ha le sue radici nella spiritualità di Charles de Foucauld. Yves viveva in Camerun, dove a partire dagli anni 70 aveva cominciato a occuparsi dei “nanga mbôkô”, i ragazzi di strada di Yaoundé, poi dei minori in carcere e di quelli che, scontata la pena, ne uscivano. Aveva così posto le basi della missione di quella fraternità. Quanti erano ragazzini allora lo ricordano duro e determinato a difenderli, ad aiutarli a ritrovare dignità e speranza, fino a rischiare spesso la vita per loro. Confidò una volta: “Forse soffriamo più noi a generare questi figli dal nostro cuore che le loro mamme dal ventre”. E ancora: “Questi problemi si risolvono in ginocchio”. Fu ucciso a colpi di scure la notte del 29 luglio 2002, a Maroua, nell’estremo nord del Camerun, da uno dei “nanga mbôkô” che la comunità aveva aiutato a trovare un lavoro, ma che poi aveva preso altre strade.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono propri della memoria di Marta, Maria e Lazzaro, che celebriamo e sono tratti da:
1ª Lettera di Giovanni, cap.4,7-16; Salmo 34; Vangelo di Giovanni, cap.11, 19-27.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni dell’India, Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

Ricorre oggi il primo anniversario della morte, nel monastero di San Macario, nel deserto di Scete, di Anba Epiphanius. Nato il 27 giugno 1954 a Tanta, Egitto, il giovane Tadros Zaki Tadros, dopo gli studi in medicina, era entrato nel monastero, reso celebre da Matta el Meskin, il 17 febbraio 1984, ed era stato ordinato monaco il giorno il Sabato Santo, 21 aprile 1984, ricevendo il nome di Epiphanius. Grazie alle sue numerose qualità, gli furono presto affidate diverse funzioni a servizio della comunità: la sua grande devozione, la sua disponibilità e la sua affabilità fecero di lui il miglior candidato per curare e servire i malati. Il suo amore per la Scrittura e la Tradizione portarono anche ad affidargli la cura della biblioteca e la redazione della rivista del monastero. Nel 2002, fu ordinato presbitero e nel 2013, in seguito a un sondaggio condotto su iniziativa di papa Tawadros II, fu votato dalla maggioranza dei monaci per diventare superiore del monastero e fu per questo ordinato vescovo dal patriarca, mantendendosi tuttavia nella semplicità di sempre. Domenica 29 luglio 2018, prima dell’alba, mentre si recava in chiesa per celebrare la Risurrezione di Cristo e la Divina Liturgia, fu brutalmente assassinato da due monaci.

Sei anni fa, in questo giorno, scompariva nel nulla il gesuita P. Paolo Dall’Oglio, rapito, a Raqqa, in Siria, forse da un gruppo di estremisti islamici vicino ad al-Qāʿida. Il religioso, fortemente impegnato nel dialogo interreligioso con il mondo islamico, è noto per aver rifondato, in Siria, negli anni Ottanta, la comunità monastica cattolico-siriaca Mar Musa (Monastero di san Mosè l’Abissino), erede di una tradizione cenobitica ed eremitica risalente al VI secolo. Noi si continua a pregare perché l’angoscia e la speranza di confratelli, famigliari e amici trovi presto una risposta.

Stamattina un nuovo e feroce massacro si è avuto nel carcere di Altamira, nello Stato del Pará. Provocato da uno scontro tra bande rivali ha lasciato 57 morti, sedici dei quali decapitati. È il più grave massacro di detenuti, secondo solo alla strage del Carandiru, che costò 111 morti nel 1992. Ciò che lascia allucinati è leggere i commenti, nelle reti sociali, che “gente per bene”, persino “cristiani” riservano alla tragedia. Dando espressione alla peggior feccia che si possa immaginare. Che Dio e il suo messaggio di vita possa lasciarsi incontrare anche da loro.

Per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Anba Epiphanius, che troviamo sotto il titolo di “Le prove sono espressione dell’amore di Dio” nel sito di spiritualità cristiana ortodossa “Nati dallo Spirito”. Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Quale è lo scopo delle sofferenze per il cristiano? La Scrittura afferma che la correzione è dolorosa e amara (cf. Eb 12,11). Non possiamo ignorare questa verità. Ma non dobbiamo dimenticare che nei momenti bui l’amore di Dio appare luminosa e lo conosciamo da vicino. Dio ci corregge prima di tutto “allo scopo di farci partecipi della sua santità” (Eb 12,10). Poi perché vuole che noi sperimentiamo come ottenere dalla correzione la pace e la giustizia (Eb 12,11). Egli, inoltre, ci rafforza e ci rinvigorisce con la correzione per poi usarci per curare le debolezze degli altri: “Perciò, rinfrancate le mani inerti e le ginocchia fiacche e camminate diritti con i vostri piedi, perché il piede che zoppica non abbia a storpiarsi, ma piuttosto a guarire” (Eb 12,12-13). O come dice l’Apostolo Paolo: “Egli ci consola in ogni nostra tribolazione, perché possiamo anche noi consolare quelli che si trovano in ogni genere di afflizione con la consolazione con cui noi stessi siamo consolati da Dio” (2Cor 1,4). Queste benedizioni che il credente ottiene mediante la correzione e le sofferenze fanno del dolore una necessità che bisogna sopportare. Teniamo sempre davanti agli occhi le benedizioni che abbiamo ottenuto grazie alle sofferenze attraversate dal Signore Gesù: “Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui; per le sue piaghe noi siamo stati guariti” (Is 53,5). Il Signore Gesù ha sopportato la croce e le umiliazioni da dei peccatori in vista della gioia posta davanti a lui, poi si è seduto alla destra della Potenza nell’alto dei cieli (cf. Eb 12,2-3). Le sue sofferenze ci hanno portato la salvezza, perciò non dobbiamo disperare o infiacchirci a causa delle nostre sofferenze (cf. Eb 12,3). L’Apostolo Paolo ha lottato per predicare il Vangelo e ha ottenuto il carisma dell’insegnamento, della guarigione e altri carismi dello Spirito Santo. Ma la spina che aveva conficcata nella carne è stata per lui il carisma più grande perché è stata questa spina ad aver custodito tutti questi carismi. (Anba Epiphanius, Le prove sono espressione dell’amore di Dio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 29 Luglio 2019ultima modifica: 2019-07-29T22:03:49+02:00da fraternidade
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