Giorno per giorno – 28 Luglio 2019

Carissimi,
“Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore, e non ci indurre in tentazione” (Lc 11, 2-4). È la formula più scarna e, alcuni pensano, più originale del Padre nostro, questa, proposta nel vangelo di Luca, rispetto a quella che leggiamo nel vangelo di Matteo. Chi ha guidato, stamattina, la riflessione sulla Parola, nell’assenza di padre Geraldo, è stato Claude, un professore belga dell’Università di qui, che, con la moglie Sandra e la figlia Isabel, sono fedelissimi delle nostre liturgie. “Padre”, dunque, “Abba”, senza nessuna specificazione, né “mio” e neppure solo “nostro”, che potrebbe portare a pensarlo sequestrato a favore di alcuni. E, invece, no: di tutti. Così che, il suo unico cruccio, come e infinitamente di più di un qualunque buon padre (e, forse, più ancora, madre) di famiglia, sarebbe quello di vedere divisi, litigiosi e antagonisti, i suoi figli e figlie. Magari, proprio in suo nome. E già questo sarebbe una bestemmia, almeno per quanti si dicono cristiani. Gli altri si regolino come preferiscono. Questo, perché, il suo nome è onorato, santificato, solo quando la sua presenza, il suo Dna, la scintilla della divinità (o di umanità, come ci diceva un amico ateo, recentemente) è riconosciuta presente in ogni altra persona. Che, per questo, va rispettata (anche si trattasse del peggior delinquente, diceva sempre l’amico ateo). Che poi, Lui, con questa sua paternità (e, di conseguenza, con la nostra fraternità) universale giunga a regnare su tutti, è il compito affidato al nostro annuncio e alla nostra testimonianza, di quanti fanno parte della Chiesa e di tutti coloro che si sentono comunque convocati a questo grandioso progetto. I cui segni esteriori sono la condivisione del pane, dei mezzi di sussistenza, e la remissione dei debiti (ahinoi, qui cominciano le dolenti note!) che ci fa sfrontati fino a dirgli: E Tu non perdonerai i peccati a noi, che pure ci siamo condonati gli uni gli altri tutti i debiti accumulati? Quanto alla frase finale, che tanto lavoro ha dato e dà agli esegeti, che lavorano sul testo greco senza avere sottomano un originale aramaico, sia come sia: Non ti verrà mica in mente di abbandonarci nel momento della tentazione, vero? O anche: evita proprio di metterci alla prova, sai di cosa siamo fatti. Amen.

I testi che la liturgia di questa XVII Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro della Genesi, cap.18, 20-32; Salmo 138; Lettera ai Colossesi, cap.2, 12-14; Vangelo di Luca, cap.11, 1-13.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Oggi il nostro calendario ci porta le memorie di Johann Sebastian Bach, musicista di Dio, Stanley Francisco Rother, martire in Guatemala, e Alfonsa dell’Immacolata Concezione, contemplativa in India.

Johann Sebastian Bach era nato il 21 marzo 1685 a Eisenach, in Turingia. Dopo la morte dei genitori, avvenuta in rapida successione, nel 1694-95, si trasferì presso il fratello Johann Christoph, che gli diede le prime lezioni di organo e clavicembalo. Nel 1707 divenne organista della chiesa di S. Biagio a Muhlhausen. Lì compose un gran numero di pezzi per organo e le sue prime cantate e sposò la cugina Maria Barbara, che gli darà sette figli. In seguito, fu organista alla corte di Sassonia-Weimar, poi maestro di cappella alla corte riformata del principe Leopoldo, a Kothen. Nel 1721, dopo la morte di Maria Barbara, Bach sposò in seconde nozze la giovane soprano Anna Magdalena Wulcken, che gli sarà preziosa collaboratrice e gli darà tredici figli. Trasferitosi nel 1723 a Lipsia, vi compose numerose cantate sacre e le grandi Passioni. Tra il 1730 e il 1750 si occupò della composizione della Messa in si minore e della rielaborazione di molte musiche precedenti. Nello stendere le sue composizioni, iniziava sempre ogni pagina manoscritta con le sigle “J.J.” (Jesu, juva, “Gesù, aiutami”) o “I.N.J.” (In nomine Jesu, “Nel nome di Gesù”) e, in calce ad ogni composizione, poneva le iniziali “S.D.G.” (Solo Deo Gloria, “A Dio solo la gloria”). Verso il 1749 la salute di Bach cominciò a deteriorarsi rapidamente. Giá completamente cieco, dettò L’arte della Fuga, l’ultima sua composizione, che rimase però incompiuta. Morì il 28 luglio 1750.

Stanley Francisco Rother nacque nel 1935 a Okarche, in Oklahoma. Dopo gli studi in seminario, fu ordinato sacerdote e partì nel 1968 come missionario per Santiago Atitlán, in Guatemala. Il giovane prete fu guardato subito con simpatia dagli indigeni Tzutuhil e sentito come uno di loro, tanto che gli cambiarono il nome e lui divenne padre A’plas. Senza nulla di ideologico, il prete si limitava a vivere con i suoi poveri e a volergli bene, dedicando loro tutta la sua giornata. Distribuiva cibo e medicine a chi non riusciva ad averle altrimenti, celebrava l’eucaristia (la domenica riuniva oltre tremila persone), amministrava i sacramenti, faceva catechismo, visitava i malati, accompagnava i morenti e, nei momenti liberi, andava a zappare nel campo di qualche contadino o organizzava con loro cooperative alimentari o tessili. Con l’andare del tempo, si sentì così toccato dalla fede, dalla forza e dalla semplicità degli indigeni, che non riuscì più ad immaginare la sua vita lontano da loro. Dopo che la violenza della repressione governativa raggiunse Santiago Atitlán e anche lui cominciò ad essere minacciato di morte, nel gennaio 1981, cedendo alle pressioni, fece ritorno negli Stati Uniti. Ma fu solo per poco. La Settimana Santa di quell’anno, era infatti già di ritorno tra i suoi. La situazione parve per un certo tempo tranquilla. Fino alla notte del 28 luglio, quando tre uomini mascherati entrarono nella canonica per rapirlo. Fu udito gridare: No, uccidetemi qui. E gli spararono due colpi alla testa. Dopo i funerali, la salma fece ritorno in patria, ma la famiglia accettò la richiesta che il cuore fosse sepolto nella chiesa di Santiago Atitlán.

Anna Muttathupadam era nata il 19 agosto 1910 nel villaggio di Kudamalur, nei pressi di Kottayam (Kerala, India), da Joseph e Mariam Muttathupadam. Rimasta presto orfana di madre, fu allevata da una zia materna e da un prozio prete. Sentendosi chiamata alla vita contemplativa, chiese ed ottenne di entrare tra le Clarisse del monastero di Bharnanganam, dove assumendo il nome di Alfonsa dell’Immacolata Concezione, ricevette il velo il 12 agosto 1928 e, dove, il 1° agosto 1936, fece la sua professione solenne. Purtroppo, assai presto cominciarono a manifestarsi i segni di una dolorosa malattia, che nel giro di pochi anni l’avrebbe portata alla morte. Confinata a letto, visse le sue sofferenze nel segno di un abbandono fiducioso nelle mani del Padre, certa che anche ciò che appare assurdo e intollerabile all’occhio e alla ragione umana, ha un suo senso profondo e una sua ricchezza nascosta, nella luce di Dio. Senza che mai venisse meno in lei il sorriso, si spense il 28 luglio 1946. Da allora, ogni anno, pellegrini cristiani, ma anche musulmani e induisti, continuano a recarsi alla sua tomba. È stata la prima donna indiana ad essere beatificata.

“Oggi l’economia è fatta, per costringere tanta gente, a lavorare a ritmi spaventosi per produrre delle cose per lo più inutili, che altri lavorano a ritmi spaventosi, per poter comprare, perché questo è ciò che da soldi alle società multinazionali, alle grandi aziende, ma non dà felicità alla gente. Io trovo che c’è una bella parola in italiano che è molto più calzante della parola felice, ed è contento, accontentarsi, uno che si accontenta è un uomo felice”. Lo disse, e ci pare una cosa così vera, condivisibile e praticabile, nell’ultima intervista da lui concessa, Tiziano Terzani, di cui ricordiamo oggi la scomparsa, avvenuta il 28 luglio 2004. Di lui scegliamo, nel congedarci, di proporvi una citazione tratta dal suo libro “Lettere contro la guerra” (Longanesi). Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Ci sono giorni nella vita in cui non succede niente, giorni che passano senza nulla da ricordare, senza lasciare una traccia, quasi non si fossero vissuti. A pensarci bene, i più sono giorni così, e solo quando il numero di quelli che ci restano si fa chiaramente più limitato, capita di chiedersi come sia stato possibile lasciarne passare, distrattamente, tantissimi. Ma siamo fatti così: solo dopo si apprezza il prima e solo quando qualcosa è nel passato ci si rende meglio conto di come sarebbe averlo nel presente. Ma non c’è più. (Tiziano Terzani, Lettere contro la guerra).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 28 Luglio 2019ultima modifica: 2019-07-28T22:02:20+02:00da fraternidade
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