Giorno per giorno – 19 Giugno 2019

Carissimi,
“Guardatevi dal praticare le vostre buone opere davanti agli uomini per essere da loro ammirati, altrimenti non avrete ricompensa presso il Padre vostro che è nei cieli” (Mt 6, 1). La religione e le sue opere costituiscono, forse da sempre e in tutti i contesti, lo spazio in cui vivere la nostra verità, sotto lo sguardo di Dio, o, al contrario, la scelta di optare per le apparenze, per farci belli e onorati agli occhi degli altri, dimenticando Dio, pur abusandone. “Buona cosa è la preghiera con il digiuno e l’elemosina con la giustizia” (Tb 12, 8), era insegnamento comune all’epoca di Gesù, che riassumeva in qualche modo il significato di religione nella relazione istituita con gli altri, l’Altro e se stessi. Stamattina, però, ci dicevamo che c’è anche, e forse piú spesso, una terza possibilità, quella di non pregare più, né digiunare, né fare elemosina (che in ebraico si dice sedaqa, giustizia). Quale preghiera, quale digiuno, quale giustizia, nella forma della solidarietà, siamo chiamati oggi a fare? Senza inutili ostentazioni o esibizionismi, che in certi ambiti, fino a ieri impensati, stanno diventando di moda (pensiamo alla politica, dove astutamente si torna a fiutare l’uso politico della religione), ma anche senza vergogna, è forse questo il tempo di lasciarsi pregare dentro dalla parola di Dio, dalla parola che è Dio – l’Abba di Gesù – permettendogli così di orientarci nelle nostre attitudini nei confronti degli altri suoi figli, nostri fratelli. E ripensare poi quale possa essere il digiuno più vero a cui egli ci chiama: il digiuno da quell’Io, che, nelle forme individuali o collettive, si fa sempre più gonfio e ingombrante fino ad occupare ogni spazio, soffocando l’altro (e perciò anche l’Altro) nella sua diversità e irriducibilità alle nostre categorie e maniera di essere. E, infine, scoprire e impegnarci in ogni forma possibile in quella solidarietà-giustizia, che è sempre più irrisa, perseguitata, bandita. Pronti ad andare controcorrente rispetto alla [in]civiltà – o, secondo una bella rilettura scoperta sulla stampa di recente, la [ci]viltà – che ci vorrebbero imporre. Un programma proponibile a tutti, credenti, non-credenti, semplicemente umani.

Il nostro calendario ci porta la memoria di Romualdo, fondatore dei Camaldolesi, e di Sebastian Newdigate e compagni, monaci e martiri in Inghilterra.

Nato a Ravenna intorno al 952, Romualdo scelse la vita monastica dopo un tragico avvenimento che aveva colpito la sua famiglia: il padre, Sergio, duca di Ravenna, aveva ucciso un parente nel corso di un duello. Fu dapprima monaco nel monastero benedettino di S. Apollinare in Classe, nella città natale. Ma dovette stancarsene presto, distante come vedeva la vita di quei monaci dal rigore e dalla radicalitá testimoniata dagli antichi padri del deserto. Trascorsi dieci anni nel monastero di San Michele di Cuxa, sui Pirenei, Romualdo tornò in Italia e si trasferì in Toscana, dove, a Campo Maldoli, fondò un monastero in cui i monaci potessero tradurre l’opzione monastica in una vita basata sul lavoro manuale, la preghiera, le veglie e il digiuno, e dove, dopo un periodo di tempo vissuto in comunità, potessero ritirarsi nella solitudine di un eremo. Nacque così, entro la famiglia benedettina, l’ordine Camoldolese, che nel 1113 vedrà riconosciuta la sua autonomia. Romualdo fu un uomo calato nei problemi del suo tempo, preoccupato per l’evangelizzazione della gente e per la riforma del clero. Presentendo la morte, si congedò da ciascuno dei suoi monaci e volle morire da solo, senza che nessuno fosse presente, nel monastero di Val di Castro, il 19 giugno 1027.

Dopo la rottura di Enrico VIII con Roma, era stata imposta ai sudditi l’approvazione del ripudio, da parte del re, della regina Caterina d’Aragona e quindi l’accettazione come sovrana di Anna Bolena. Pur con qualche incertezza i monaci della Certosa di Londra, nel 1534, sottoscrissero il documento, convinti che questo non pregiudicasse la loro fede. Quando però, qualche mese più tardi, un nuovo decreto stabilì che tutti riconoscessero la supremazia del re sulla chiesa d’Inghilterra, il loro priore, John Houghton, riunì la comunità per decidere il da farsi e unanime fu la scelta dei monaci di non aderire a tale ingiunzione. Questo segnò però il destino loro e di altri religiosi che ad essi si erano nel frattempo aggiunti. Arrestati, rinchiusi nella Torre di Londra, e torturati a più riprese, i primi di loro furono impiccati il 4 maggio 1535. Sebastian Newdigate era stato confessore del re e Enrico VIII nutriva per lui sufficiente affetto da spingerlo a visitarlo personalmente in carcere, al fine di convincerlo a sottoscrivere il documento. Fu tutto inutile. Rifiutate le offerte e sottoposto a torture, egli e altri due compagni, Humphrey Middlemore e William Exmew, furono, il 19 giugno 1535, impiccati, sventrati e squartati nella piazza del Tyburn. Altre morti sarebbero seguite nei mesi successivi.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
2ª Lettera ai Corinzi, cap.9,6-11; Salmo 112; Vangelo di Matteo, cap.6, 1-6.16-18.

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti, in differenti cammini, spesso lontani da tradizioni e istituzioni religiose, testimoniano i valori della giustizia, della fraternità e della pace.

È tutto, per stasera, e noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura il brano di una omelia di P. Benedetto Calati, dedicata alla memoria di san Romualdo. La troviamo nel suo libro “Conoscere il cuore di Dio” (EDB) ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Il secolo in cui visse san Romualdo, a cavallo tra il X e l’XI, è fortemente dominato da pochi uomini, che esercitano il più delle volte un potere che per sua stessa logica sfrutta i deboli, i poveri. Il sistema feudale non era certamente una istituzione liberante l’uomo, pur tenendo conto della mentalità di quel tempo. Il sistema feudale per vari motivi era penetrato fin nel cuore della Chiesa, che doveva essere invece l’ambito del mondo libero e liberante da ogni sorta di schiavitù. La legge feudale dirigeva ormai lo stesso monachesimo, nato invece come “arca liberatrice” al di dentro della stessa Chiesa. Al castello del signore feudale si contrapponevano i monasteri costruiti con le stesse sicurezze. In questa specie di “braccio di ferro” chi ne faceva le spese era sempre il pover’uomo, il povero cristiano, che doveva combattere per i diritti del proprio signore. San Romualdo, figlio autentico di questa società, di questa Chiesa, di questo monachesimo, si converte a Cristo e al suo vangelo. Non è un letterato o un filosofo, ma è servo e soldato di Cristo. Attratto dalla parola di Dio, lascia la sua casa-castello e si fa monaco a Classe, già nell’orbita della tradizione di Cluny. Si converte ulteriormente e lascia Classe per essere monaco, “pellegrino” per Cristo e fedele al vangelo. La stabilità monastica, che era diventata ormai sinonimo di sicurezza, nell’intuito profetico di Romualdo, riprenderà il suo senso genuino di “stabilità nell’amore al vangelo”, dentro il pellegrinaggio per il mondo. Questo monaco “vagante” non fugge dagli uomini. Il suo pellegrinare per Cristo viene intuito dalla gente come un richiamo, come una proposta a vivere nella “libertà dei figli di Dio”. La causa del suo vagare è riunire gli uomini, resi figli dallo Spirito. “Dovunque Romualdo si fermasse, accorreva da lui una turba quasi innumerevole di persone” (Vita del beato Romualdo, c. 49). Si delinea così quel monachesimo di vita semplice che riproponeva il valore della preghiera e del lavoro, aperto all’accoglienza dei fratelli, in particolare dei poveri. Questo monachesimo popolare che “coscientizzava” la folla a vari livelli, troverà qualche tempo dopo, e tra gli stessi monti, un’altra risposta nell’intuito prefetico di Francesco d’Assisi. Oh, se la storia fosse stata più sapiente nell’accogliere quel messaggio! (Benedetto Calati, Conoscere il cuore di Dio).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 19 Giugno 2019ultima modifica: 2019-06-19T23:05:05+02:00da fraternidade
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