Giorno per giorno – 14 Giugno 2019

Carissimi,
“Fu pure detto: Chi ripudia la propria moglie, le dia l’atto di ripudio; ma io vi dico: chiunque ripudia sua moglie, eccetto il caso di concubinato, la espone all’adulterio e chiunque sposa una ripudiata, commette adulterio” (Mt 5, 31-32). Quella che qui è tradotto con “concubinato” è la parola greca “porneia”, che significa prostituzione, meretricio, immoralità. È dunque qualcosa che fa di ciò che si pensava matrimonio, la negazione dell’amore, una relazione fatta di dispezzo, rapina, violenza, oggettivazione dell’altra persona, di cui ci si arroga il diritto di abusare e poi gettare e tradire a piacimento. “Ciò che Dio ha unito”, per celebrare la bellezza dell’amore, “l’uomo non separi”, dirà Gesù in un altro contesto (cf Mt 19, 6). Appunto, ciò che Dio ha unito! Gesù non è venuto a legiferare, né a giudicare, né a condannare (cf Gv 3, 17), ma ad accompagnarci nel cammino del Signore, ad aiutarci a crescere nel vero amore, a intendere, perciò, quando è Dio che unisce, e quando invece è il diavolo.

Oggi noi si fa memoria di Mauricio Silva Iribarnegaray, prete-spazzino municipale, piccolo fratello del Vangelo, martire in Argentina, e di Cosme Spessotto, martire in El Salvador.

Kléber Silva Iribarnegaray era nato il 20 settembre 1925 a Montevideo (Uruguay), quarto di cinque figli di un’umile famiglia contadina. Dopo la morte del padre, avvenuta in coincidenza della nascita dell’ultimo figlio, il giovane Kléber (cui avevano nel frattempo sostituito il nome con quello di Mauricio per provvedergli un santo in paradiso), lavorò alcuni anni per sostenere la già debole economia famigliare. Poi, però, decise di raggiungere in seminario dai salesiani il fratello minore, Jesús Ramón, e nel 1948 cominciò i suoi studi di teologia a Córdoba (Argentina). I suoi compagni lo descrivono come un giovane alto, dall’apparenza forte e sana, sempre allegro e comunicativo, molto esigente con se stesso, dall’interiorità profonda, amante della lettura e dello sport, appassionato di chitarra. Ordinato prete nel 1951, fu inviato come missionario nella Patagonia argentina. Quando però la madre si ammalò, nel 1960, risolse sia pure a malincuore di lasciare la congregazione salesiana, al fine di aiutarla economicamente. Chiese e ottenne, ancora una volta assieme al fratello Jesús, lui pure salesiano, di passare al clero dell’arcidiocesi di Montevideo, dove fu destinato alla parrocchia di san Giovanni Battista, a Pocitos. Superata la difficile congiuntura famigliare, i due fratelli decisero di tornare ad una vita comunitaria. Attratti dalla spiritualità di Charles de Foucauld, entrarono nel 1970 nella fraternità dei Piccoli fratelli del Vangelo a Fortin Olmos, nella provincia di Santa Fé, dov’era superiore Arturo Paoli. Dopo il noviziato, Mauricio lavorò per un po’ con la gente delle discariche di Rosario, con quanti, cioè, traggono dalla spazzatura i loro mezzi di sostentamento. In seguito, a Buenos Ayres, si impiegò come netturbino. La mattina del 14 giugno 1977, alle cinque e mezza, uscì come al solito per recarsi al lavoro. Poco prima, nella cappella, aveva pregato e meditato un testo della Lettera a Filemone, in cui Paolo accenna alle catene portate a causa del Vangelo. Alle otto e mezza, tre uomini in divisa, scesi da una Ford Falcón bianca, avvicinarono Maurizio che stava svolgendo le sue funzioni all’angolo di Terrero e Magariños Cervantes, nella Capitale Federale, parlottarono con lui e lo scortarono fino all’auto. Da allora Mauricio sparì nel nulla, seguendo la sorte di altre migliaia di argentini.

Cosme Spessotto era un francescano italiano, missionario in El Salvador. Fu per 27 anni parroco e vicario episcopale della diocesi di San Vicente. La mattina del 14 giugno 1980, fu assassinato da quattro individui armati, che penetrarono in chiesa mentre pregava. Pochi giorni prima aveva lasciato scritto: “Prevedo che, da un momento all’altro, alcuni fanatici potrebbero uccidermi. Chiedo al Signore che, al momento opportuno, mi dia la forza per difendere i diritti di Cristo e della Chiesa. Morire martire sarebbe una grazia che non merito. Lavare, con il sangue versato da Cristo, tutti i miei peccati, difetti e fragilità della vita passata, sarebbe un dono gratuito del Signore. Perdono in anticipo e chiedo al Signore la conversione degli autori della mia morte. Ringrazio tutti i miei fedeli che con le loro espressioni e manifestazioni di stima, mi hanno animato a dar loro quest’ultima testimonianza di vita. Possano anche loro essere buoni soldati di Cristo. Spero di continuare ad aiutarli dal cielo”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
2ª Lettera ai Corinzi, cap. 4, 7-15; Salmo 116, 10-18; Vangelo di Matteo, cap. 5, 27-32.

La preghiera del venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e ricco in misericordia.

È tutto, per stasera. Prendendo spunto dalla memoria di Mauricio Silva, scegliamo di congedarci offrendovi in lettura una citazione di Arturo Paoli, che fu suo maestro di noviziato. Tratta da un suo Intervento sul tema del perdono, che troviamo nel sito di “Giovani e Missione”, è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Per motivi culturali siamo portati a pensare che il credente, per essere tale, debba pregare, esercitare il culto e, magari, fare l’elemosina. In realtà in tutta la Bibbia, dall’Antico Testamento in poi, Dio ha sempre detto che del solo culto non sa che farsene, che essere cristiani vuol dire “essere assetati di giustizia”. Quando Gesù cacciò i mercanti dal tempio, lo fece perché era ingiusto che loro si arricchissero in un luogo sacro lasciando che i fratelli morissero di fame. È nella giustizia che bisogna provare il proprio amore, non nell’esasperazione del culto. L’andare a messa ogni giorno è inutile se non corrisponde al nostro stile di vita, evidenzia soltanto uno squilibrio fra la nostra religiosità formale e l’impegno per la giustizia. Quindi dobbiamo convertire la nostra religiosità dalla formalità fine a se stessa alla giustizia. Ed essere giusti vuol dire: sentirsi direttamente responsabili degli altri. Leggo senza mai stancarmi il capitolo 4° di Luca nel quale si dice che quando Gesù ha iniziato la sua opera nel mondo, non ha aperto una scuola di catechismo o di teologia, ma è andato a portare la Parola direttamente ai poveri ed agli afflitti. Questa è etica. L’etica è un comportamento di responsabilità e di amore verso i fratelli e la natura. Oggi, noi viviamo in un mondo senza etica, infatti nessuno va a protestare con un industriale che rovina il mondo con le sue fabbriche e attenta così alla vita dei suoi fratelli. Questo succede perché l’unico valore riconosciuto è la capacità di produrre ricchezza, il resto è ininfluente. Siamo perciò arrivanti al punto che l’Occidente “cristianissimo” ha dato al mondo i Santi ma poi lo ha lasciato in mano al diavolo. Per questo motivo se noi non cominciamo ad assumerci le nostre responsabilità, il mondo (inteso come gli altri e come natura) non ha assolutamente futuro. Per poterci convertire dobbiamo essere consapevoli che il mondo non è nostro e non è stato creato per noi. Il vero cristiano deve obbedire a Dio obbedendo al suo volere che si manifesta nel mondo, altrimenti io posso cantare mille “Alleluia” e dire “Dio ti voglio bene”, ma se tradisco il Suo progetto, la mia preghiera è una bestemmia. Il caos che c’è sulla terra lo abbiamo creato noi, non Dio: sono gli esseri umani che non hanno seguito il Suo progetto. (Arturo Paoli, Sul tema del perdono).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 14 Giugno 2019ultima modifica: 2019-06-14T22:59:27+02:00da fraternidade
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