Giorno per giorno – 28 Maggio 2019

Carissimi,
“Quando sarà venuto [il Consolatore], egli convincerà il mondo quanto al peccato, alla giustizia e al giudizio. Quanto al peccato, perché non credono in me; quanto alla giustizia, perché vado dal Padre e non mi vedrete più; quanto al giudizio, perché il principe di questo mondo è stato giudicato” (Gv 16, 8-11). Affermazioni a prima vista oscure, certo, in primo luogo per i discepoli che le ascoltavano, secondo il racconto di Giovanni, proprio alla vigilia della passione, ma anche per noi che ci riflettiamo su dopo duemila anni. C’era modo di farne una sorta di vademecum per i tre amici, Wanderley, Rodrigo, Michael, che, giunti al termine dei nove mesi di trattamento, si sono congedati stamattina dalla chácara di recupero? Come riassumere in questo detto ciò che abbiamo cercato di approfondire durante tutto questo tempo? Come agisce in noi e nella storia lo Spirito del Crocifisso risorto? Come ci aprirà la mente riguardo al peccato, a ciò che è giusto, a chi è lo sconfitto in tutta questa storia? Lo farà, richiamandoci l’evento di Gesù. Il peccato, che li riassume tutti, consiste nel non credere in lui, come verità del Padre, significato perciò della nostra vita, così come lui si è mostrato, è vissuto, è morto. È, perciò, il nostro negarci alla verità di figli dell’unico Padre e di fratelli tra di noi, è lasciarci dominare dalla logica dell’egoismo, dell’affermazione di noi stessi contro gli altri. Criterio di giustizia, è assumere Cristo, il dono di sé fino alle estreme conseguenze sulla croce, come contenuto, lui assente, della nostra vocazione e missione. Infine, denunciato, giudicato, condannato senza appello, sconfitto definitivamente, nei suoi molteplici travestimenti, è il principe del mondo, la logica del Sistema, la ricerca pervicace del dominio sugli altri, attraverso la menzogna, la manipolazione delle coscienze, lo sfruttamento e le più diverse forme di violenza. E la collaborazione che, Dio non voglia, gli si possa offrire. Michael, che oggi ha ricevuto anche la Cresima, quando è venuto per salutarci, ci fa, sorridendo: “Non garantisco che ricorderò tutto quello che abbiamo imparato, ma almeno una cosa, sì: lo Spirito del Signore è su di me. Egli mi ha consacrato con l’unzione, per essere buona notizia per i poveri e far sperimentare un tempo nuovo di grazia a tutti quelli che incontrerò”. Beh, fare questo, basta e avanza. Auguri, dunque.

Il calendario ci porta la memoria di Andrea, Folle in Cristo, e di Rabí‘a al-‘Adawíyya, mistica islamica, “testimone dell’amore di Dio”.

Secondo il suo agiografo, tale Niceforo, prete di Santa Sofia, a Costantinopoli, Andrea era uno schiavo originario della Scizia, che il suo stesso padrone aveva istruito per farne il suo segretario. Improvvisamente, però, il giovane cominciò a manifestare evidenti sintomi di follia, così il padrone lo fece rinchiudere e incatenare nei pressi della chiesa di Santa Anastasia, ma invano. Ebbe così inizio l’avventura del folle in Cristo più amato di Costantinopoli. Da quel momento, la sua vita sarà la simulazione di un degrado esteriore, volto a fargli occupare l’ultimo posto nel consesso umano. Gratificato di numerose visioni, affascinato dal futuro ultimo dell’uomo, Andrea, con la sua vita e con i suoi dialoghi, esprimeva la sua attesa del Regno e il giudizio che sovrasta la storia. Spesso, suo interlocutore era Epifanio, uomo di profonda saggezza, che fu in seguito patriarca di Costantinopoli (520-535). A differenza di Simone il Folle, che aveva vissuto un’esperienza analoga alla sua ad Emesa (l’attuale Homs, in Siria), Andrea non simulava la follia per smascherare i peccati di quanti incontrava, ma per manifestare l’esistenza di un mondo invisibile e di una sapienza “altra”. Questa è la ragione per cui è tanto amato dai monaci bizantini, che gli dedicarono una miriade di piccole chiese nei luoghi più impensabili. Nella Chiesa russa, la memoria di Andrea è legata alla festa della Protezione della Madre di Dio, che egli aveva profetizzato in una delle sue più celebri visioni.

Rabí‘a era nata in una povera famiglia della regione di Bassora, nell’attuale Iraq, all’inizio del VIII secolo. Ancora giovanissima, a causa di una carestia, era stata venduta schiava ad un ricco signore che tuttavia, impressionato dai doni spirituali di cui ella godeva, la rimandò libera. E, libera, lei volle restare, scegliendosi schiava del suo Signore. Così, a chi le faceva notare l’obbligatorietà del matrimonio, soleva rispondere: Hai ragione, il matrimonio è obbligatorio, almeno per chi è libero di scegliere. Ma io appartengo a Dio. È a Lui, dunque, che bisogna chiedere la mia mano. E nessuno sapeva come arrivare da Lui a chiedergliela. Rabí‘a visse per alcuni anni come eremita nel deserto, poi si stabilì a Bassora, dove condusse una vita in assoluta povertà, abitando in una capanna di giunchi in compagnia di una ancella, ‘Abdia, che fece conoscere ai contemporanei e ai posteri parole e vita della santa. Un giorno i suoi devoti le chiesero se amasse il Profeta. Lei rispose: Certo che lo amo, e molto, ma l’amore di Dio non mi lascia il tempo di amare il Profeta. Le domandarono allora: Odi Satana? Certo che lo odio, ma l’amore di Dio non mi permette di occupare il mio tempo ad odiarlo. Un giorno fu vista correre per la strada portando una torcia accesa in una mano e un secchio d’acqua nell’altra. Quando le chiesero dove corresse, ella rispose: “Voglio incendiare il paradiso e spegnere l’inferno perché i credenti adorino Dio non per la speranza nel paradiso o per la paura dell’inferno, ma solo per amore”. Già, liberi. Per amare. Morí nell’ 801, più che ottantenne, a Gerusalemme. Fu sepolta nei pressi della chiesa cristiana dell’Ascensione, sul Monte degli Ulivi.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.16, 22-34; Salmo 138; Vangelo di Giovanni, cap.16, 5-11.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda, offrendovi in lettura un fioretto di Rabi’a al’Adawiyya, tratto dal libro di Farīd ad-dīn ’Attār “Il verbo degli uccelli” (Mondadori), che è così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Lo shaykh di Bassora si recò a visitare Rabi’a e le chiese: “O tu che sei maestra d’amore, parlami di qualcosa che nessuno ha mai detto, o scritto, o veduto: qualcosa, intendo, che d’improvviso ti si sia rivelata, giacché l’anima mia arde per il desiderio di conoscela!”. Rabi’a così gli rispose: O nobile shaykh, tempo addietro avevo filato alcune corde, che portai al mercato per venderle. Il mio cuore ne fu allietato perché ne ricavai due dirham d’argento. Non volli tenerli entrambi nella stessa mano, temendo che il farlo potesse precludermi la via, ma ne strinsi una nella destra e l’altra nella sinistra: questo è un fatto che non posso tacere. Per questo stesso motivo Muhammad, il vanto degli inviati, scelse la privazione a conforto della fede. L’uomo di mondo vende l’anima e il cuore ai suoi affari contorti, stende centomila reti per catturare un granello d’oro proibito, e quando finalmente l’ottiene, la morte lo coglie e tutto finisce. Suo legittimo erede rimane quella pietruzza e a lui non resta che dolore e tormento. O tu che per l’oro vendesti l’uccello Simurg! Il tuo cuore arde come torcia per il desiderio dell’oro e allora sappi, o formichina, che se oserai metter piede sulla via sarai trattenuta per i capelli! E se in questa via anche un capello è di troppo, cosa dire dell’oro e dell’argento? La punta di un capello non può entrare nell’alcova dell’Amato ed è per questo che nessuno osa presentarsi alla porta del suo palazzo”. (Farīd ad-dīn ’Attār, Il verbo degli uccelli).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 28 Maggio 2019ultima modifica: 2019-05-28T22:27:54+02:00da fraternidade
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