Giorno per giorno – 15 Maggio 2019

Carissimi,
“Chi crede in me, non crede in me, ma in colui che mi ha mandato. Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo giudico; perché non sono venuto per giudicare il mondo, ma per salvare il mondo. Chi mi respinge e non accoglie le mie parole, ha chi lo giudica: la parola che ho annunziato lo giudicherà nell’ultimo giorno” (Gv 12, 44. 47-48). Con il discorso che abbiamo ascoltato stamattina, si chiude il “Libro dei Segni” del vangelo di Giovanni, come una sorta di riassunto del messaggio di Gesù e della sua “pretesa”. Da qui in avanti, se siamo cristiani, sapremo che Gesù è la perfetta trasparenza del Padre. Tutto, perciò, tanto della rivelazione, quanto degli accadimenti, dovrà essere letto, vagliato, interpretato e vissuto alla luce del suo evento. Gesù non è venuto per giudicare, e tanto meno, condannare (il verbo greco krino ha entrambi i significati), ma per salvare il mondo. Questo è il progetto del Padre. Credere in Gesù è assumerne il progetto, niente meno che salvare il mondo. Tutto il mondo che ci è a portata di mano. Come una nuova arca di Noè, il cui racconto, non a caso, rappresenta uno dei simboli del battesimo. Sta a noi impegnarci o rinunciarvi. In quest’ultimo caso, la parola di salvezza che è Gesù, a partire dal nostro rifiuto di aderirvi, decide, per nostra scelta, della perdizione del mondo e perciò anche dell’insensatezza a cui consegniamo la nostra vita. Ricordando che, come insegna l’antica sapienza ebraica, in ogni vita salvata, come in ogni vita perduta, è l’intero mondo ad essere salvato o perduto. O anche solo, per rifarci all’insegnamento di Gesù, che un semplice bicchiere d’acqua, dato a chi ne ha bisogno, avrà la sua ricompensa. Piccoli gesti di salvezza, inseriti in una trama comunitaria che disegni orizzonti più vasti, sono possibili a tutti, per contrastare il clima mortifero con cui gli asserviti al Sistema del dominio, della rapina e del privilegio, ammorbano il mondo.

Oggi è memoria di Isidoro e Maria, santi contadini, di Pacomio, padre del monachesimo, e di Michel Kayoya, martire nel Burundi.

Di Isidoro, sappiamo proprio poco. Nacque in una famiglia contadina e fece sempre il bracciante. Gli piaceva lavorare la terra, ma trovava il tempo, ogni giorno, di ritagliarsi i suoi spazi di gratuità, partecipando alla Messa e dedicandosi alle sue devozioni. Con un certo spasso dei suoi compagni di lavoro.Ma lui li lasciava dire. Incontrò la donna che faceva per lui, una tale Maria, che sposò e da cui ebbe un figlio, morto da piccolo. Vissero insieme il resto della vita, lui lavorando duro fuori casa, e lei dentro. E il denaro che si sudavano, poco, bastava comunque per tanti. Se un povero bussava alla porta, per loro era sempre il Povero. E non se ne andava mai via a mani o con la pancia vuote. E loro erano pieni di allegria. Un giorno poi lui, uno dei piccoli amati da Dio, morì. Era il 15 maggio 1130.

Pacomio era nato nell’Alto Egitto, l’anno 287, da genitori pagani. A vent’anni era stato arruolato a forza nell’esercito imperiale e, durante un trasferimento, era finito in carcere a Tebe con tutte le reclute. Fu in quell’occasione che il giovane venne per la prima volta a contatto con dei cristiani: gente che di notte portava ai prigionieri del cibo. Chi vi manda?, chiedevano loro. Il Dio del cielo, rispondevano. E Pacomio pregò allora quel Dio di liberarlo, che lo avrebbe servito per la vita intera. Quando fu congedado, si recò a Khenoboskion e si aggregò ad una piccola comunità cristiana, dove fu istruito nei santi misteri, al fine di ricevere il battesimo. Visse lì per un certo tempo, dedicandosi al servizio della gente. Conobbe un vecchio anacoreta, Palamone, e lo scelse come guida spirituale. Infine gli giunse un’illuminazione: perché non dar vita a una comunità alternativa? C’erano altri cristiani e cristiane che si erano allontanate dalle città, insoddisfatte dello stile di vita che le caratterizzava. Forse valeva la pena di mettersi insieme e provare a se stessi e agli altri che “un altro mondo era possibile”. Si stabilirono nel villaggio abbandonato di Tabennesi e cominciarono ad organizzarsi in una vita di preghiera, lettura della Parola di Dio e lavoro manuale. Nasceva così il monachesimo cenobitico. Al vescovo Atanasio che gli chiese un giorno: Ma insomma chi diavolo siete?, Pacomio rispose: siamo semplici cristiani. Perdinci, ma se è vero che il monaco è un semplice cristiano, allora ogni cristiano è un monaco. Corretto! Ma nell’uno e nell’altro caso, vale la pena di aggiungere: se si prende sul serio. Pacomio morì nel 346, durante un’epidemia di peste, dopo aver servito i suoi sino alla fine.

Michel Kayoya era nato nel 1934 a Kibumbu, in Burundi. Entrato in seminario, dopo gli studi filosofici, nel 1958 venne mandato in Belgio a studiare teologia. Nel 1963 fu ordinato sacerdote. Nominato vice parroco a Rusengo, si impegnò nei movimenti di Azione Cattolica e assunse la responsabilità delle cooperative. Dal 1967, per tre anni, fu rettore del seminario minore di Mugera; nel 1970 fu chiamato a ricoprire l’ufficio di economo generale della Diocesi di Muynga. Nel mese di aprile 1972, le autorità ecclesiastiche l’obbligarono a lasciare il luogo. Il 15 maggio venne ucciso dai Tutsi nel corso del massacro che costerà la vita ad altre 200 mila persone. Il cadavere fu gettato in una fossa comune. Era sostenitore di un umanesimo che ha alla base il rispetto: “Rispetto del povero, rispetto del piccolo, rispetto del vecchio, rispetto dell’invalido”. Il contrario della civiltà occidentale. A chi gli chiedeva conto del perché fosse cristiano, rispondeva: “Ho deciso di restare cristiano non per paura di impegnarmi, non per paura di lottare. Come cristiano sentivo in me una gioia, un motivo di impegno superiore ed un’energia nuova per consacrarmi alla causa dei miei fratelli, gli uomini. Ero cristiano, volevo che nella lotta contro la fame, la carestia, l’ingiustizia, il disonore, il mio popolo si tessesse un’eternità vera”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Atti degli Apostoli, cap.12, 24 – 13, 5a; Salmo 67; Vangelo di Giovanni, cap.12, 44-50.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale ne sia la religione, la cultura o la filosofia di vita.

Grande giornata di lotta, in tutto il Brasile, con centinaia di migliaia di studenti, educatori, integranti di movimenti popolari, per protestare contro i tagli all’istruzione promossi dal governo dell’ignoranza, volgarità, inefficienza, arroganza, di Bolsonaro. Un momento emblematico, una ripresa che speriamo decisiva per la costruzione di un vasto fronte di opposizione e di resistenza alla deriva fascistizzante del Paese.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui con un brano della “Vita copta di Pacomio e Teodoro” . Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Quando Giovanni, suo fratello maggiore, seppe che Pacomio viveva solo in qualche luogo, salì sulla barca e venne al nord da lui – non si erano più visti dal giorno in cui Pacomio era stato arruolato –. Raggiuntolo a Tabennesi, Giovanni lo abbracciò. Pacomio gli rivolse la Parola di Dio e lo fece diventare monaco presso di sé. Vivevano in grandi opere ascetiche portando la croce di Cristo, secondo la parola dell’apostolo Paolo: Portiamo continuamente nel nostro corpo la morte di Gesù, affinché la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo mortale. Camminavano in grande rinuncia; donavano tutto ciò che guadagnavano con i lavori manuali, salvo lo stretto necessario. Si procurarono un abito monastico, cioè una tonaca, che divisero in due e ne fecero degli abiti, perché quelli che portavano non erano più buoni a nulla; comprarono anche delle cocolle. Possedevano, inoltre, un mantello in comune. Ogni volta che la tonaca era sporca, a turno rivestivano il piccolo mantello, finché le tonache fossero lavate poi le indossavano di nuovo. Vivevano tutti e due in mezzo a grandi rinunce, senza tenere nulla in riserva, tranne due pani al giorno e un po’ di sale. Portavano anche vesti di crine. Si chiudevano in luoghi afosi, pregavano dalla sera alla mattina, e si mortificavano durante la preghiera, non muovendo né piedi né mani, che tenevano tese per paura che il sonno pesasse su di loro; sempre per combattere il sonno. di notte si mettevano raramente in ginocchio, sicché i loro piedi si gonfiavano a causa della fatica di tenersi dritti tutta la notte; le loro mani poi erano insanguinate, perché non le sottraevano ai nugoli di zanzare. Se avevano bisogno di appisolarsi un po’, si sedevano in mezzo al luogo dove pregavano, senza appoggiare il dorso contro alcuna parete. Se erano occupati durante il giorno in un lavoro materiale, e se il sole e la grande calura si levavano su di loro, non cambiavano posto prima di aver terminato il lavoro che stavano facendo compiendo la parola del Vangelo: Chi vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. (Vita copta di Pacomio e Teodoro, 18).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 15 Maggio 2019ultima modifica: 2019-05-15T22:12:21+02:00da fraternidade
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