Giorno per giorno – 20 Gennaio 2019

Carissimi,
“Tre giorni dopo, ci fu uno sposalizio a Cana di Galilea e c’era la madre di Gesù. Fu invitato alle nozze anche Gesù con i suoi discepoli. Nel frattempo, venuto a mancare il vino, la madre di Gesù gli disse: Non hanno più vino. E Gesù rispose: Che ho da fare con te, o donna? Non è ancora giunta la mia ora. La madre dice ai servi: Fate quello che vi dirà” (Gv 2, 1-5). Per Gesù, a dire il vero, è sempre l’ora, e infatti è pronto a smentirsi, senza che sia necessario insistere per forzargli la venuta del regno. E l’allegria, in eccesso che essa porta con sé. Il vangelo di oggi ha mandato, tempo fa, fuori dai gangheri il vescovo Edir Macedo, fondatore della Chiesa Universale del Regno di Dio. Lo stesso vescovo che ha pubblicamente dichiarato di essere a favore dell’aborto dei poveri, per diminuire i tassi di criminalità nelle nostre città. Indignato, in un video che circola in internet, diceva apertamente che Gesù, a Cana, ha realizzato un miracolo del tutto inutile, che non ha beneficiato nessuno e soprattutto non si è preoccupato di trasformare la vita di quella gente. Inutile, sì, e perciò anche scandaloso in una società che misura tutto a partire dal criterio dell’utilità, che poi è il lucro che si può ricavare dalle persone. In questo caso, per di più, non c’era nemmeno il guadagno dei rivenditori di vino. Noi, stamattina, si è celebrata l’Eucaristia (e condiviso il pranzo), con gli amici e amiche della comunità “Noi… la sua tenda”, dell’Associazione Fé e Luz. Con i quali, dal punto di vista monetario, uno sarebbe portato a dire che si gioca tutto in perdita. Aggiungendo però subito che, nella prospettiva dell’allegria di cui ci si fa reciprocamente dono, non c’è nulla che possa ripagare adeguatamente. Dato che la gratuità, che poi è la Grazia, è ovviamente senza prezzo. Dispensata smisuratamente da Gesù che si rende presente, a volte anonimamente (ma non è il nostro caso), anche se si lascia indovinare da chi gli è sia pure solo un po’ intimo. In tempi come questi, incattiviti dal sospetto, dall’odio, dall’egoistica chiusura in se stessi, varrebbe la pena di ascoltare la voce della madre che ci invita a fare ciò che Lui ci chiede, mettendogli a disposizione la nostra umanità, fino ad ora, come le sei giare del racconto, vuota e incapace di testimonianza (il cui ambito, lo si può decidere di volta in volta), perché Lui operi il segno capace di dirci il suo intervento prodigioso, che ci introduce all’ebbrezza del Regno. Con buona pace, per una volta, dell’Anonima Alcoolisti.

Le letture di questa II Domenica del Tempo Comune sono tratte da:
Profezia di Isaia, cap.62, 1-5; Salmo 96; Lettera ai Corinzi, cap.12, 4-12; Vangelo di Giovanni, cap.2, 1-11.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le Comunità e Chiese cristiane.

Oggi la comunità fa memoria di Sebastiano, martire a Roma, di Cyprien Michael Tansi, presbitero e monaco, di Octavio Ortiz e compagni, martiri in Salvador, di Khan Abdul Ghaffar Khan (Bacha Khan), profeta di pace e di nonviolenza.

Del martire Sebastiano, nonostante le molte leggende fiorite sulla sua figura, sappiamo solo che fu giustiziato sotto l’imperatore Diocleziano (nell’anno 300) e fu sepolto nelle catacombe che avrebbero preso il suo nome. Ambrogio qualche decennio più tardi lo menziona in un suo commento al salmo 118, dicendo che era di Milano e che preferì lasciare la vita tranquilla per recarsi a Roma e testimoniare la sua fedeltà a Cristo. Questo gli costò la vita.

Iwene Tansi era nato nel 1903 a Aguleri, nello stato di Anambra, in Nigeria. Inviato dai genitori a studiare in una scuola gestita da missionari cattolici, vi conobbe il messaggio cristiano e, a dieci anni, chiese ed ottenne di essere battezzato, prendendo il nome di Michael. Negli anni successivi, mentre proseguiva brillantemente gli studi, s’impegnò sempre più nella vita e nelle attività di base della chiesa locale. A ventidue anni, nonostante l’opposizione della famiglia, entrò nel seminario di Igbariam per essere poi ordinato prete dell’archidiocesi di Onitsha, il 19 Dicembre 1937. Dopo due anni di esperienza a Nnewi, gli fu affidata la cura pastorale di una vastissima regione, che egli per molti anni percorse in lungo e in largo, con mezzi di fortuna, dedicandosi instancabilmente all’annuncio del Vangelo, a organizzare percorsi catechetici, corsi per la preparazione al matrimonio, incontri di discernimento vocazionale e favorendo svariate attività educative. Nel luglio 1950, rispondendo a un invito del suo vescovo, che desiderava trapiantare in Nigeria l’esperienza della vita contemplativa, entrò nell’abbazia trappista di Mount St. Bernard, nella contea di Leichester, in Inghilterra. Dopo tre anni trascorsi come oblato, il 7 dicembre 1952, vi fu ammesso come novizio con il nome di Cyprien. L’8 dicembre 1956, emise i suoi voti solenni. Negli anni seguenti il monaco africano non mancherà di edificare tutti con la sua preghiera e lo spirito di abnegazione, morendo, tuttavia prematuramente, il 20 gennaio 1964, alla vigilia del suo rientro in Africa, come maestro dei novizi nella nuova fondazione di Bamenda, in Camerun.

Octavio Ortiz era nato il 22 marzo 1944, ad Agua Blanca nel municipio di Cacaopera, nel Dipartimento di Morazarán (El Salvador), nella famiglia contadina di Alejandro Ortíz e Exaltación de la Cruz Luna (che persero altri quattro figli durante gli anni sanguinosi della dittatura). Entrato nel seminario di San José de la Montaña, fu il primo a ricevere l’ordinaziaone sacerdotale da mons. Romero che gli affidò in un primo momento la cura pastorale della Comunità di Zacamil e poi quella della parrocchia di El Despertar, alla periferia di Mejicanos. All’alba del 20 gennaio 1979, durante un ritiro, guidato da P. Octavio in un Centro di spiritualità della parrocchia, che vedeva riuniti una trentina di giovani, sopraggiunse una pattuglia dell’esercito che sparò al sacerdote e a quattro studenti e catechisti Ángel Morales, David Caballero, Jorge A. Gómez e Roberto A. Orellana, arrestando gli altri. Dopo il massacro, i soldati fotografarono i cadaveri con accanto le loro stesse armi, per far credere all’opinione pubblica che si trattasse di un gruppo di guerriglieri. Mons. Romero che celebrò i funerali, denunciò l’assassinio e additò nel regime il responsabile della strage.

Khan Abdul Ghaffar Khan era nato nel 1890 nella famiglia di un proprietario terriero, Khan Sahib Baharam Khan, a Utmanzai, un villaggio nei pressi di Peshawar, che oggi è in Pakistan, ma allora era in India, colonia britannica. Benché illetterati, i genitori educarono il giovane Abdul ad una profonda religiosità e al gusto per una vita semplice ed essenziale. Nel 1929, partecipando ad una riunione del Partito del Congresso, Khan fece sua la causa della lotta indipendentista e decise di coinvolgervi la sua gente, i focosi pathan. Con una pretesa, tuttavia, a prima vista assurda: sarebbero stati soldati disarmati, addestrati ad affrontare con coraggio il nemico, senza arretrare né rispondere. I pathan arruolati, che scelsero di chiamarsi Khudai khidmatgar, i servi di Dio, costituirono il primo esercito nonviolento professionale della storia. Promettendo di astenersi da ogni violenza e vendetta, di perdonare chiunque li opprimesse o facesse loro del male, di evitare ogni pigrizia, e di dedicare almeno due ore al giorno ad un qualche servizio sociale, i pathan passavano di villaggio in villaggio, organizzando la popolazione, aprendo scuole, convocando assemblee, insegnando tecniche di nonviolenza, conducendo in tal modo la loro personalissima jihad, la guerra santa tra il bene e il male, che ogni persona è chiamata a combattere nella sua propria coscienza. Il 31 dicembre 1929 i delegati del Congresso indiano dichiararono l’indipendenza, lanciando la parola d’ordine della noncollaborazione e della disobbedienza civile. Seguì una repressione spietata da parte dei britannici. Khan trascorse lunghi periodi in prigionia, ma l’esercito nonviolento dei servi di Dio, che giunse a contare trecentomila membri, non desistette. Quando, alla vigilia dell’indipendenza, la Lega musulmana chiese uno stato confessionale autonomo, Khan e i suoi combatterono la proposta, convinti, come Gandhi, che musulmani e indú avrebbero potuto continuare a convivere. Fu tutto inutile e gli opposti estremismi ebbero la meglio: Gandhi fu ucciso da un indú che l’accusava di essere filomusulmano, e Khan fu imprigionato dal governo musulmano del Pakistan sotto l’accusa di essere filoindú. Avrebbe trascorso quindici anni in prigione e sette in esilio in Afghanistan. Ghaffar Khan morì novantottenne a Peshawar il 20 gennaio 1988 e fu sepolto a Jalalabad, in Afghanistan. Decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali e un cessate-il-fuoco fu annunciato in quel Paese dilaniato dalla guerra per permettere lo svolgimento delle solenni esequie. Era stato decorato solo un anno prima con il Bharat Ratna – il più alto riconoscimento civile dello stato indiano.

A partire dal tramonto di stasera, i nostri fratelli ebrei festeggiano Tu Bishvàt che letteralmente significa il “15 di Shevàt”. È la festa che ricorda Rosh Hashanà lailanòt o Capodanno degli alberi. Anticamente, in Terra d’Israele, la data segnava l’inizio di un nuovo anno agricolo, perché, giorno più giorno meno, era come oggi che gli alberi cominciavano a gemmare, lasciando presagire la primavera imminente. La festa, che in realtà è una mezza festa (non è infatti proibito lavorare), è celebrata con un séder a base di frutta: grano, orzo, olive, datteri, uva, fichi, melagrana, agrumi ecc. Durante il pasto si leggono brani della Torà, di Ezechiele e dei Salmi e si bevono quattro bicchieri di vino: il primo bianco (che simboleggia l’inverno, ma anche il male che è in noi), il secondo ancora bianco, ma con qualche goccia di rosso (a significare l’avvicinarsi della primavera, e i primi passi sulla via della conversione), il terzo metà rosso e metà bianco (quando la primavera avanza e la nostra teshuvà si consolida) e l’ultimo solo rosso (segno che la primavera è in pieno rigoglio e la tendenza verso il bene e la vita è ormai prevalsa in noi). Che questo possa essere vero anche per noi e, più che mai, per le terre di Israele e Palestina. Perché il deserto rifiorisca, giustizia e pace si abbraccino, e i loro popoli, finalmente, vivano.

Oggi, Ernesto Cardenal, già monaco trappista (fu discepolo di Thomas Merton), in seguito semplice prete e poeta tra i maggiori dell’ultimo secolo, nel nostro Continente, nonché figura di spicco della rivoluzione sandista, in Nicaragua, poi finita in niente, compie 94 anni, essendo nato in quel di Granada il 20 gennaio 1925. Nel 2014, papa Francesco gli ha revocato la sospensione a divinis che gli era stata comminata dal Vaticano per la sua partecipazione come ministro della Cultura al governo rivoluzionario dell’epoca. A mo’ di omaggio, scegliamo, nel congedarci, di offrirvi una sua rivisitazione del salmo 21; Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato ? / Sono una caricatura d’uomo / il disprezzo della gente. / Si burlano di me su tutti i giornali. / Mi assediano i mezzi blindati, / le mitragliatrici sono puntate su di me, / circondato da filo spinato, / filo spinato elettrico. / Tutto il giorno mi chiamano all’appello, / mi hanno tatuato un numero / mi hanno fotografato tra il filo spinato / e si possono contare come in una radiografia tutte le mie ossa. / Mi hanno tolto ogni documento, / mi hanno condotto nudo alla camera a gas / e si sono divisi le mie vesti e le mie scarpe. / Grido chiedendo morfina e nessuno mi ascolta, / grido con la mia camicia di forza / grido tutta la notte nel ricovero dei malati mentali, / nel reparto dei malati incurabili, / nell’ala dei malati contagiosi, / nell’ospizio degli anziani./ Agonizzo, bagnato di sudore, nella clinica dello psichiatra, / soffoco nella camera d’ossigeno, / piango nella stazione di polizia, / nel cortile della prigione, / nella camera di tortura, / nell’orfanotrofio. / Sono contaminato dalla radioattività / e nessuno mi si avvicina per non contagiarsi. / Ma io potrò parlare di Te ai miei fratelli, / Ti esalterò nella riunione della nostra gente. / Risuoneranno i miei inni / in mezzo alla gran folla. / I poveri avranno un banchetto, / il nostro popolo celebrerà una gran festa. / Il popolo nuovo che sta per nascere. (Ernesto Cardenal, Salmo 21).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 20 Gennaio 2019ultima modifica: 2019-01-20T22:45:12+01:00da fraternidade
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