Giorno per giorno – 11 Dicembre 2018

Carissimi,
“Che ve ne pare? Se un uomo ha cento pecore e ne smarrisce una, non lascerà forse le novantanove sui monti, per andare in cerca di quella perduta? Se gli riesce di trovarla, in verità vi dico, si rallegrerà per quella più che per le novantanove che non si erano smarrite. Così il Padre vostro celeste non vuole che si perda neanche uno solo di questi piccoli” (Mt 18, 12-14). Com’è insolita questa immagine di Dio e del Figlio dell’uomo (di ogni figlio di uomo che voglia essere come lui) nel contesto dell’Avvento, che ci ha così spesso abituati a raffigurarci il ritorno di un Cristo trionfante e giustiziere. Trionfante, sì, ma bisogna intendersi, trionfante come questo pastorello che tutto contento con la pecorella in spalla fa ritorno al gregge che aveva lasciato abbandonato sui monti. Gesù torna, è bene che torni, per cercare le pecore perdute, che spesso neppure sanno di esserlo. E lo siamo anche noi ogni giorno, quando ci allontaniamo dalla fonte della sua misericordia (che è il nome della sua giustizia), per bere alle acque limacciose della logica del Sistema, che cataloga, discrimina, esclude, elimina. Avvento è, allora, quando noi ci lasciamo trovare e convertire da lui, per andare poi, a nome suo, a cercare quanti altri vediamo perduti.

Oggi facciamo memoria di François de L’Espinay, testimone profetico del dialogo interreligioso con le religioni afro-brasiliane, e di Paolo De Benedetti, protagonista del dialogo ebraico-cristiano.

François era nato il 7 novembre 1918 in Vandea (Francia), gemello di Pierre (che sarebbe divenuto generale). Entrato in seminario nel 1934, fu prigioniero per cinque anni dei tedeschi durante la guerra. Ripresi gli studi, fu ordinato prete l’11 luglio 1948. Sin dall’inizio del suo ministero parrocchiale scelse la compagnia dei più semplici, poveri ed emarginati dalla società e dalla chiesa. A partire dal 1954 fu cappellano militare (figura di cui solo in seguito si è stati in grado di questionare la maggiore o minore compatibilità con la scelta evangelica) in Indocina (1954-56) e in Algeria (1956-62), dove ebbe almeno modo di denunciare con fermezza le torture messe in atto dall’esercito colonialista francese. Tornato in patria per qualche mese, nell’agosto 1963 fu inviato in America Latina, dove per molti anni accompagnò i sacerdoti francesi come delegato del CEFAL (Comité épiscopal France Amérique Latine) e dove, con Ivan Ilich, fondò il Centro inter-culturale di Cuernavaca, in Messico. Nel 1974 si trasferì a Salvador di Bahia e lì cominciò la stagione del suo lavoro e della sua comunione di vita con gli afro-brasiliani. Conobbe e cominciò a frequentare alcuni terreiros (luoghi di culto) di Candomblé e, dopo tre o quattro anni, fu scelto come mogbá, membro del consiglio di Xangô, nell’Ilê Axé Opô Aganju. Si approfondiva così un cammino di solidarietà materiale e spirituale con i fedeli del terreiro e una esperienza del tutto singolare: un prete accettava di essere iniziato in un terreiro, non come ricercatore, ma per condividerne la fede. Sopraggiunse infine l’ora della prova e della sofferenza con un tumore che progressivamente l’avrebbe immobilizzato. Pienamente cosciente delle sue condizioni, scrisse: “So già almeno approssimativamente l’orario del treno e voglio approfittare di questo tempo che mi resta per scrivere e porre il più chiaramente possibile le questioni che le religioni diverse dalla nostra ci pongono”. Il focoso François visse gli ultimi mesi nella pace e nella serenità preparandosi all’Incontro definitivo. Morì l’11 dicembre 1985.

Paolo De Bendetti era nato ad Asti, il 23 dicembre 1927, da madre fervente cattolica e padre ebreo. A questa duplice eredità sarebbe rimasto fedele tutta la vita. Fu teologo, biblista, docente di Giudaismo alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e di Antico Testamento agli Istituti di scienze religiose delle università di Urbino e Trento. Promotore instancabile dell’amicizia ebraico-cristiana, amico del card. Martini, dai tempi in cui questi era Rettore del Pontificio Istituto Biblico a Roma, fino alla sua fine, contribuì a divulgare, come pochi altri, in ambito cattolico e non solo, la conoscenza della lingua e della cultura ebraica e lo studio dell’Antico Testamento. Di lui scrissero Carlo Maria Martini, Amos Luzzato, Agnese Cini, Umberto Eco, Salvatore Natoli, Laura Novati e altri ancora. In un’intervista del 2014 dichiarava: “Quanto al futuro, Dio dovrà fare una cosa che finora non gli è riuscita: stabilire dei rapporti di fratellanza tra tutti gli esseri viventi. Comprese le piante. È la mia speranza”. E anche la nostra. È scomparso ad Asti, l’11 dicembre 2016.

I testi che la liturgia propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap.40, 1-11; Salmo 96; Vangelo di Matteo, cap.18, 12-14.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali africane.

È tutto, e, per congedarci, scegliamo di lasciare la parola a Paolo De Benedetti, con un brano tratto dal suo libro “Ciò che tarda avverrà” (Edizioni Qiqajon). Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
L’alleanza, come la coscienza ebraica ha sempre creduto con ostinata fede, comporta obblighi bilaterali, da parte cioè dell’uomo e di Dio. Per questo, Dio ha limitato la propria assoluta, insindacabile, vorremmo dire islamica libertà, e l’uomo ha acquistato dei diritti verso di lui. Non dimentichiamo questi nostri diritti, questa sua limitazione! Dio ha cominciato a limitarsi creando il mondo, cioè (secondo la dottrina cabalistica dello zimzum) “ritirandosi” per far posto all’esistente; si è di nuovo limitato nell’alleanza con Abramo (e Abramo, secondo il Talmud di Gerusalemme, jTa’anit II, gli ricorderà che egli avrebbe potuto rifiutargli, in base alla promessa divina della posterità, il sacrificio di Isacco, e perciò ora “possa essere gradito dinanzi a te, o Signore mio Dio, che quando i discendenti di mio figlio Isacco saranno angustiati e nessuno sorgerà a parlare in loro difesa, tu stesso li difenda”), nell’alleanza con Mosè, nella “nuova alleanza”. Dunque, l’esistenza del dolore ingiusto “salva” Dio solo se c’è un tempo o un luogo (parole estremamente improprie per la vita del mondo che verrà) in cui egli si spieghi e ci spieghi. La bontà del mondo è una moneta ormai troppo svalutata; la responsabilità dell’uomo o la finitezza degli esseri sono semplici rinvii all’interno del triste mistero. Dio, in quanto nostro alleato, ci è debitore di una spiegazione: per questo crediamo in lui e nella vita futura. Ma intanto, non vogliamo sentire altri discorsi: “Si ode in Rama una voce, lamenti e amari singhiozzi. È Rachele che piange i suoi figli, rifiuta conforto per i figli, perché non sono più” (Ger 31, 15). Non vogliamo, perché la prova che Dio ci ha chiesto è veramente grande: non ci sono parole utili, finché non parlerà lui. (Paolo De Benedetti, Ciò che tarda avverrà).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 11 Dicembre 2018ultima modifica: 2018-12-11T22:41:27+01:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo