Giorno per giorno – 05 Dicembre 2018

Carissimi,
“Allora Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e disse: Sento compassione per la folla. Ormai da tre giorni stanno con me e non hanno da mangiare. Non voglio rimandarli digiuni, perché non vengano meno lungo il cammino” (Mt 15, 32). In questi giorni ci è capitato di leggere alcune citazioni, tratte da discorsi di san Giovanni Crisostomo, che suonavano così: “Oggi non ci sarà Eucaristia, perché c’è uno che è stato lasciato morire di fame” e “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non permettere che sia disprezzato nelle sue membra, cioè nei poveri”. Stamattina, ci chiedevamo quanti di noi hanno davvero la stessa sensibilità che Gesù ci dimostra nel vangelo di oggi, o il Crisostomo in gran parte della sua predicazione. O quanto invece non si sia venuti riducendo Gesù e il suo evento a un rito abitudinario, o a un libro da sventolare, per catturare il consenso dei finti gonzi a politiche o prassi ecclesiastiche che dicono l’esatto contrario del suo contenuto. Noi lo si sperimenta qui, nella “nuova” stagione politica, che si è aperta con le recenti elezioni, ma ci pare di capire che anche lì da voi non si scherzi. Se questo fosse vero per la maggior parte di noi, sarebbe davvero meglio lo sciopero dell’Eucaristia o quello, in questi tempi, del presepe. Collocando magari un bello striscione: “Avvento rinviato a tempi migliori”. Anche se, poi, chi ci crede davvero, continuerà a celebrarlo, in sordina e di nascosto, prima nella vita, alimentando chi ha fame, alloggiando i clandestini, obiettando alle leggi ingiuste, e poi anche nelle nuove catacombe, dove il rito non sia piú soggetto alle manipolazioni dei potenti.

Il nostro calendario ecumenico ci porta oggi le memorie di Matthew Lukwiya Gulu, martire della carità in Uganda; dei Martiri ebrei durante la peste nera (1348-1350); di Srî Aurobindo Ghose, mistico indiano; e di Nelson Mandela, una vita al servizio del suo popolo.

Matthew Lukwiya Gulu era nato il 24 novembre 1957 a Kitgum, in una famiglia anglicana, profondamente religiosa. Laureatosi in medicina all’Universitá di Makerere, fu chiamato alla direzione del St. Mary’s Hospital di Lacor da Lucille e Piero Conti, fondatori di questa prestigiosa istituzione in campo sanitario. Specializzatosi in Pediatria tropicale a Liverpool e poi, in Sanità pubblica, a Kampala, fu a partire dall’ottobre del 2000, quando scoppiò l’epidemia di ebola, che diede il meglio (anzi tutto) di sé. In ventiquattro ore dalla prima segnalazione, l’ospedale di Lacor, sotto la sua guida, allestì un reparto di isolamento che divenne subito operativo, potendo contare sul generoso coinvolgimento del personale infermieristico, per lo più giovani uomini e donne, nella piena consapevolezza del rischio che questo significava. Molti di essi vi lasciarono infatti la vita, come lo stesso dott. Lukwiya. Il quale, una settimana prima di ammalarsi, così si rivolgeva ai suoi collaboratori: “Possiamo essere stanchi, avviliti per la morte di persone care, possiamo avere paura in quanto persone umane e possiamo considerare, in ogni momento, la possibilità di andarcene. Abbiamo la libertà di scegliere, nessuno ci può trattenere contro la nostra volontà. Allora riposerebbe il nostro corpo, ma non il nostro spirito. Sapremmo che potevamo offrire un aiuto a chi era disperato e non l’abbiamo fatto. Se io lasciassi in questo momento, non potrei più esercitare la professione medica nella mia vita. Non avrebbe più senso per me”. Matthew Lukwiya morì il 5 dicembre 2000.

Fu un’epidemia tremenda quella che colpì l’Europa a metà del sec. XIV , provocando qualcosa come venti milioni di morti. Ignorando le reali cause della peste (le pulci dei ratti giunti con i mercantili provenienti dall’Oriente), vi fu chi, usando l’arma della superstizione e del fanatismo, additò i colpevoli nella minoranza ebrea, accusata di avvelenare i pozzi al fine di farla finita con il nemico cristiano. Un’ondata antisemita si scatenò e si diffuse presto in tutta Europa, dapprima in Francia e Spagna, poi in Svizzera e Germania. Inutilmente il papa Clemente VI denunciò le false accuse mosse agli ebrei, condannando con fermezza gli eccidi. Il 5 dicembre 1349 questi culminarono con il massacro, a Norimberga, di 500 ebrei, torturati, sgozzati e arsi vivi.

Nato il 15 Agosto 1872 a Calcutta (India), Aurobindo venne mandato, all’età di sette anni, a studiare in Inghilterra. Tornato in patria nel 1893, presto si coinvolse nella lotta politica contro il potere coloniale, il che gli costò la condanna ad un anno di carcere. Quest’anno di isolamento forzato gli fece capire che la lotta anticoloniale è solo un aspetto di un problema più vasto: la trasformazione della natura umana. Uscito di prigione, ancora perseguitato e spiato dalla polizia britannica, si trasferì a Pondicherry, nell’India francese, dove giunse nel 1910. Qui trascorse il resto della vita nell’ashram che si formò progressivamente intorno a lui, sotto la supervisione di “Mère”, Mirra Alfassa, una francese giunta a Pondicherry nel 1920. I suoi lavori e i suoi scritti – composti per la maggior parte tra il 1914 e il 1920 – comprendono poemi, commedie, saggi filosofici e un’incredibile quantità di lettere, nelle quali Aurobindo cercò di spiegare ai suoi discepoli ciò che faceva nel silenzio della cameretta, in cui restò praticamente confinato per 23 anni, dal 1927 fino alla morte, avvenuta il 5 dicembre 1950. Nel frattempo l’ashram andò sviluppandosi rapidamente, diventando presto un grande centro di spiritualità, la cui influenza si estese presto a tutto l’Occidente. Srî Aurobindo scrisse: “Chi cerca Dio, non si limita a formulare idee, cerca di metterle in pratica. Il suo fine consiste nel raggiungere la vita divina, non nell’elaborare teorie su di essa”. Il principio in grado di condurre a ciò è il dono di se stessi, “in forza del quale si passa da una gioia minore ad una felicità senza confini e consapevole”. “Nessuna salvezza può essere raggiunta al prezzo di sottrarci all’amore di Dio nell’umanità, impedendoci di offrire al mondo quell’aiuto che gli possiamo dare. Se necessario insegniamo ciò: Meglio l’inferno con tutti i nostri fratelli infelici che una salvezza solitaria!”.

“Ho dedicato la vita intera alla lotta del popolo africano. Mi sono battuto contro il predominio dei bianchi, così come mi sono battuto contro il predominio dei neri. Ho perseguito l’ideale di una società libera e democratica, in cui tutti vivano insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale per il quale spero di continuare a vivere. Ma per il quale se necessario, sono disposto a morire”. E il vecchio Madiba – Nelson Rolihlahla Mandela – , di cui oggi facciamo memoria, nell’anniversario della morte (Johannesburg, 5 dicembre 2013), a questo ideale è rimasto fedele fino alla fine. Aveva anche scritto: “Ho sempre saputo che nel fondo di ogni cuore umano albergano pietà e generosità. Nessuno nasce odiando i propri simili a causa della razza, della religione o della classe alla quale appartengono. Gli uomini imparano a odiare, e se possono imparare a odiare, possono anche imparare ad amare, perché l’amore, per il cuore umano, è più naturale dell’odio”. Noi speriamo, che nonostante tanti segni contrari, l’umanità riprenda ad insegnare e a imparare ad amare.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap.25, 6-10a; Salmo 23; Vangelo di Matteo, cap.15, 29-37.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale ne sia la religione, la cultura o la filosofia di vita.

Oggi noi ricordiamo anche lui, Johannes Chrysostomus Wolfgangus Gottlieb (o Theophilus), o anche soltanto Wolfgang Amadeus (che è “Theophilus” latinizzato) Mozart. Nato a Salisburgo il 27 gennaio 1756 e morto trentaseienne il 5 dicembre 1791. Che deve starsene in cielo ad allietare per quel che può, considerati i tempi, il buon Dio e la corte celeste.

E, per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano del Discorso di insediamento alla Presidenza della Repubblica, pronunciato da Nelson Mandela, a Pretoria il 10 maggio 1994. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Oggi, tutti noi, con la nostra presenza qui e con le celebrazioni in altre parti del nostro paese e del mondo, conferiamo gloria alla neonata speranza di libertà. Siamo appena usciti dall’esperienza di una catastrofe straordinaria dell’uomo sull’uomo durata troppo a lungo, oggi qui deve nascere una società a cui tutta l’umanità guarderà e questo ci renderà orgogliosi… Siamo mossi da un senso di gioia e di euforia quando l’erba diventa verde e il fiore fiorisce. Tale unità spirituale e fisica che tutti noi condividiamo con questa patria comune, spiega la profondità del dolore che tutti noi abbiamo sentito nei nostri cuori quando ci siamo visti strappare il nostro paese a causa di un conflitto terribile, che, come abbiamo visto, ci ha causato diprezzo, messo fuori legge e isolato dai popoli del mondo, proprio perché il Sud Africa era diventata la base universale della perniciosa ideologia e la pratica del razzismo e di oppressione razziale… Il tempo per la guarigione delle ferite è venuto. Il momento di colmare gli abissi che ci dividono è venuto. Il tempo di costruire è su di noi, è il nostro tempo, la nostra ora… Dedichiamo questa giornata a tutti gli eroi e le eroine di questo paese, per aver sacrificato la loro vita in molti modi perchè potessimo tornare ad essere liberi, e al resto del mondo che ci ha accompagnato in questo cammino. I loro sogni sono diventati realtà. La libertà è la loro ricompensa. L’abbiamo capito ora che non vi è nessuna strada facile per la libertà. Lo sappiamo bene che nessuno di noi da solo può farcela e avere successo. Dobbiamo quindi agire insieme come un popolo unito, per la riconciliazione nazionale, per la costruzione della nazione, per la nascita di un nuovo mondo. (Nelson Mandela, Discorso di insediamento alla presidenza della Repubblica).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 05 Dicembre 2018ultima modifica: 2018-12-05T22:38:31+01:00da fraternidade
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