Giorno per giorno – 08 Agosto 2018

Carissimi,
“Gesù rispose: Non è bene prendere il pane dei figli per gettarlo ai cagnolini. È vero, Signore, disse la donna, ma anche i cagnolini si cibano delle briciole che cadono dalla tavola dei loro padroni. Allora Gesù le replicò: Donna, davvero grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri” (Mt 15, 26-28). Lei era una donna straniera, pagana per giunta, con una figlia malata, che, saputo dei poteri di Gesù, gli era andata incontro, implorandogli la guarigione della bimba. E Gesù, stranamente, le aveva risposto alla maniera con cui, così spesso, ci hanno abituati oggi quanti non considereremmo i migliori tra di noi: “Prima i nostri”, che poi sottintende anche: “Gli altri mai”. E l’esempio che porta non è proprio dei più edificanti, dato che paragona “i nostri” ai figli e “gli altri” ai cagnolini. Ma, evidentemente, lo Spirito Santo ha i suoi canali riservati per comunicare con gli umani, siano essi pure pagani. Sicché la donna trova la forza di replicare a Gesù che i cagnolini non sono esclusi dagli avanzi che cadono dalla mensa dei loro padroni: sarà, per caso, il Dio nel nome del quale tu agisci più disumano dei miseri umani che siamo noi? E Gesù, per così dire, colpito e affondato. Nel senso di conquistato e affascinato dalla fede di questa madre, che, come ogni madre, per natura, deve sapere, di ciò che conta di Dio – la sua misericordia – , più di chiunque altro. E questa fede, che non sa nulla dei dogmi di una o dell’altra religione, strappa a Dio il miracolo. Ora, se li strappa a Dio, non saprà strapparli a noi, che diciamo di credere in Lui? Che razza di sua chiesa saremmo? No, non basta proprio sventolare la Bibbia, come hanno già cominciato a fare, qui da noi, in queste prime battute di campagna elettorale, precandidati che, con il sostegno dei loro cappellani, si sono già dati a conoscere come fomentatori di divisione, di odio e di violenza, a difesa dei privilegiati di sempre. Qualunque semplice donna del popolo, quale ne sia la religione o la sua forma di adorare Dio, è in grado di smascherarli.

Oggi la Chiesa fa memori di Domenico di Guzman, fondatore dei Frati Predicatori; di Bonifacia Rodríguez Castro, fondatrice delle Serve di san Giuseppe; e di Maria Elena MacKillop, fondatrice delle suore di san Giuseppe del Sacro Cuore di Gesù.

Nato nel 1170 a Caleruega, nella Vecchia Castiglia (Spagna), quando, a 15 anni, ancora studente, viene a contatto con le miserie causate dalle continue guerre e dalla carestia, Domenico vende le suppellettili della propria stanza e le preziose pergamene per costituire un fondo per i poveri. A chi gli esprime stupore per quel gesto risponde: “Come posso studiare su pelli morte, mentre tanti miei fratelli muoiono di fame?”. Terminati gli studi, a 24 anni, il giovane entra tra i “canonici regolari” della cattedrale di Osma, dove viene consacrato sacerdote. Desideroso di recarsi in missione tra le popolazioni pagane, accetta tuttavia dal papa Innocenzo III l’incarico di dedicarsi a predicare contro la diffusione dell’eresia albigese, in Francia. Assieme ad alcuni amici fonda nel 1215 l’ordine dei frati predicatori. Convinto che il maggior ostacolo alla conversione sia la ricchezza materiale di gran parte del clero, decide che il suo ordine viva in povertà e semplicità. Negli ultimi anni, l’Ordine dimentica il primitivo impegno ad usare la “logica della persuasione e non della forza” per convincere le persone della verità cristiana, tanto che molti dei suoi frati diventano membri attivi dell’Inquisizione. Sfinito dal lavoro apostolico ed estenuato dalle grandi penitenze, Domenico muore il 6 agosto 1221, circondato dai suoi frati, nel convento di Bologna. Lungo i secoli molti dei suoi seguaci sarebbero stati esempio di difesa dei diritti dei più poveri, di impegno per la giustizia sociale, di testimonianza all’Evangelo del Regno, fino al dono della vita.

Bonifacia Rodríguez Castro era nata a Salamanca (Spagna) il 6 giugno del 1837 da Maria Natalia e Juan, una coppia di artigiani, profondamente religiosi. Terminati gli studi elementari imparò il mestiere di cordonaia e all’età di quindici anni, in seguito alla morte del padre, si recò a lavorare come operaia, per aiutare la madre a sostenere la famiglia. Potè così sperimentare, in prima persona, le dure condizioni di lavoro del tempo. Dal 1865, Bonifacia e sua madre, rimaste sole, si dedicarono a una vita di profonda pietà. Con un gruppo di ragazze di Salamanca, attratte da questa testimonianza di vita, decisero di fondare un’associazione che si prendesse a cuore le condizioni della donna lavoratrice. L’incontro con il gesuita catalano Francisco Javier Butinyà, giunto a a Salamanca nell’ottobre del 1870 con una grande preoccupazione apostolica verso il mondo della classe operaia, incise radicalmente nella vita di Bonifacia. Fu infatti su sua ispirazione che la donna fondò la congregazione delle Serve di San Giuseppe, nei cui laboratori, guidati dalla spiritualità della casa di Nazareth, le suore lavorano come operaie lato a lato di donne povere che non avevano lavoro. Da subito, tuttavia, la fondazione fu vista con sospetto e suscitò l’opposizione del clero di Salamanca, che ottenne l’allontanamento di P. Butinyà, il trasferimento del Vescovo che aveva dato la sua approvazione all’istituto e alla congregazione nuovi statuti e una nuova direzione, con suore che scelsero di essere maestre e non operaie. Per Bonifacia seguirono anni di umiliazioni, rifiuto, disprezzo e calunnie, sopportati in umiltà e silenzio. Emarginata dalla congregazione che aveva fondato, aprì a Zamora, col permesso del vescovo, una nuova comunità, fedele all’intuizione originaria. Lì, circondata dall’affetto delle sorelle e della gente di Zamora che la venerava come una santa, morì, l’8 agosto del 1905. Solo nel gennaio del 1907, la casa di Zamora si vide riconosciuta e si riunì al resto della Congregazione, come Bonifacia aveva fino all’ultimo sperato.

Maria Elena MacKillop (conosciuta in seguito come Madre Maria della Croce) era nata a Fitzoroy (Australia) il 15 gennaio 1842, figlia primogenita di una coppia di immigrati scozzesi. Benché desiderasse, fin dalla prima giovinezza, abbracciare la vita religiosa, dovette ritardare la realizzazione del suo sogno, per sopperire alle necessità della famiglia. Nel 1860 ricevette l’incarico di insegnante a Penola nell’odierno Stato dell’Australia Meridionale, dove incontrò padre Giuliano Tenison Woods, che divenne il suo padre spirituale, e con cui poco dopo fondò la Congregazione delle Suore di S. Giuseppe del Sacro Cuore di Gesù, con la missione di aprire scuole per i bambini poveri. Maria Elena andò ad insegnare per quattro anni a Portland nello Stato di Vittoria per ritornare a Penola nel 1866 dove aprì una scuola cattolica per ragazzi poveri, coadiuvata da un primo gruppo di ragazze che aderirono alla sua opera di carità. Nel 1867 aprì una seconda scuola ad Adelaide e altre ancora in breve tempo, mentre aumentava il numero delle consorelle e l’attività della congregazione si estendeva fino a comprendere l’assistenza agli orfani, ai poveri e ai vecchi. Nel 1870 la MacKillop e le sue consorelle denunciarono gli abusi di cui si era reso responsabile un certo padre Keating: le accuse furono provate e il prete venne rispedito in Irlanda (ufficialmente, per abuso d’alcol). Il vescovo della diocesi di Adelaide, monsignor Sheil, anziano e ammalato, si lasciò però convincere dal vicario generale Charles Horan (amico e collega del prete pedofilo) a intervenire con severità contro le Sorelle, cambiando le regole della congregazione. Di fronte al rifiuto della giovane fondatrice e superiora, il vescovo la scomunicò per insubordinazione. Dopo un anno, tuttavia, lo stesso Sheil, ormai prossimo alla morte, revocò la scomunica. In seguito, una commissione episcopale riabilitò completamente la religiosa. L’approvazione della congregazione da parte di Leone XIII giunse, infine, nel 1888. Debilitata nel fisico per gravi malattie, pur essendo rimasta indomita nello spirito, la madre Maria della Croce morì l’8 agosto 1909 a Sydney. È stata canonizzata a Roma da papa Benedetto XVI .

I testi che la liturgia propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Geremia, cap.31, 1-7; Salmo (Ger 31, 10-13); Vangelo di Matteo, cap. 15, 21-28.

La preghiera del mercoledì è in comunione con tutti gli operatori di pace, quale che ne sia il cammino spirituale o la filosofia di vita.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, proponendovi una citazione di Timothy Radcliffe, ottantaquattresimo successore di san Domenico, alla testa dell’Ordine dei Predicatori dal 1992 al 2001. Il brano è tratto da una lettera indirizzata all’Ordine, il 25 febbraio 1998, Mercoledì delle Ceneri, col titolo “La promessa di vita”. Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La libertà di Gesù di fronte alla morte trovò il culmine la sera prima di morire, quando prese il suo corpo e lo diede ai suoi discepoli, un gesto di stupefacente libertà. Questo è quello che ci è dato di compiere insieme, di fronte alla morte. Ricordo una mattina di Pasqua al Blackfriars, la gioiosa celebrazione dell’Eucarestia con un confratello che stava morendo di cancro. L’intera comunità si era assiepata nella sua stanza. Dopo bevemmo champagne in onore della Risurrezione. Ricordo di aver celebrato l’Eucarestia con i confratelli e consorelle in Iraq alcune settimane fa, mentre aspettavamo l’attacco militare che sarebbe sicuramente arrivato. L’Eucarestia non dovrebbe essere il centro della nostra vita comune perché sentiamo che siamo uniti, o anche perché possiamo arrivare a sentirci così. È il sacramento di quella vita abbondante che è semplicemente un dono, il “pane di vita” che Domenico promise avremmo trovato nell’Ordine. Lo riceviamo insieme, offrendoci a vicenda il cibo per il deserto. Viviamo il significato di quella Eucarestia nel disporci liberi a vicenda, contagiandoci a vicenda con l’incommensurabile libertà di Cristo. Può avvenire nella ristretta libertà del perdono liberamente concesso, oppure spezzando coscientemente alcuni vecchi sistemi di vita, di correre un rischio. Lasciamoci andare. Come scrisse Lacordaire: “Vado dove Dio mi porta, incerto di me stesso, ma sicuro di Lui”. In tutti questi modi ci lasciamo afferrare dal soffio dello Spirito che procede dal Padre e dal Figlio, che grida dentro di noi: “Abbà, Padre”. Come dice Eckhart: “Noi non preghiamo, siamo pregati”. Ed è pure il nostro ingresso nella libertà e spontaneità, quando diventiamo massimamente vivi. Ci lasciamo prendere dal movimento, come un danzatore che risponde al ritmo, trovandovi grazia e libertà. La sapienza danzava alla presenza di Dio, quando creava il mondo. San Tommaso dice che la contemplazione della persona saggia è come un gioco, perché è piacevole e perché viene fatta per suo amore, come una danza. “La serietà non mitigata indica una mancanza di virtù, perché disprezza completamente il gioco che è tanto necessario per una buona esistenza umana quanto lo è il riposo”. L’abbondanza della vita ci porta in quella giocondità di coloro che hanno scaricato la zavorra di sentirsi piccoli dei. Noi possiamo lasciar cadere la terribile serietà di coloro che credono che recano il mondo sulle loro spalle. Allora le nostre comunità possono davvero essere luoghi nei quali inizieremo a conoscere la felicità del Regno. San Domenico: Nos iunge beatis. Uniscici ai beati, perché possiamo fin d’ora partecipare un barlume della loro felicità in Cielo. (Fr. Timothy Radcliffe OP, La promessa di vita).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 08 Agosto 2018ultima modifica: 2018-08-08T22:46:50+02:00da fraternidade
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