Giorno per giorno – 25 Luglio 2014

Carissimi,
“Si avvicinò a Gesù la madre dei figli di Zebedèo con i suoi figli e si prostrò per chiedergli qualcosa. Egli le disse: Che cosa vuoi? Gli rispose: Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno. Rispose Gesù: Voi non sapete quello che chiedete. Potete bere il calice che io sto per bere? Gli dicono: Lo possiamo” (Mt 20, 20-22). Che sia stata la madre a farsi avanti per fare questa richiesta, o, come è detto nel vangelo di Marco, siano stati, più verosimilmente, i due discepoli, la sostanza non cambia. Giovanni e Giacomo (è per via della memoria di quest’ultimo che oggi ci è stato proposto questo vangelo) dovevano essere rimasti ammaliati dalla promessa rivolta da Gesù ai suoi, solo poco prima: “Quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele” (Mt 19, 28). Certo non gli era venuto in mente di pensare al paradiso. E Gesù, a cui tutto faceva immaginare il precipitare delle cose e la sua fine imminente, dev’essersi per un momento disanimato, anche per la protesta che ne era immediatamente seguita dagli altri dieci, che se n’erano stati zitti, ma desideravano sotto sotto la stessa cosa. Poi, però, com’era suo costume, invece di stare lì a recriminare, aveva scelto di approfittare dell’occasione per chiarire una volta di più le idee a quei suoi discepoli, che non riuscivano proprio a cambiare modo di pensare rispetto alla mentalità corrente, soprattutto riguardo a ciò che essa propone in ordine alla finalità dell’agire. Che è l’eterna questione del potere. In ogni ambito. Da conquistare ed esercitare, naturalmente, a fin di bene, se non di tutti, almeno di qualcuno della propria cerchia. Ora, se fosse così anche nella logica divina, non c’era proprio bisogno che il figlio di Dio si scomodasse a venire sulla terra. Noi, dal tempo del peccato originale, cioè da quando l’uomo è stato capace di scegliere, si sa bene cosa decidere e come sbrogliarcela in merito. Invece, Gesù afferma che la logica divina, e perciò anche quella che dice la verità vera dell’umano, è altra: è quella di servire e di dare la vita a favore della vita altrui. In definitiva, è questo, e solo questo, che ci fa sua chiesa, e suoi seguaci. E, se si vuol pensare in grande, è questo che definisce una civiltà che si voglia cristiana. Se no, siamo solo manipolatori. Di noi stessi, degli altri e, senza però riuscirci, di Dio.

Oggi, il calendario ci porta le memorie di Giacomo figlio di Zebedeo, apostolo; di Tommaso da Kempis, maestro spirituale; e di Jose Othmaro Caceres e 13 compagni, martiri in El Salvador.

Giacomo, figlio di Zebedeo e di Salomè, fratello di Giovanni, fu chiamato con quest’ultimo al seguito di Gesù, mentre stavano nella barca da pesca con il padre. Si deve forse al carattere impulsivo dei due fratelli il soprannome che si guadagnarono di “figli del tuono”. E questo contribuisce a renderceli simpatici! Lui, Giovanni e Simon Pietro formavano il gruppo degli amici più stretti di Gesù, presenti nei momenti cruciali del suo ministero (Mt 17,1; 26,37; Mc 5, 37; 13, 33). Come e forse più degli altri discepoli, anche Giacomo e Giovanni non avevano capito bene la missione di Gesù, e il Vangelo ci testimonia qualche loro ambizione di troppo (cf Mc 10, 35 ss), che il Maestro fu costretto a censurare. Ma, devono aver appreso la lezione. Giacomo sarà il primo degli apostoli a subire il martirio, sotto Erode Agrippa, nel 42 d.C. (cf At 12,2). Giovanni, secondo la tradizione, sarà invece l’ultimo a morire, sul finire del I secolo.

Thomas Hammerken (più noto come Tommaso da Kempis) nacque, verso il 1380, a Kempen, cittadina situata tra Krefeld and Venlo, sul confine tedesco-olandese, secondogenito del fabbroferraio Johann Hemerken e di Gertrud Kuyt. Educato nella scuola dei Fratelli della Vita comune, entrò, nel 1399, nel monastero agostiniano di Agnetenberg, nei pressi di Zwolle (Olanda), da poco fondato e di cui era priore il fratello maggiore, Johann. Nel 1406 cominciò il suo noviziato e il 12 aprile 1412 fu ordinato sacerdote. Salvo un breve periodo, tra il 1429 e 1432 (in cui l’intera comunità dovette trasferirsi), Thomas non lasciò mai il convento, dove si dedicò alla stesura di testi spirituali, che avrebbero segnato la sua epoca e quelle successive, e dove morì, più che novantenne, il 25 luglio 1471.

José Othmaro era seminarista ed era appena tornato da Guadalajara, in Messico, dove studiava. Aspettava il giorno della sua ordinazione sacerdotale. La mattina del 25 luglio 1980 si riunì con alcuni amici nella cappella in costruzione nel cantón Platanares di Suchitoto, dipartimento di Cuscatlán, a 47 chilometri da San Salvador. Volevano mostrargli lo stato di avanzamento dei lavori. In quel momento giunsero sul posto quattro camion carichi di guardie nazionali, di soldati e di integranti della “difesa civile”. Furono tutti assassinati a colpi di arma da fuoco. Al cadavere di Othmaro staccarono la testa a colpi di machete.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono propri della memoria dell’Apostolo Giacomo e sono tratti da:
2ª Lettera ai Corinzi, cap.4, 7-15; Salmo 126; Vangelo di Matteo, cap.20, 20-28.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessa l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

Tradizionalmente, e da subito dopo la sua comparsa, attribuito a Tommaso da Kempis, anche se alcuni studiosi ne fanno risalire la stesura ai sec. XIII-XIV, “L’imitazione di Cristo” è, dopo il Vangelo, il testo religioso più diffuso di tutta la letteratura cristiana occidentale, ed ha alimentato la spiritualità di un’infinita serie di generazioni di monaci, religiosi/e, e laici. Noi, nel congedarci, ve ne proponiamo un brano, come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Non si deve fare alcun male, per nessuna cosa al mondo né per compiacenza verso chicchessia; talora, invece, per giovare a uno che ne ha bisogno, si deve senza esitazione lasciare una cosa buona che si sta facendo, o sostituirla con una ancora più buona: in tal modo non si distrugge l’opera buona, ma soltanto la si trasforma in meglio. A nulla giova un’azione esterna compiuta senza amore; invece, qualunque cosa, per quanto piccola e disprezzata essa sia, se fatta con amore, diventa tutta piena di frutti. In verità Iddio non tiene conto dell’azione umana in sé e per sé, ma dei moventi di ciascuno. Opera grandemente colui che agisce con rettitudine; opera lodevolmente colui che si pone al servizio della comunità, più che del suo capriccio. Accade spesso che ci sembri amore ciò che è piuttosto attaccamento carnale; giacché è raro che, sotto le nostre azioni, non ci siano l’inclinazione naturale, il nostro gusto, la speranza di una ricompensa, il desiderio del nostro comodo. Chi ha un amore vero e perfetto non cerca se stesso, in alcuna sua azione, ma desidera solamente che in ogni cosa si realizzi la gloria di Dio. Di nessuno è invidioso colui che non tende al proprio godimento, né vuole personali soddisfazioni, desiderando, al di là di ogni bene, di avere beatitudine in Dio. Costui non attribuisce alcunché di buono a nessuno, ma riporta il bene totalmente a Dio; dal quale ogni cosa procede, come dalla sua fonte e, nel quale, alla fine, tutti i santi godono pace. Oh, chi avesse anche una sola scintilla di vera carità, per certo capirebbe che tutto ciò che è di questa terra è pieno di vanità. (Tommaso da Kempis, Imitazione di Cristo, XV, 1-2).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 25 Luglio 2014ultima modifica: 2014-07-25T22:20:32+02:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo