Giorno per giorno – 24 Luglio 2014

Carissimi,
“Udrete, sì, ma non comprenderete, guarderete, sì, ma non vedrete. Perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri di orecchi e hanno chiuso gli occhi, perché non vedano con gli occhi, non ascoltino con gli orecchi e non comprendano con il cuore e non si convertano e io li guarisca!” (Mt 13, 14-15). È la fotografia della generazione contemporanea di Gesù, basata su una citazione di Isaia, che l’evangelista sa bene quanto sia vera anche per la comunità a cui si rivolge, e di cui noi, dopo duemila anni, sperimentiamo ancora la drammatica attualità. Anche nella nostra vita. I discepoli avevano chiesto a Gesù perché mai parlasse in parabole e Lui aveva risposto che lo faceva perche aveva davanti interlocutori che “pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono” e aveva aggiunto di cogliere in questo il compimento dell’antica profezia. Che, dunque, è sempre valida. Basterebbe guardare alle nostre reazioni dinanzi a ciò che accade nel mondo, agli episodi di violenza sconvolgente, alla brutalità delle guerre, alla dissennata ferocia dei vari terrorismi, al dramma di rifugiati e migranti, allo sterminio operato dalla miseria e dalla fame, per capire che c’è qualcosa che non va. Che, se non prevale l’indifferenza e si arriva alla condanna, questa finisce per riguardare invariabilmente l’altro, quello più distante da noi, meno assimilato alla nostra cultura, ai nostri valori, alla nostra civiltà. Mentre Gesù, con la sua proposta del Regno ci chiede ben altro. Pensiamo alle beatitudini. Chi le prende, oggi, (o chi le ha mai prese) sul serio, anche all’interno della Chiesa? E cosa d’altro deve fare Gesù, se non continuare a raccontare le sue parabole e riproporre se stesso come parabola definitiva del Padre e di ogni vocazione umana che accetti di viversi nella dimensione di figlio di Dio, e perciò della fraternità universale? Forse, un giorno, riuscirà a catturare la nostra attenzione, forse ci accorgeremo del tempo e delle occasioni perdute, forse decideremo di aprirci all’amicizia con Lui, lasciando da parte ogni altro interesse di parte, ideologico, economico, persino religioso, avendo scoperto nella proposta del Regno l’unico tesoro che davvero valga la vita. Forse, allora, lo seguiremo.

Il martirologio latinoamericano ci porta oggi la memoria di Ezechiele Ramin, missionario e martire in Brasile.

Ezechiele (Lele) Ramin era nato a Padova il 9 febbraio 1953, nella famiglia di Mira e Mario Ramin, di solide radici cristiane. Durante gli studi aveva preso progressivamente coscienza dei soprusi, ingiustizie e disuguaglianze che caratterizzano l’attuale modello di sviluppo. Si era perciò avvicinato all’Associazione Mani Tese, e aveva contribuito ad organizzarne un gruppo locale nella sua città, partecipando poi a numerosi campi di lavoro per sostenerne i progetti nei paesi del sud del mondo. Alla fine del 1972, si sentì chiamato ad un impegno più radicale e scelse di entrare tra i missionari comboniani. Ordinato sacerdote il 28 settembre 1980, fu inviato, nel gennaio 1984, a Cacoal in Rondonia, Brasile. Impegnatosi nel CIMI (Consiglio Indigenista Missionario), verrà da lì a poco assassinato per il suo impegno a fianco degli indios e dei sem-terra. Era il 24 luglio 1985. Pochi mesi prima di essere ucciso aveva scritto: “La vita è bella e sono contento di donarla. Voglio che sappiate questo”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Geremia, cap.2, 1-3.7-8. 12-13; Salmo 36; Vangelo di Matteo, cap.13, 10-17.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

La notte tra il 26 e il 27 di Ramadan (dell’anno egiriano 1435) coincide con la notte che è scesa da poche ore ed è per i nostri fratelli musulmani Lailat al-qadr, la “Notte del destino”, durante la quale ebbe luogo la Rivelazione. Il Corano dice di essa: “È più importante di mille mesi assieme! Discendono gli angeli e lo spirito, in quella notte, col permesso del Signore e con ordini per ogni cosa. Ed è subito gran pace, fino allo spuntare del giorno” (Corano, XCVII, 3-5). Abu Hureirah, dal canto suo, narra che il Profeta Mohammed disse: “Chiunque eleva preghiere nella Notte del Destino con fede sincera, sperando nella ricompensa di Allah, tutti i suoi peccati precedenti saranno perdonati; e chiunque digiuna nel mese di Ramadan con fede sincera, sperando nella ricompensa di Allah, tutti i suoi peccati precedenti saranno perdonati”. Che il perdono e la pace possano davvero regnare nel mondo. Non solo stanotte.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura l’ampio stralcio di un’omelia tenuta da Ezechiele Ramin, a Cacoal, il Venerdì Santo del 1985. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
È deplorevole che la morte di Cristo non sia vista come conseguenza della sua vita, ma come fatto prestabilito, indipendente dalle decisioni degli uomini, dal rifiuto delle autorità dei giudei, dalla condanna di Pilato. Può sembrare così che Dio Padre provi piacere e soddisfazione nella violenta e sanguinosa morte di croce del proprio Figlio. Morte espiatrice, soddisfatoria, come forma adatta a ristabilire il diritto e la giustizia. Diritto e giustizia di chi? Guardate, fratelli, i ladroni crocifissi con Cristo, per vedere l’altra realtà. Quante volte si vide in Roma crocifiggere un ladro per avere rubato poca cosa e nello stesso giorno essere portato in trionfo un dittatore che con l’esercito e le legioni aveva spogliato e rubato la terra degli altri popoli. Chi ruba una barca è pirata, chi ruba un’armata è imperatore. Chi ruba terre è onorato latifondista, proprietario, commerciante; chi occupa un pezzetto di terra per sopravvivere è ladro; e mentre costui è costretto a vivere in continuo rischio e pericolo di morte, i grandi rubano senza timore e senza pericolo. Se i poveri rubano sono impiccati; ma se sono i ricchi a rubare, essi rubano e impiccano. […] Ora, è solo il buon ladrone che entra in Paradiso, mentre per gli altri valgono le parole di Cristo: “Chi non entra per la porta è ladro due volte” (Gv 10,1). Poiché colui che non entra attraverso la porta che è Gesù, già è ladro e rimane nella notte: questa è la vera morte senza risurrezione. Davanti a Cristo, pensate, cari fratelli e sorelle, al dovere di restituire… In questa restituzione, che cosa danno e che cosa lasciano? Ciò che danno è quello che non hanno e ciò che lasciano è quello che non possono portare con sé. “Nudo sono venuto nel mondo e nudo ne uscirò”, diceva Giobbe (Gb 1,21). La croce è la solidarietà di Dio, che assume il cammino e il dolore umano, non per renderlo eterno, ma per sopprimerlo. La maniera con cui vuole sopprimerlo non è attraverso la forza né col dominio, ma per la via dell’amore. Cristo predicò e visse questa nuova dimensione. La paura della morte non lo fece desistere dal suo progetto di amore. L’amore è più forte della morte. In mille modi siamo oppressi, ma non ci abbattiamo; ci troviamo nelle angustie, ma non ci disperiamo, perseguitati ma non abbandonati, abbattuti ma non annichiliti, morti ed ecco che viviamo, tristi ed ecco ci rallegriamo, poveri ma arricchiamo molti, nulla avendo e tutto possedendo. (Ezechiele Ramin, Omelia del Venerdì Santo 1985).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 24 Luglio 2014ultima modifica: 2014-07-24T22:19:41+02:00da fraternidade
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