Giorno per giorno – 15 Marzo 2009

Carissimi,
Rachem, Hashem, Elohenu, al Ysrael amecha, veal Yerushalaim irecha, veal Tsiyon mishcan kevodecha, veal malchut Bet David meshichecha, veal haBayit hagadol veacadosh shenicrá shimchá alav”, ovvero: “Abbi pietà, o Eterno, Dio nostro, d’Israele tuo popolo, di Gerusalemme tua città, del monte Sion che è sede della Tua maestà, del regno della dinastia di David Tuo Messia, della grande e sacra Casa dedicata al Tuo Nome!”. Si apre così la terza delle quattro benedizioni che gli ebrei recitano dopo i pasti, che è diventata anche una canzone molto popolare, dal titolo, appunto, Rachem, Pietà! A duemila anni dalla sua distruzione, la preghiera continua a dirigersi ancora sulla “grande e sacra Casa” dedicata al Suo Nome. L’importanza che essa ha per il popolo della Prima Alleanza, la si può intuire guardando alla preghiera che i fedeli compiono presso il Muro occidentale, l’unico rimasto in piedi da allora. Che non rivela semplicemente devozione, ma, assai di più: passione, trasporto, amore. Del resto è parlando di essa che l’Eterno aveva promesso a Salomone: “Ho santificato la casa che hai costruito, per porvi il mio Nome per sempre, e i miei occhi e il mio cuore saranno lì tutti i giorni” (1Re 9,3). Come non credergli? Ora, per capire l’indignazione di Gesù di fronte a ciò che Lui denuncia come profanazione del Santuario (Gv 2, 14-16), secondo il racconto del vangelo di oggi, bisogna forse rifarsi a questo sentimento che, certo in maniera ancora più profonda e intensa, lo lega alla Casa del Padre, a ciò che essa significa e rappresenta: lo spazio simbolico dell’incontro con Dio, cioè con la nostra verità più vera, con il nostro mistero ultimo. Che ha necessariamente caratteristiche diverse, rispondenti ai differenti popoli, culture e religioni. Incarnazione, kenosi, e umiltà di Dio consistono, infatti, così ci sembra, anche in questo “trovar posto” nelle casa costruite dagli uomini: che si tratti del tempio di Salomone, o di una moschea, di una sinagoga, di una basilica cristiana, di un tempio indù, di una pagoda, al pari della casa di dona Dominga, con il suo piccolo altare domestico. Ed esigono la capacità di Dio di dirsi, qualche volta, addirittura, di balbettarsi, nei loro linguaggi. Tutto ciò a condizione di non essere mai in funzione del potere di qualcuno, economico, politico, sociale, religioso. La spazio del nostro incontro con Dio dev’essere solo tale, senza mercanti, ladri, e lestofanti pronti a vendere Dio e i suoi figlioli al migliore offerente.

I testi che la liturgia di questa 3ª Domenica di Quaresima propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Esodo, cap. 20,1-17; Salmo 19; 1ª Lettera ai Corinzi, cap 1,22-25; Vangelo di Giovanni, cap. 2,13-25.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e Chiese cristiane.

Bene, noi ci congediamo qui. C’è uno scrittore ucraino di lingua yiddish, che ci piace molto, Sholem Aleykhem (in realtà si chiamava Sholem Rabinovitch), di cui la nostra amica Giusi – che dev’essere tornata proprio oggi da un viaggio sulle orme di Charles de Foucauld, nel Sahara algerino – ci ha regalato a suo tempo un prezioso libriccino, dal titolo “Cantico dei cantici. Un amore di gioventù in quattro parti” (Adelphi). In esso c’è una pagina che narra il reincontro dell’autore con la sua vecchia sinagoga – il suo Tempio – e il suo amore per essa. Ve la proponiamo, nel congedarci, come nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Anche la nostra sinagoga, la nostra vecchia, vecchia sinagoga è rimasta tale e quale, non è cambiata di una virgola. Le sue pareti si sono solo fatte un po’ più nere. L’ammud è diventato più basso. La bimah più vecchia. E l’aron ha perduto lo splendore di quando era nuovo. La nostra sinagoga appariva ai miei occhi come un piccolo Tempio. Adesso il Tempio si è piegato un po’ sul fianco. Ah! Dove sono andati a finire la santa magnificenza e lo splendore della nostra vecchia sinagoga? Dove sono gli angeli che solevano aleggiare sul soffitto dipinto tutti i venerdì sera, per la cerimonia d’accoglienza del sabato, e tutte le sere delle festività, per la preghiera di barekhu? Anche i membri della comunità sono cambiati pochissimo. Sono solo invecchiati un po’. Barbe nere sono diventate bianche. Spalle dritte si sono incurvate. Soprabiti di seta sono ormai consunti. Si intravedono fili bianchi, righe gialle. Anche Meylekh, il cantore, canta ancora bene come un tempo, anni fa. La sua voce si è solo un po’ indebolita.Quando prega si avverte una nuova intonazione: è un pianto più che una melodia. È un lamento più che una richiesta. E il nostro rabbino? Il vecchio rabbino? – Lui non è cambiato per niente. Sembrava neve appena caduta ed è rimasto tale, come neve appena caduta. Solo un piccolo particolare: ora gli tremano le mani. Tutto il corpo gli trema. Per la vecchiaia evidentemente. […] Un tempo, anni fa, stavo bene qui, mi ricordo, infinitamente bene! Qui, nel piccolo Tempio, la mia anima di bambino si librava insieme agli angeli verso il soffitto dipinto. Qui nel piccolo Tempio, una volta, anni fa, pregavo insieme a mio padre e a tutti gli altri ebrei con sincerità e con fervore… (Sholem Aleykhem, Cantico dei cantici).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 15 Marzo 2009ultima modifica: 2009-03-15T23:23:00+01:00da fraternidade
Reposta per primo quest’articolo