Giorno per giorno – 31 Agosto 2012

Carissimi,

“Il regno dei cieli sarà simile a dieci vergini che presero le loro lampade e uscirono incontro allo sposo” (Mt 25, 1). La chiesa (ma anche più di essa) è questo andare incontro allo sposo. Ed è anche, ogni volta, incontrarlo. Noi, il vangelo, lo acclamiamo sempre con il versetto del salmo: “Tua palavra é lâmpada para os meus pês, Senhor, luz para o meu caminho” (Sal 119, 105), “La tua parola è lampada per i miei piedi, luce sul mio cammino”. E, stasera, durante l’eucaristia celebrata con padre Paulo nella chiesetta dell’Aparecida, ci dicevamo che, più ancora delle altre volte, esso ci aiutava ad intendere la Parola che ci veniva diretta. La lampada di cui dice la parabola è dunque la stessa parola di Dio, che va continuamente alimentata. E la si alimenta, ascoltandola, masticandola, ruminandola, come insegnavano gli antichi monaci, facendone il respiro della nostra vita. Una volta o l’altra succederà sempre che la chiesa, cioè noi, si addormenti, nelle sue facili sicurezze, nei suoi riti e cerimoniali, nella monotona ripetizione di formule, nelle sue tradizioni che scivolano spesso in sterili tradizionalismi, e qualche volta persino nei suoi peccati, nelle sue idolatrie, nelle sue sconsiderate alleanze coi potenti. Però, se noi si è fatta la scorta di quella Parola (è questo di cui ci si deve preoccupare!) ed essa continua a risuonare nel nostro cuore, quando, finalmente, ci capiterà di svegliarci (dato che non si può dormire sempre), e sentiremo l’annuncio: Ecco lo sposo!, sapremo scuoterci, riordinarci, corrergli incontro e, soprattutto, riconoscerlo nelle forme inedite in cui si fa presente nelle sue nozze con l’umanità. La chiesa non è il tutto dell’umanità, è solo quelle dieci ragazze della parabola, alcune sagge e accorte, altre un po’ stupide e vanesie. Le prime che si rallegrano nello scoprire, testimoniare e prendere parte alla grande festa di nozze che è il regno, le altre, che, senza l’olio della Parola, arrivano immancabilmente in ritardo sui tempi e restano fuori a morire di rabbia. Ora, noi possiamo essere, di volta in volta, le une o le altre. Forse è meglio provvedere per tempo..

 

Il calendario ci porta oggi le memorie di Mons. Leónidas Proaño, pastore povero tra i suoi indigeni, e John Leary, giovane al servizio della vita e della pace. A tempo pieno.

 

31 Leónidas Proaño,.jpgVescovo di  Riobamba (Equador), taita (papà) e liberatore degli  indios, profeta della Chiesa latino-americana, Leónidas Eduardo Proaño Villalba era nato il 29 gennaio 1910, a San Antonio de Ibarra, nella Provincia di Imbabura, in Ecuador, figlio unico, solo perché i fratelli, nati prima di lui, erano morti prematuramente. Quando, terminata la scuola, stava frequentando filosofia, decise di farsi prete, per essere “parroco di campagna e dedicarsi agli indigeni”. Ordinato presbitero nel 1936 e consacrato vescovo di Riobamba nel 1954, scelse di ascoltare, condividere, dialogare con la gente, vittima secolare dell’egoismo, della menzogna istituzionalizzata, della miseria e della disperazione. Diede così avvio alla “nuova evangelizzazione” che intendeva promuovere l’organizzazione contadina, la sua autonomia economica e il riscatto della cultura indigena. Lo chiamarono il “vescovo rosso”. Lui rispose: “Non sono marxista, né comunista, cerco solo di essere fedele al Vangelo”. Disse anche: “Il capitalismo è freddo, come è freddo tutto ciò che è metallico. Non gli importa degli uomini. Gli importano i profitti. E gli uomini e i popoli, gli importano solo nella misura in cui gli garantiscono dei profitti. Famelico com’è di profitti, non esita a divorare uomini e popoli. È freddo, senza cuore”. Quando, compiuti 75 anni, si ritirò dalla guida della diocesi, accettò le sofferenze causate da un cancro, senza ricorrere a cure straordinarie. Le sue ultime parole, in piena lucidità di mente, furono espressione di un drammatico esame di coscienza e denunciarono la grande responsabiltà della Chiesa per il peso sopportato dagli indios durante i secoli. Il  Taita-Vescovo entrò nella casa del Padre, accolto da milioni di fratelli indigeni, il 31 agosto 1988.

 

31 John Leary.jpgNon sono molte le notizie che abbiamo su John Leary, ma sappiamo che, quando l’Amico gli si fece incontro definitivamente, era il 31 agosto 1982. Lui, come ogni giorno, stava percorrendo di corsa la strada che separa il Centro di Pax Christi, a Cambridge, dalla Haley House, la comunità del Catholic Worker a Boston, dove viveva. Un infarto fulminante lo fermò a metá del cammino. John aveva solo ventiquattr’anni, di cui, gli ultimi sei, li aveva trascorsi a Boston, studiando all’Harvard College e dedicando il resto del suo tempo ai prigionieri, ai senzatetto e agli anziani o coinvolgendosi in proteste e manifestazioni contro le spese militari, la pena di  morte, l’aborto. Un paio di volte, era persino finito dentro. Giusto poco prima di morire si era laureato con pieni voti e lode in Scienze Religiose ad Harvard. Quanti lo incontravano restavano colpiti dalla sua allegria, dalla sua semplicità, dalla sua saggezza, così rara nei giovani della sua età. John era cresciuto in una modesta famiglia cattolica di origine irlandese nel New England.  Ispirato da figure come Dorothy Day e Thomas Merton, aveva scoperto la via nonviolenta della croce di Gesù, nella dedizione agli altri, e se ne era appassionato. Partecipava ogni giorno all’Eucaristia, passava ore a leggere la Bibbia, pregava il rosario, e faceva spesso ritiri in un monastero trappista locale. Mentre faceva jogging, soleva recitare la preghiera del Nome. Sicché, quell’ultimo pomeriggio, dev’essere successo che Lui, a sentirlo per l’ennesima volta chiamare: “Signore Gesù Cristo, figlio del Dio vivo”, gli si è fatto incontro e gli ha detto: Eccomi. E se l’è portato via.   

 

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

1ª Lettera ai Corinzi, cap.1, 17-25; Salmo 33; Vangelo di Matteo, cap.25, 1-13.

 

La preghiera del venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica che professano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

 

31 Carlo Maria Martini.jpgDunque Martini se n’è andato. Oppure, come crediamo, ci raggiunge ora più che mai, tutti. Lui, la cui vita è stata sempre, davvero, alimentata, da quella Parola di cui era così inguaribilmente innamorato e di cui ha fatto appassionare molti. Noi, lo si è ovviamente ricordato nell’Eucaristia di stasera, anche per la speciale risonanza che il vangelo di oggi – quello della lampada della Parola – ha avuto nella sua parabola esistenziale. In cui i dati biografici servono solo a inquadrarne meglio la figura, ma non paiono essere la cosa più essenziale. Li ricordiamo comunque qui di seguito. Nato a Torino il 15 febbraio 1927, Carlo Maria Martini entrò diciassettenne nella Compagnia di Gesù, nel 1944, e fu ordinato presbitero dal Card. Maurilio Fossati, il 13 luglio 1952. Dopo aver conseguito il dottorato in teologia presso la Pontificia Università Gregoriana nel 1958, proseguì gli studi presso il Pontificio Istituto Biblico, di cui nel 1969 divenne rettore, affermandosi nel contempo come biblista di fama internazionale. Nel 1978 venne nominato da Paolo VI rettore dell’Università Gregoriana. E nella Quaresima dello stesso anno venne chiamato in Vaticano a predicare il ritiro quaresimale al Papa e alla curia romana. Giovanni Paolo II, nel dicembre dell’anno successivo, lo elesse Arcivescovo di Milano, consacrandolo  personalmente il 6 gennaio del 1980. Nella diocesi ambrosiana, padre Martini si fece promotore della “Scuola della Parola” per facilitare ai giovani l’incontro con la Sacra Scrittura e il suo approfondimento, secondo il metodo della lectio divina. Altra iniziativa, a suo modo clamorosa, fu la  “Cattedra dei non credenti”, con la quale invitò la Chiesa a porsi in ascolto delle posizioni che, su varie tematiche che interpellano la coscienza dell’uomo contemporaneo, sono venute maturando in ambito laico e in ambienti che non condividono la fede cristiana, sviluppando con essi un dialogo franco, rispettoso e reciprocamente arricchente. Questa attitudine all’ascolto di una Parola, che ci raggiunge contemporaneamente dalla Scrittura, dall’evento di Gesù  e dall’umanità concreta in cui ci muoviamo e che si traduce nella proposta di una verità non preconfezionata, ma da ricercare ogni volta insieme all’altro che incontriamo, ci pare il segno che caratterizzò il ministero e il magistero pastorale del card. Martini. Compreso quello che copre l’arco di tempo successivo alle dimissioni dalla cattedra di Milano, per sopraggiunti limiti di età, nel 2002, durante il tempo trascorso nell’amata Gerusalemme, e, dopo il ritorno in Italia, nel 2007 fino al ritorno alla casa del Padre, avvenuto nel pomeriggio di oggi, all’Aloisianum di Gallarate. Le ultime parole, nella messa concelebrata ieri mattina, erano state le sue, che da mesi non aveva più voce: “La messa è finita, andate in pace”.  

 

Noi scegliamo di ricordare Carlo Maria Martini con una pagina del suo libro “Ritrovare se stessi. C’è un momento nell’anno per fermarsi e cercare” (Centro Ambrosiano Edizioni Piemme). Che è, per oggi, il nostro  

 

PENSIERO DEL GIORNO

Se noi chiediamo in che maniera l’offesa fatta al prossimo raggiunge e lede Dio, Egli stesso ci risponderà dal libro dell’Esodo, nella visione del roveto ardente. Il Faraone opprime gli Ebrei e Dio, apparendo a Mosè, si costituisce parte lesa e inizia la sua azione contro l’oppressore con queste parole: “Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. Sono disceso per liberarlo” (Es 3, 7-8). Ci risponderà ancora il vangelo di Matteo, nella scena del giudizio universale, dove Gesù si costituisce parte lesa ovunque un affamato non è nutrito e un carcerato non è visitato: “In verità vi dico… non l’avete fatto a me” (cf Mt 25, 31-46). C’è un brano del vangelo di Luca che ci può fare cogliere più profondamente l’esperienza del dolore del peccato che abbiamo colto nelle parole di Davide. È l’episodio di Pietro che per tre volte ha negato di conoscere Gesù: “In quell’istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte. E uscito, pianse amaramente” (Lc 22, 54-62). Perché Pietro scoppia in pianto? Fino a quel momento aveva una certa coscienza, anche se un po’ annebbiata, di avere fatto un cosa sbagliata, di essersi disonorato, di avere tradito un amico. Ma è solo quando Gesù lo incontra e lo guarda che Pietro scoppia in pianto. In quel momento capisce una cosa sola: io ho rinnegato quest’uomo e lui va a morire per me! È la sovrabbondanza incredibile di fiducia e di attenzione a chi l’ha demeritata, che fa scattare il contrasto. Il dolore cristiano nasce dalla percezione di questo contrasto, nasce dall’incontro con Colui che, offeso in sé e nel suo amore per l’uomo, offre, come contraccambio, uno sguardo di amicizia. La rivelazione della colpevolezza del cristiano viene dall’incontro con Cristo, con la sua Parola e con la sua Persona. Questo incontro sblocca la rigidità del giudizio su di noi, giudizio sempre incerto e impacciato, e la scioglie in un vero pentimento, nel dispiacere interiore per avere offeso Cristo nella sua persona; nel dispiacere per la scorrettezza del nostro rapporto di amicizia, per l’infrazione del codice di onore e di tenerezza, per la disattenzione e il disprezzo di un rapporto prezioso. (Carlo Maria Martini, Ritrovare se stessi. C’è un momento nell’anno per fermarsi e cercare).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 31 Agosto 2012ultima modifica: 2012-08-31T23:43:00+02:00da fraternidade
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