Giorno per giorno – 26 Aprile 2011

Carissimi,

“Le dissero: Donna, perché piangi? Rispose loro: Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”  (Gv 20, 13). Stasera, a casa di dona Margarida, dov’era riunita la Comunità, per una qualche associazione di idee, il pensiero è andato a ciò che è successo l’altro ieri nella chiesetta dell’aeroporto, dove qualche povero ragazzo, forse in preda a una crisi d’astinenza, ha divelto la grata di una finestra, è entrato e ha fatto un po’ di danni. Ha sfondato un armadio, buttato a terra i pochi paramenti che vi erano custoditi, ne ha aperto un altro, prelevandone un vecchio amplificatore e i microfoni; ha spostato poi il tavolo che funge da altare, vi si è arrampicato per rimuovere e portarsi via gli altoparlanti e, infine, ha schiodato dalla parete il tabernacolo, salvo scoprire poi che non c’era dentro nulla che gli potesse servire e abbandonandolo subito fuori dalla porta. La magra refurtiva, la polizia l’ha ritrovata già ieri. Il malcapitato non deve aver trovato nessuno che accettasse di comprarla anche per poco, tant’era malmessa. E, comunque, in tutti noi restava dentro un po’ di amarezza: hanno portato via [quel Pane che è] il Signore! Ma, anche in questo caso, non era lontano. Era li, nel terreno accanto. Solo che stavolta non è stata Maria Maddalena a trovarlo, ma Carmo, il figlio di dona Nady.  E il tabernacolo è tornato presto al suo posto. Però la riflessione non si poteva fermare lì. Perché il pericolo è un altro. È che quel pane possa alla fine essere per noi privo di significato come per quel o quei ragazzi. Così come può esserlo la Pasqua. O il nostro dirci cristiani. E allora la nostra chiesa torna ad essere un sepolcro che custodisce un cadavere, dei simboli muti, una comunità inerte. Invece il sepolcro vuoto ci scuote. È Lui che non ci sta a fare il morto. È Lui che ci inquieta, gioca a nascondino: cercami altrove, sembra che dica. Il nostro riunirci in chiesa, o comunque a pregare, deve portarci a constatare che Lui è sempre e ogni volta altrove, presente in ogni pane offerto, in ogni vita donata, in ogni sofferenza del mondo che chiede di essere sanata.  E ci chiama, come allora, per nome: Maria. E ogni nostro nome.  

 

Oggi è il Terzo Giorno dell’Ottava pasquale. I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:

Atti degli Apostoli, cap.2, 36-41; Salmo 33; Vangelo di Giovanni, cap.20, 11-18.

 

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali del Continente africano.

 

Oggi il nostro calendario ci porta la memoria di Origene, catechista, presbitero e martire,  di Albert  Peyriguère, contemplativo “berbero tra i berberi”, e di mons. Juan José Gerardi Conedera, martire  per i diritti umani in Guatemala.

 

26 ORIGENE.jpgOrigene nacque verso il 185 probabilmente ad Alessandria. La persecuzione del 202 vide il martirio di suo padre, Leonida, e ridusse la famiglia in miseria. Nel 204 il vescovo della città, Demetrio, lo mise a capo della prima scuola catechetica ufficiale. Sostenitore di una vita ascetica, interpretando alla lettera un passo evangelico su quanti si fanno eunuchi per amore di Dio, Origene si evirò verso il 210. Forse dopo la persecuzione di Caracalla nel 215, si allontanò da Alessandria e si recò in Palestina, dove, su richiesta dei vescovi Teoctisto di Cesarea e Alessandro di Gerusalemme, svolse un’intensa attività di predicazione e fu ordinato sacerdote. Tornato ad Alessandria, il vescovo Demetrio giudicó illegittima la sua ordinazione, a causa della sua mutilazione, e cominciò a perseguitarlo. Questo lo indusse a far ritorno a Cesarea e a stabilirsi là, fondando una scuola simile a quella di Alessandria. Fu scrittore infaticabile, scrisse commenti a quasi tutti i libri della Scrittura e numerosissime omelie o prediche, che prendono spunto da passi evangelici o biblici. Durante la persecuzione dell’ imperatore Decio fu incarcerato e barbaramente torturato. Morì in conseguenza di questo trattamento, all’ età di 70 anni, nel 253, a Tiro.

 

26 Père periguère.JPGAlbert Peyriguère era nato il 28 settembre 1883 a Trebons (Hautes-Pyrénées), nei pressi di Lourdes, in una famiglia di artigiani che si trasferì in seguito a Talence. Dopo gli studi a Bordeaux,  Peyriguère fu ordinato prete, l’8 dicembre 1906. Nel 1914 fu inviato al fronte come barelliere e il coraggio dimostrato gli valse la croce di guerra e la medaglia al valor militare. Nel 1920 decise di partire per la Tunisia, dove, in un primo tempo, fu cappellano in un collegio, a Silonville, e poi parroco a Hammamet. Fu a quell’epoca che lesse la vita di Charles de Foucauld e decise che la sua vocazione sarebbe stata di vivere l’ideale evangelico secondo la spiritualità dell’eremita del Sahara. Per dar compimento al suo desiderio di “vivere in mezzo ai più poveri, tra gli indigeni, conducendo una vita di preghiera, di lavoro manuale, di sacrificio e di povertà”, nel giugno del 1926 lasciò la Tunisia  per l’Algeria, dove con padre Camille de Chatouville, che aveva conosciuto l’eremita di Tamanrasset, fondò, nell’oasi di La Daya,  una fraternità basata sulla regola scritta da de Foucauld. Durò poco. Debilitato, Peyriguère fece ritono in Francia il 29 agosto 1926. Nel gennaio del 1927, tuttavia, era già nuovamente in viaggio, questa volta con destinazione Marocco. Nel 1928 fu inviato a Taroudant, in una regione devastata dalla fame e da un’epidemia di tifo. Il prete si ammalò. Trasportato in fin di vita all’ospedale, riuscì tuttavia a scamparla. Nel luglio dello stesso anno decise di andare a vivere tra i Berberi, nel villaggio di El Kbab. Lì resterà fino alla morte e lì  compirà il passo della sua più profonda conversione, che lo porterà a fare ciò che era mancato al suo modello e ispiratore: denunciare il colonialismo francese e le azioni criminali di cui si stava rendendo responsabile e schierarsi risolutamente al fianco della lotta per l’indipendenza del popolo marocchino.  Quando, due anni dopo il conseguimento dell’indipendenza, il principe ereditario Moulay Hassan, il futuro re Hassan II, si recò a El Kbab per inaugurare una moschea, volle incontrare il marabutto cristiano per ringraziarlo: “Mio padre ed io, gli disse, sappiamo tutto ciò che avete fatto e tutto ciò che fate”. E l’anziano eremita gli rispose con un sorriso: “Anch’io sono un martire dell’indipendenza!…”. Albert Peyriguère morì a El Kbab il 26 aprile 1959 e fu sepolto, come desiderava, tra la sua gente. Lasciò scritto: “Quanti donano Cristo senza parlarlo? Quanti, parlandolo senza viverlo, non lo donano affatto? Cristo è circondato da apostoli che parlano. Ma quanta fame e sete Egli ha di apostoli che lo vivano”.

 

26 gerardi.jpgJuan José Gerardi Conedera nacque a Città del Guatemala il 27 dicembre 1922. Ordinato sacerdote nel 1946, svolse la sua attività pastorale soprattutto nelle zone rurali del Paese, fino a quando fu nominato, il 9 maggio 1967,  vescovo di Verapaz. Scelse come priorità del suo ministero la difesa e la valorizzazione della popolazione indigena, della loro cultura e delle loro lingue. Negli anni settanta, quando imperversava la violenza militare, non esitò a far sentire la sua voce in difesa delle vittime. Nominato vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di Guatemala, divenne, nel 1988,  membro della Commissione nazionale di Riconciliazione, che aveva il compito di favorire i colloqui tra la guerriglia, il governo e la società civile in vista degli Accordi di Pace, che sarebbero stati firmati nel 1996. Fu tra i fondatori dell’Ufficio dei Diritti Umani dell’Arcivescovado (Odha) e si fece promotore del progetto “Recupero della Memoria Storica”, che produsse il rapporto “Guatemala: Nunca más”, una raccolta di migliaia di testimonianze delle vittime della violenza di trentasei anni di guerra civile e della repressione scatenata dall’esercito contro le popolazioni indigene. Due giorni dopo la presentazione del Rapporto, il 26 aprile 1998, nelle strade della capitale, in una pozza di sangue, venne trovato un cadavere col volto fracassato da un blocco di cemento. Il riconoscimento potè avvenire solo grazie all’anello episcopale: si trattava di mons. Gerardi.

 

Ci siamo dilungati anche troppo. E faremo anche di più, congedandoci, con questa poesia di Dom Pedro Casaldáliga dedicata al Buen Pastor Gerardi, che è per oggi il nostro

 

PENSIERO DEL GIORNO

Venivi dal Quiché, dal Quiché martire; / dalla terra devastata; / dai molti esili del tuo Popolo; / da una lunga agonia di silenzi e attese; / dagli alti vulcani, compressi / di indignazione profetica… // Volevi “costruire un paese altro”, / sognavi una nuova Verapaz. / “La costruzione del Regno comporta rischi”, / lo sapevi molto bene, e tuttavia vivevi / i diritti umani come sogni divini; / con la tua sete di giustizia vera; / nella tua opzione per le vittime, che sono anche i poveri. // Venivi libero e forte, temprato nell’Evangelo, / vestito di una casacca popolare, / con buon umore chapin, / Juanito, monsignore, saggio e corretto / come un patriarca maya. // Hai alzato la tua voce in Parlamento / e nei fori mondiali, / e il rapporto del REMHI e della ODHA / raccoglievano finalmente la voce silenziata, / la verità della Storia. / Sentinella della notte e dell’aurora, / pastore di un Popolo insonne, / la pace aveva bisogno della firma del tuo sangue / e tu l’hai data, totale, limpida e bella / come un calice di Pasqua.  // Ti ruppero gli occhi, perché videro / il massacro di un Popolo; / la conchiglia dell’udito che ne accolse il clamore interminabile; / la bocca profetessa che gli ha restituito il canto… / Però nel tuo volto, dilaniato dall’odio, come in un velo collettivo della Veronica, / sono riapparsi tutti i volti morti, / viventi per sempre! / Le colonne madri della nostra cattedrale / hanno posto al sole di Dio e della Storia / i nomi segnati dal sangue dell’Agnello. / E il 26 aprile è diventata una data miliare, / alleluia pasquale di marimba e garofani, / kairós di libertà nella Chiesa e nella Patria. / La pietra che frantumò il tuo corpo consacrato / ti fece pietra angolare della memoria viva. // Faremo verità della memoria / e “questa verità sarà che non dimenticheremo”. / Ci sarà perdono, ma non dimenticanza. / Abbiamo giurato: “Guatemala: Mai più!” / Mai più dittature né massacri, / né paure suicide, né complici silenzi. / Sempre più Guatemala, libero, indigeno, fraterno! / E maturerà il mais della giustizia maya, / fiorirà la pace nelle orchidee / – bianche di luce, dimore della memoria – / e il volo del quetzal  ricamerà l’utopia. // La tua morte / buon pastore, non è stata invano. / Guidati dal tuo esempio, noi continueremo / forgiando la verità e la giustizia, / prestando voce al canto ammutolito, / dando speranza al Popolo in cammino, / dando la vita al Regno dei poveri. / Le ombre del potere e la menzogna / pretendono di offuscare, invano, / la grazia della tua gloria. / Tu sei già in piena Luce, in vera Pace, / e sei la Chiesa viva, il nuovo Guatemala! / Nulla cancellerà dalla memoria / la tua memoria, Gerardi. (Pedro Casaldáliga, Al buen pastor Gerardi, mártir de la memoria).

 

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 26 Aprile 2011ultima modifica: 2011-04-26T23:15:00+02:00da fraternidade
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