Giorno per giorno – 05 Gennaio 2017

Carissimi,
“Filippo trovò Natanaèle e gli disse: Abbiamo trovato colui del quale hanno scritto Mosè, nella Legge, e i Profeti: Gesù, il figlio di Giuseppe, di Nàzaret. Natanaèle gli disse: Da Nàzaret può venire qualcosa di buono? Filippo gli rispose: Vieni e vedi” (Gv 1, 45-46). Quel “vieni e vedi” noi non lo sperimenteremo mai come lo sperimentarono loro, i primi discepoli. E, tuttavia, in quella corrente di entusiasmo che da allora è giunta fino a noi, e che ci ha trasmesso l’evangelo, forse, pur con tutta la diffidenza iniziale, ci è data la possibilità di arrivare a cogliere almeno le tracce di quell’apparire unico nel corso della storia, che ha saputo cambiare, fino a sconvolgerla, la vita di tanti. Quel “vieni e vedi” è il cammino che cerchiamo di ripetere durante gli incontri di comunità e quelli con gli amici della chácara di recupero. Con esiti, che riscontriamo o immaginiamo, alterni. Come se Filippo, una volta o l’altra, si perdesse per strada e preferisse far altro che andare a trovare Natanaele, per parlargli della sua scoperta. O, se fosse Natanaele a fare resistenza, al punto di smorzare ogni entusiasmo nel compagno, e restarsene così a fare ciò che pensa essere meglio. È difficile decifrare in ogni caso, ciò che passa per la testa (e nel cuore) di chi partecipa agli incontri. Per alcuni è più facile mostrare attenzione e grado di coinvolgimento, altri hanno una sorta di pudore a svelarsi, ma a volte si viene poi a sapere di come la Parola abbia lavorato anche in loro, sollevato interrogativi, propiziato magari anche solo lente, e tuttavia profonde, trasformazioni. Quel “vieni e vedi” ci riguarda tutti e non ha mai fine. Sapendo che, come scrive Paolo: “Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto” (1Cor 13, 12).

Il nostro calendario ecumenico ci reca oggi le memorie di Felix Mantz, riformatore e martire nonviolento in Svizzera, di Filippo di Mosca, pastore ortodosso e martire nella Russia zarista, e di Luisito Bianchi, preteoperaio.

Felix Mantz fu uno dei fondatori del movimento anabattista. Nato a Zurigo verso il 1500, fu mandato a Parigi, dove studiò latino, greco e ebraico. Rientrato in patria, il giovane entrò a far parte dei circoli umanistici che gravitavano intorno a Ulrico Zwingli, ma, già nel gennaio 1523, lui con Grebel, Reublin, Brötli e Stumpf, cominciarono a contestare la linea portata avanti dall’ex-parroco della cattedrale di Zurigo, soprattutto per ciò che concerne la superiorità della Sacra Scrittura, da loro propugnata, rispetto all’autorità dello stato, sottolineata invece da Zwingli. In seguito alla polemica sul battesimo dei bambini, che sfociò nella condanna del gruppo, Mantz, sfidando il divieto delle autorità cittadine, ospitò a casa sua, il 21 gennaio 1525, i quindici anabattisti che presero la decisione di procedere al proprio ribattesimo. Per questo motivo, il 30 gennaio, egli fu arrestato assieme a Jörg Blaurock, e tenuto in prigione fino al 7 ottobre. Appena rilasciato, partecipò, il giorno successivo, alla protesta della comunità anabattista di Grüningen, un distretto vicino a Zurigo, sicché, con alcuni altri compagni, fu arrestato e nuovamente incarcerato. Il 5 marzo 1526, dopo quattro mesi di carcere duro, il Consiglio cercò di fiaccare la resistenza dei prigionieri, condannandoli a un regime di pane e acqua, finché non ritrattassero, ma 15 giorni dopo, approfittando di una negligenza nel turno di guardia, il gruppo degli anabattisti riuscì ad evadere. Mantz trascorse allora alcuni mesi vagando per la Svizzera e battezzando nuovi adepti, finché le autorità di Zurigo lo catturarono, il 3 dicembre 1526, assieme a Blaurock in una foresta vicino a Grüningen. Mantz venne condannato a morte per annegamento in accordo con la terribile sentenza del riformatore zurighese: “Qui iterum mergit, mergatur” (Chi s’immerge (= si battezza) nuovamente, sia immerso, cioè affogato!). Il 5 gennaio 1527, Felix Mantz, primo di una lunga e tragica teoria di martiri anabattisti, che conta circa mille nomi, venne prelevato dalla prigione della torre di Wellemberg, a Zurigo, e portato in barca in mezzo al fiume Limmat. Lì fu gettato nelle acque gelate con mani e piedi legati. Aveva 27 anni.

Feodor (o Teodoro, tale il suo nome alla nascita) nacque nel 1510 da Varvara e Stepan Ivanovich Klychev, una famiglia di nobili boiardi. Dopo aver servito per qualche tempo nell’esercito, decise, nel 1537, di lasciare gli agi della vita nobiliare, per farsi monaco nelle lontane isole Solovetsk, dove assunse il nome di Filippo. Dopo essere stato taglialegna e fornaio, emise la sua professione solenne nel 1538 e cominciò a vivere come eremita nelle foreste circostanti, dedicandosi allo studio e alla preghiera. Nel 1547 fu unanimemente scelto come abate. Si diede allora a ristrutturare buona parte dell’antico monastero; sviluppò un nuovo sistema di irrigazione, costruì mulini, laboratori per la lavorazione dei pellami, creò un ospedale e una foresteria per i pellegrini, e infine due grandi cattedrali, rendendo il monastero un centro rinomato di pietà e di studio. Si preoccupò, altresì, di assicurare un adeguato trattamento ai laici che lavoravano nelle proprietà del monastero e garantì il diritto alle rivendicazioni ai contadini della regione, cosa del tutto inaudita nella società aristocratica del tempo. Senza aspettarselo né desiderarlo, fu eletto metropolita di Mosca e primate della Chiesa russa, il 25 luglio 1566. Quando lo Zar Ivan IV (il Terribile), che già considerava le misure adottate da Filippo nei confronti dei contadini un’intromissione indebita nella sua politica interna, prese a massacrare i suoi oppositori e chiunque sospettasse di simpatizzare con loro, Filippo si premurò di esporgli in privato l’orrore e l’errore delle sue azioni. Ma Ivan non ne sembrò punto soddisfatto. Peggio ancora quando Filippo prese posizione pubblicamente. Lo Zar ne pretese la rimozione dalla carica, sotto la ridicola accusa di stregoneria e corruzione. Arrestato e posto in catene, il metropolita fu spostato da una prigione all’altra per mesi, finché il 23 dicembre 1569 (corrispondente al 5 gennaio del nostro calendario), fu strangolato da un agente dello zar.

Luisito Bianchi era nato il 23 maggio 1927 a Vescovato, in provincia di Cremona. Formò il suo carattere e maturò le sue scelte di vita, giovanissimo, a partire dalla lezione della Resistenza al nazifascismo. Fu ordinato prete il 3 giugno 1950, scegliendo, per mantenersi, di lavorare, via via, come insegnante, traduttore, operaio in fabbrica, inserviente in ospedale, e scrivendo libri. Negli ultimi anni era cappellano nel Monastero delle benedettine di Viboldone a San Giuliano Milanese. Della Resistenza ebbe a dire: “Non fu guerra civile, ma resistenza a un potere che conculcava le aspirazioni di un popolo. Io vidi questi uomini partire per difendere dei valori, la loro libertà, disposti a dare il sangue gratuitamente. Davanti agli uomini e a Dio, e soprattutto alla mia coscienza, posso dire che devo a loro, a questi uomini della libertà, se poi sono diventato prete. Avevo davanti a me un’idea: che un mondo nuovo è possibile se nasce dal sacrificio degli uomini, dal loro sangue sparso ‘per dono’, per amore non per odio, sangue che si unisce a quello del Signore. Anche per questo sono diventato sacerdote; e durante la Messa, nella memoria e nella attualizzazione del mistero di Cristo, io ricordo e sento presente anche l’esperienza, il sacrificio di tutti questi uomini che hanno fatto memoria della Parola negli avvenimenti della loro vita. Nella fede che mi parla di morte e resurrezione, il sangue di Cristo si unisce a quello di tutti i martiri e, per la misericordia di Dio, a quello di tutti gli uomini. Ma la testimonianza di quelli che per amore furono ribelli non è la medesima di chi dava loro la caccia o faceva rastrellamenti e stragi. Nella Preghiera del Ribelle, Teresio Olivelli scrive proprio: Se cadremo, fa che il nostro sangue si unisca al Tuo innocente e a quello dei nostri morti a crescere al mondo giustizia e carità”. Malato da tempo, si è spento il 5 gennaio 2012, nell’ospedale di Melegnano.

I testi che la liturgia odierna propone oggi alla nostra attenzione sono tratti da:
1ª Lettera di Giovanni, cap.3, 11-21; Salmo 100; Vangelo di Giovanni, cap.1, 43-51.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

Bene, è tutto per stasera. Noi ci si congeda qui, lasciandovi alla lettura di um brano di Luisito Bianchi, tratto dal suo libro “Come un atomo sulla bilancia” (Sironi Editore). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Amos mi dice un giorno: Ma non ti accorgi quanto è inutile la tua vita? Se non faceva l’operaio, Amos sarebbe stato un formidabile psicologo. Come faceva a leggermi di dentro? L’unica soluzione è che tu t’ammazzi. Lui non aveva letto nessun teorico del suicidio. Eppure andava dritto là dove gli altri arrivavano attraverso teorizzazioni complicate. Ma non preoccuparti, avrai sempre un amico fedele che ti porta, ogni giorno, i fiori. Io non pensavo affatto ad ammazzarmi. Ma credo che il senso della propria inutilità è molto vicino al desiderio della morte. C’è un corale di Bach che mi piace molto. Porta come titolo l’invocazione: Vieni, dolce morte. Desiderare la morte in musica è piuttosto facile, può perfino diventare esaltante. Ci si addormenta in musica e ci si risveglia in musica. Dio deve essere una pagina di Bach senza termine e ogni uomo una nota che vi saltella sopra per l’eternità. Così ogni uomo è utile per tessere quella pagina. Anch’io. Qui sono inutile perché c’è questa chiesa clericale. Là sarò utile perché non ci sarà più la chiesa clericale, non ci saranno più tante candele, ma una sola luce che illumina la citta degli uomini e di Dio. O forse la chiesa clericale è utile per farmi capire che sono un servo inutile. Cristo mi ha comandato di dire: sono un servo inutile; e siccome da solo non ci sarei mai riuscito, m’ha fatto chiesa clericale. Chissà che anche Cristo non abbia voluto morire perché si sentiva inutile con tutta quella gente attorno. Dice: è necessario che me ne vada; è necessario morire. Volevano una chiesa clericale, uno a destra e uno a sinistra a comandare, e il fuoco sulla città che li rifiutava. E lui era stanco, voleva morire, senza musica perché Bach non era ancora nato. Io ho Bach in microsolco, ma la morte in musica è musica e non morte. Così continuo a vivere. Inutile, come questi topi dalle natiche spelacchiate sulle quali non posso mettere nemmeno uno straccetto, altro che gualdrappa d’oro! E loro mi guardano di notte, con i loro occhietti che sembrano d’acqua nera e i baffi sbilanciati, come ci si guarda fra colleghi d’inutilità. (Luisito Bianchi, Come un atomo sulla bilancia. Storia di tre anni di fabbrica).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 05 Gennaio 2017ultima modifica: 2017-01-05T22:10:39+01:00da fraternidade
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