Giorno per giorno – 24 Novembre 2016

Carissimi,
“Gli uomini moriranno per la paura e per l’attesa di ciò che dovrà accadere sulla terra. Le potenze dei cieli infatti saranno sconvolte. Allora vedranno il Figlio dell’uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina” (Lc 21, 26-28). Sono passati duemila anni dalla distruzione di Gerusalemme, e altre guerre, sempre più terribili, e catastrofi naturali, si sono succedute lungo i secoli, e la paura di ciò che di peggio poteva e potrà accadere ha spesso lasciato molti, in ogni generazione, col fiato sospeso o sconvolti o senza più desiderio di vivere. Poi, però, ci si corazza e si va avanti. Alcuni, non si capisce bene se con gioia o con paura, predicono (e sperano, magari, una volta o l’altra, di azzeccarci): Gesù sta tornando!, anche se non sembra che questo significhi molto per la storia del mondo e forse neppure per la loro vita privata. Noi, si è parlato di questo e di altro, nell’incontro che abbiamo avuto alla chácara di recupero. Della paura. Di morire. O del vuoto della vita. Del deserto che abbiamo intorno. Della cattiveria nostra e degli altri. Quando tutto sempra caderci addosso, fino a seppellirci. “Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina”. Se i nostri amici erano lì, oggi pomeriggio (e noi con loro), è perché in una maniera o nell’altra si è ceduto a quell’invito “risollevatevi e alzate il capo”, e creduto a quella promessa “perché la vostra liberazione è vicina”. Dio è da sempre il Dio della liberazione. Ogni altra immagine è un idolo, che vuole renderci schiavi di qualcuno o di qualcosa. Il Figlio dell’uomo. Dio non vuole metterci paura, per questo si è mostrato con il volto di Gesù. E chi può avere paura di Gesù, il crocifisso come e più di molti di noi? Già nel profeta Osea, Dio diceva: non chiamarmi più “baal” (padrone, onnipotente o che altro), chiamami “ishi” il mio uomo. E poi prometteva: “Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nella benevolenza e nell’amore, ti fidanzerò con me nella fedeltà e tu conoscerai il Signore” (Os 2, 18. 21-22). Come dire che prima, nelle altre immagini che avevamo di Dio, non lo conoscevamo ancora. “E amerò Non-amata; e a Non-mio-popolo dirò: Popolo mio, ed egli mi dirà: Mio Dio” (v. 25). Chi ha sperimentato il disprezzo, il disamore, la manipolazione o l’assenza dei sentimenti, riconoscerà Dio nel volto del Figlio dell’uomo che gli si è fatto vicino, e da allora, lo riconoscerà in ogni figlio dell’uomo.

Il calendario ci porta oggi la memoria dei 117 Martiri nel Tonchino, laici, presbiteri e vescovi, uccisi in epoche diverse; e quella di André Bergonier, detto Dedé, prete scaricatore.

Dei 117 martiri del Tonchino, novantasei erano vietnamiti, undici spagnoli e dieci francesi. Settantacinque furono decapitati, ventidue strangolati, sei bruciati vivi, cinque squartati e nove morirono in prigione a causa delle torture. La lista di questi martiri della fede cristiana è aperta da Andrea Dung-Lac, dapprima catechista e più tardi prete. Andrea era nato nel 1795 in una famiglia poverissima, che preferì disfarsene, vendendolo ad un catechista della missione di Vinh-Tri. Lì, il bambino fu battezzato ed educato, diventando in seguito catechista. Proseguiti gli studi teologici, venne ordinato sacerdote il 15 marzo 1823, iniziando così la sua attività di pastore tra la sua gente. Ripetutamente arrestato, durante la persecuzione del re Minh-Manh, venne ogni volta riscattato attraverso collette organizzate dai cristiani locali. Incarcerato definitivamente il 16 novembre 1839, fu avviato alla prigione di Hanoi, dove fu sottoposto a continui interrogatori, con lo scopo di indurlo ad apostatare dalla fede e a calpestare la croce. Essendo rimasto irremovibile, fu condannato alla decapitazione, sentenza eseguita il 21 dicembre 1839. La loro memoria è stata collocata in questo giorno, perché coincide con la data di esecuzione di alcuni di loro.

André Bergonier era nato a Chartres, in Francia, il 19 gennaio 1929. Rimasto orfano di madre a dieci anni, aveva compiuto i suoi studi dai Fratelli delle Scuole Cristiane, prima, e in seguito al liceo della “Prytané de la Flèche”. Nel 1951 era entrato nell’Accademia Militare di Saint-Cyr, ma, ben presto, quella che pensava una scelta definitiva di vita gli si era rivelata inconsistente di fronte a ben altra chiamata, quella di Cristo, nel mondo del lavoro. Nel 1954, decise perciò di lasciare l’Accademia, recandosi a lavorare in un cantiere, a Nanterre. Dal 1955 al 1961 studiò nel seminario della missione di Francia a Pontigny, senza, però, mai distogliere lo sguardo dal mondo degli operai e dei poveri, da cui era sbocciata la sua vocazione sacerdotale. Nel 1961 venne ordinato diacono. Scelse di rinviare l’ordinazione a presbitero, per approfondire il suo inserimento nel mondo del lavoro. D’accordo con il suo vescovo, andò, così, a lavorare come scaricatore al porto di Marsiglia. Divenne prete il 7 settembre 1965. Scrisse allora: “Io mi sento per principio della Chiesa e per principio legato al mondo operaio. Nella mia vita, la chiamata di Dio si è fatta attraverso la Chiesa ed il mondo operaio. È la Chiesa che mi dona il Vangelo, è il mondo non cristiano che lo reclama”. Un gruppo di amici “non credenti” l’avrebbe poi ricordato così: “Dei preti non ci interessa. Noi vogliamo degli uomini di Dio. Dedé era un uomo di Dio, il nostro prete”. Il 24 novembre 1965, alle 11 e 30 del mattino, quando gli scaricatori stavano ultimando il loro turno, scaricando le balle di caffè brasiliano di un cargo all’ancora nel porto, un carico staccatosi dalla gru colpì in pieno André che precipitò per sette metri sul fondo della stiva, morendo sul colpo. Accorse un nord-africano, che riconobbe l’uomo dal corpo senza vita e gridò “è il prete”. André Bergonier era prete da due mesi, scaricatore sconosciuto da quattro anni, per gli amici “Dedè”, uno dei tanti. Poco prima di morire aveva scritto: “Lasciamo sempre più che gli altri entrino nella nostra vita ed entriamo sempre più noi nella vita di Dio. Custodire di lassù tutto il sorriso, la gioia, la speranza. Essere di già donne e uomini della Resurrezione”. E anche: “Io sono sulla banchina del porto perchè Cristo deve essere là”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro dell’Apocalisse, cap.18, 1-2. 21-23; 19, 1-3.9; Salmo 100; Vangelo di Luca, cap.21, 20-28.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

E, per stasera, è tutto. Prendendo spunto dalla memoria di André Bergonier, vi offriamo in lettura un brano del libro di Rafael Silva, J. J. Cebrián Franco, José Ramón Barreiro, dal titolo “Le clergé et le travail manuel” (Desclée et Cie ), che troviamo nel sito di Lotta come Amore e che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Qualunque prete aprendo la Bibbia e leggendone le prime pagine potrebbe convincersi di essere preservato, per la propria vocazione, dal peccato originale non portando su di se i segni della maledizione: “col sudore di tua fronte mangerai il pane”. Naturalmente si è solleciti a portare avanti motivi per giustificare il carattere di “lavoro” all’attività pastorale, specie all’amministrazione dei Sacramenti, che continua ad essere fonte prima di sostentamento per il clero. […] D’altra parte il minimo accenno ad un lavoro, specie se manuale, fatto da preti crea un’atmosfera di diffidenza poiché un tale atteggiamento mantiene un sapore ereticale, di cosa strana e perciò stesso disgustosa. Sembra paradossale che nella Chiesa nascente fosse proprio l’atteggiamento opposto fonte di scandalo. Ma non ci si può meravigliare al vedere allora il lavoro al posto d’onore: non poteva essere ritenuto motivo di degradazione dal momento che Dio aveva scelto un lavoratore manuale come padre di suo figlio e questi aveva lavorato a lungo con le proprie mani. Le tracce di Cristo erano ancora troppo fresche perchè il cristianesimo nascente potesse ricadere negli errori che Lui era venuto a combattere. Gesù non si comportò come un prete ieratico: gettò in faccia ai farisei la loro vanità, disse di essere venuto per servire, lavò i piedi a coloro che dovevano succedergli. Era venuto per portare una liberazione anche cultuale: non vi è più un tempio, una sola casa consacrata a Dio. Dio è adorato in ogni luogo. Dio è presente ovunque ci si riunisca in suo nome. Questo spiega perché i primi ministri della Chiesa siano stati cittadini come gli altri, aventi per sola distinzione sociale quella dovuta al rispetto che ispira ogni persona consacrata a Dio con l’imposizione delle mani, ma senza distinguersi per alcuna concessione di privilegi o esenzione da compiti sociali. […] Se dal punto di vista sociale non esiste, nella Chiesa dei primi secoli, alcuna differenza tra clero e popolo, non poteva esservi per la stessa ragione, alcuna differenza materiale. Il padre di famiglia che, all’inizio, presiedeva gli uffici liturgici e agiva come capo della comunità, viveva del suo lavoro, qualunque fosse. […] Un simile quadro è così diverso da quello attuale da impegnare tutta la forza di revisione della Chiesa per riconoscersi nel suo volto giovanile. E non può non saltare agli occhi come il motivo dominante dell’amore della Chiesa al lavoro non fosse apologetico o di apostolato, e neppure segno di solidarietà con gli uomini, ma unicamente fedeltà a Cristo ed ai valori da Lui particolarmente amati. (Le clergé et le travail manuel).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 24 Novembre 2016ultima modifica: 2016-11-24T22:20:46+01:00da fraternidade
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