Giorno per giorno – 04 Luglio 2014

Carissimi,
“Mentre sedeva a tavola nella casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e se ne stavano a tavola con Gesù e con i suoi discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: Come mai il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?” (Mt 9, 10-11). Com’era diverso dagli altri quel Maestro, che non si faceva scrupoli di chiamare al suo seguito più o meno rinomati peccatori, di entrare nella loro casa o invitarli nella sua, con il loro codazzo di amici, e di sedere a tavola con loro. E questo non era un gesto qualunque di condiscendenza di un uomo dabbene, era un trattato di teologia. Ribaltava molte delle immagini che ci si era fatti di Dio, tirava via le incrostazioni che ne avevano offuscato il volto, con operazioni più o meno interessate. Perché a volte la paura di Dio serve più che un esercito di poliziotti, a mantenere l’ordine. Un certo ordine. A Gesù, invece, un dio che facesse paura non piaceva proprio. Né piaceva, del resto, a suo Padre, che proprio per questo si era deciso di spedirlo sulla terra. Certo, non è da dire che, per questo, a Lui piacessero i peccati di cui i compagni del momento si erano resi responsabili. Ma, vai a sapere (e forse Lui lo sapeva) quanto responsabili e cosa li avesse davvero portati ad agire così. Quanti errori degli altri e quanta ingenuità propria. Del resto, ciò che Lui intravedeva di potenziale di bontà era infinitamente di più. Ed era su questo che si doveva puntare. È questa la beatitudine dei puri di cuore: che vedono Dio anche dove apparentemente non c’è. Questa è la beatitudine che mancava ai farisei, o almeno ad alcuni di essi, che manca nella chiesa e nelle chiese. E che bisogna recuperare alla svelta, perché tutti si sentano bene accolti nella casa di Dio. E, a partire da lì, si possano cominciare a dire: che bella cosa Dio. E appassionandosene, cedano una volta o l’altra alla tentazione di volerlo, piano piano, imitare.

Il nostro calendario ecumenico ci porta oggi la memoria di Andrea di Creta, pastore e innografo; di Jean Cardonnel, disobbediente per amore; e di Swami Vivekánanda, mistico indiano, figura chiave nel rinascimento dell’induismo del secolo XIX e promotore del dialogo tra le religioni.

Andrea era nato a Damasco, da Giorgio e Gregoria, una coppia di semiti cristiani, all’inizio della seconda metà del VII secolo. Quindicenne si recò a Gerusalemme ed entrò nel Monastero del Santo Sepolcro. Teodoro, patriarca di Gerusalemme, lo volle suo collaboratore e lo inviò, nel 680, a Costantinopoli, come suo delegato al VI Concilio ecumenico, convocato sotto il regno dell’imperatore Costantino IV. A Costantinopoli, Andrea fu ordinato diacono della Basilica di Santa Sofia e gli fu affidata la cura di un orfanatrofio e di una casa per anziani. Nell’anno 700 fu eletto vescovo della città di Gortina, nell’isola di Creta. Fu celebre come predicatore e compositore di inni sacri. Ci sono stati tramandati circa cinquanta sermoni e numerosi inni a lui attribuiti. Fu anche pastore pieno di premure per il suo popolo, nei tempi calamitosi dell’espansione musulmana. Tra gli inni da lui composti, il più noto è il Grande Canone, che viene cantato durante la quaresima nelle chiese ortodosse. Andrea morì nell’anno 740, a Mitilene, nell’isola di Lesbo.

Jean Cardonnel, era nato nel 1921 a Figeac (Francia). Entrato nell’Ordine dei Predicatori, nel 1940, fu ordinato prete nel 1947. Tre anni dopo fu fatto priore del convento di Marsiglia. Il caso dei coniugi Rosenberg, scoppiato proprio in quegli anni, lo portò a protestare con fermezza contro la pena di morte. Nello stesso tempo espresse il suo appoggio all’esperienza dei preti operai, avviata negli anni del dopoguerra. Quando, nel 1954, il Maestro Generale dell’ordine venne in Francia per condannarla, Cardonnel, per protesta, si dimise dall’incarico, continuando nel suo ministero come semplice frate. Nel 1958, sempre a Montpellier, denunciò il sistematico ricorso alla tortura in Algeria e si pronunciò per un’Algeria libera e indipendente. Il che gli causò l’allontamento dalla città. Inviato in Brasile per insegnare teologia a Rio de Janeiro, prese presto coscienza dei problemi del Terzo Mondo: povertà diffusa, operai senza salario, contadini senza terra, meninos de rua. Fece in tempo ad apprendere il portoghese, prima che i superiori e l’episcopato chiedessero il suo allontamaneto dal Paese. Nel 1968, con l’appoggio della rivista Témoignage Chrétien predicò la Quaresima alla Mutualité sul tema “Vangelo e rivoluzione”. Scoppiò così il “caso Cardonnel”. Il giornale Le Monde titolò: “Un prete rosso”. I superiori gli proibirono allora di parlare fuori di ambienti strettamente ecclesiastici e di scrivere su riviste che non fossero di conio teologico e scritturistico, senza aver ottenuto di volta in volta l’autorizzazione dell’Ordinario locale. Ma lui non ci sentì troppo. Continuò a scrivere, parlare, digiunare, manifestare, marcare presenza in tutti i punti caldi del pianeta. Nel 2002, di ritorno da un viaggio a La Réunion, più che ottantenne, trovò che il priore del convento di Montpellier gli aveva sgomberato la cameretta. Pensò non fosse giusto e denunciò il superiore per violazione di domicilio. Vinse la causa. Fu la prima volta che un tribunale francesce riconobbe che la cella di un frate è un domicilio privato. Jean Cardonnel morì il 4 luglio 2009. Lasciò scritto: “Il vero Dio lo si riconosce dal suono della sua Parola, la Parola fatta carne, nel soffio dello Spirito vivente, che dice a ciascuno di noi, a ciascuno nella nostra singolarità infinita: Anche se una madre dimenticasse il suo bambino, io non ti dimenticherò mai! Tu mi sei unico al mondo, in un mondo in cui bisogna urgentemente che ci siano solo degli unici al mondo”.

Narendranath Dutta (tale il suo nome di famiglia) era nato il 12 gennaio 1863, figlio di Bhuvanesvari Devi, una donna di grande pietà e cultura, e di un noto avvocato di Calcutta, Bisvanàth. Giovane brillante dall’intelligenza aperta e razionale, dai molteplici interessi e da un profondo senso della solidarietà umana, studiò filosofia e scienza occidentale a Calcutta. Lì incontrò colui che avrebbe fornito le risposte ai molti interrogativi del suo spirito: Sri Ramakrishna, di cui divenne discepolo. Alla morte di questi, nel 1886, Narendranath assunse il nome di Vivekánanda, che significa Beatitudine della conoscenza discernente. Obbedendo al compito, affidatogli dal suo maestro, di diffondere la conoscenza spirituale e di alleviare la miseria e le sofferenze degli umili e dei poveri, Vivekánanda cominciò a viaggiare in lungo e in largo per l’ India, denunciando l’abbandono e la miseria in cui era costretta la maggioranza della popolazione, lo statuto d’inferiorità della donna, e il vigente, disumano, sistema delle caste. Sollecitò misure concrete e immediate per fronteggiare nella misura del possibile queste sfide e fece di tutto per sensibilizzare e coscientizzare i ceti intellettuali sulla necessità di favorire il graduale passaggio del potere ai sudra, la casta più bassa e tuttavia maggioritaria dell’India. Nel 1893 Vivekánanda fu richiesto insistentemente di recarsi a rappresentare l’Induismo al Parlamento Mondiale delle Religioni, a Chicago. Dopo aver manifestato qualche resistenza, accettò. Il suo intervento colpì tutti per la sua forte spiritualità. La stampa internazionale gli tributò notevoli riconoscimenti, facendone conoscere la figura e il pensiero negli Stati Uniti e in Inghilterra. E anche in patria conobbe una grande popolarità. Soleva dire che “la fabbrica, lo studio, la fattoria, i campi, sono tutti luoghi ugualmente idonei all’incontro di Dio con l’essere umano, quanto la cella di un monaco e l’altare di un tempio” e aggiungeva che per lui “adorare Dio significa servire l’essere umano”. Disse anche: “Se proprio volete farvi un’idea del carattere di un uomo, non considerate le sue opere grandi. Il primo sciocco che passa può, in un istante della sua vita, comportarsi da eroe. Guardate piuttosto come un uomo compie le azioni più comuni: esse vi riveleranno il vero carattere di un grande uomo”. Morì il 4 luglio del 1902, a soli 39 anni di età.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Amos, cap.8, 4-6.9-12; Salmo 119; Vangelo di Matteo, cap.9, 9-13.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica, che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.
È tutto, per stasera. Noi ci congediamo qui, offrendovi in lettura il brano di una conferenza pubblica, tenuta da Jean Cardonnel il 3 aprile 1968, con il titolo: “La revolution jusqu’a l’universelle resurrection” (con una piccola aggiunta del 2006). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIRONO
Ho creduto a lungo che il nostro ostacolo principale fosse la pigrizia. No, è la paura, la paura madre-figlia della pigrizia, della comodità dell’inerzia, dell’immobilismo di base. Ma perché allora abbiamo paura di questo cambiamento, quando la Fede, l’adesione della Fede-fiducia a Gesù Cristo è proprio un invito a quel cambiamento ritenuto eccessivo dai clan della moderazione e dai chierici della ragionevolezza? Ivan Illich ha potuto definire la liturgia e, nel cuore di essa, i primi passi di una fraternità cordiale intrecciata nel Corpo e nel Sangue, quali segni efficaci e sensibili della parola data a tutti, come la celebrazione entusiasta del cambiamento. È qui, dalla celebrazione del cambiamento della Pasqua, rappresentato dal dono totale del Verbo incarnato Gesù, che riecheggia la questione delle questioni: perché teniamo tanto al mantenimento, alla conservazione dell’antico ordine, del vecchio? Questo è l’opposto, il contrario della fede in Gesù Cristo. Un cristiano conservatore è un mostro, e un mostro ordinario, banale, una caricatura, una bestemmia montata su due zampe. In realtà, senza la minima contestazione dello stampo ereditario cristiano in cui siamo stati plamati, nonostante alcune differenze superficiali, siamo e restiamo tutti gli stessi: noi vogliamo sì – ma è una velleità, un pio desiderio, un voto pietoso – nascere a vita nuova, ma senza fare le spese della morte alla vecchia vita, al vecchio uomo, alla vecchia donna, al vecchio essere umano, alla vita che finge di essere vita, mentre è soltanto la vita mortale… di noia mortale. Non posso resistere al piacere di aggiungere qui la parola che ignoravo nel marzo e nel maggio 68. È di Martin Lutero: “Certo, l’uomo vecchio è annegato nelle acque del battesimo, ma continua a nuotare assai bene, il tipo!”. Proclamerò allora una verità elementare, di una semplicità assoluta: per nascere alla vita nuova, rinnovata, è indispensabile morire alla vita vecchia, alla vita senile, alla vita già morta. […] Peso bene i termini, tutte le mie parole, perché credo nel Verbo, aderisco alla Parola incarnata: la condizione di una rivoluzione non limitata nel tempo, che non perda il suo respiro, il suo slancio, che sia permanente, totalizzante, oggi direi piuttosto radicalizzante, che va cioè fino alla radice, è la fede, non la fede religiosa, deistica in un essere supremo, un potentato, ma la fede nella trasformazione dell’uomo, della donna, di ogni essere umano nella sua globalità, nella radicalità di sé stesso, vale a dire, la sua manifestazione, la sua rivelazione nel suo principio di umanità, la sua realizzazione fraterna, Gesù Cristo, il Verbo fatto carne. (Jean Cardonnel, La revolution jusqu’a l’universelle resurrection).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 04 Luglio 2014ultima modifica: 2014-07-04T22:05:37+02:00da fraternidade
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