Giorno per giorno – 12 Giugno 2014

Carissimi,
“Avete inteso che fu detto agli antichi: Non ucciderai; chi avrà ucciso dovrà essere sottoposto al giudizio. Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello dovrà essere sottoposto al giudizio. Chi poi dice al fratello: Stupido, dovrà essere sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: Pazzo, sarà destinato al fuoco della Geènna” (Mt 5, 21-22). In apertura di discorso, Gesù aveva specificato di non essere venuto ad abolire la legge, ma a darle compimento. Rivelandocene così il suo senso più vero. A noi, a dire la verità, sarebbe anche bastato limitarci all’antica proibizione del “non uccidere”, che dovrebbe garantirci una vita, nei limiti del possibile, sufficientemente tranquilla, in un’epoca come la nostra in cui la violenza va per la maggiore. Ma questo non basta a Gesù, che vuole andare alla radice di ciò che porta ad uccidere, e alle molteplici forme dell’uccidere: l’odio, l’invidia, la gelosia, per esempio, e le loro armi: l’insulto, le manifestazioni di disprezzo, il razzismo, la calunna, ma anche, sovente, l’indifferenza, il silenzio rancoroso, e la chiusura egoistica nel proprio particolare, che sono anch’esse forme di insulto e del disprezzo per l’altro. Tutto questo noi lo sperimentiamo ogni giorno, persino dentro casa, oltre che fuori. Ebbene Gesù ci rende avvertiti: non entreremo nel regno dei cieli (cf v. 20). Che non è il paradiso, ma le relazioni nuove che egli è venuto a inaugurare. Di, più: faremo della vita nostra e altrui un inferno. Come difatti si vede così spesso in giro. Anche negli ambienti più impensati.

Il nostro calendario ecumenico porta oggi le memorie di Medgar Wiley Evers, martire della lotta nonviolenta degli afroamericani, e di Enmegahbowh, primo prete e missionario indiano d’America.

Medgar Wiley Evers era nato il 2 luglio 1925, a Decatur, nel Mississippi, figlio di James and Jessie. Aveva frequentato scuola fino a quando, diciottenne, era stato chiamato sotto le armi e spedito in guerra. Al ritorno dal fronte, si era iscritto alla Facoltà di economia e commercio dell’Università statale di Alcorn e, lì, oltre a studiare, come ogni bravo ragazzo, cantava nel coro, giocava a calcio, gareggiava in atletica leggera, redigeva il giornaletto dell’Università. Dopo la laurea, sposò Myrlie Beasley e insieme furono ad abitare a Mound Bayou, dove cominciò la sua lotta per i Dirittti Civili, organizzando il boicottaggio dei distributori di benzia che non permettevano l’uso delle toilette ai neri e creando sezioni locali del NAACP (Associazione nazionale per il progresso della popolazione di colore). Per mantenere la famiglia, lavorò qualche anno come agente assicurativo, fino al 1954, quando la Corte suprema dichiarò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole. Chiese allora l’ammissione alla Facoltà di Legge del Mississippi, ma gli fu negata. Questo però richiamò su di lui l’interesse della direzione nazionale del NAACP, che gli propose una collaborazione a tempo pieno. Trasferitosi con la moglie a Jackson, cominciò a investigare gli episodi di violenza contro i neri e si impegnò per fare ammettere all’università James Meredith, che sarebbe diventato di lì a poco il primo afroamericano a varcare i cancelli di un’università del Mississippi. Tutto bene, ma crebbe l’odio nei confronti di Evers. Il quale, la notte del 12 giugno 1963, rientrando a casa, fu ucciso da un proiettile assassino. Il killer, un sostenitore della supremazia dei bianchi, tale Byron De La Beckwith, processato due volte negli anni sessanta, riuscì in entrambi i casi a farla franca. Solo nel 1994, sottoposto nuovamente a processo, sarebbe stato riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo. Medgar Evers, lui, aveva scritto, qualche anno prima di essere ucciso: “Può sembrare strano, ma io amo il Sud. Io non potrei scegliere di vivere altrove. Qui c’è terra, dove un uomo può allevare il suo bestiame, ed io comincerò a farlo un giorno o l’altro. Ci sono laghi dove puoi lanciare l’amo e pescare la tua trota. Qui c’è spazio dove i miei bambini possono giocare e crescere e diventare buoni cittadini. Sempre che l’uomo bianco glielo consenta”.

Enmegahbowh fu il primo nativo americano ad essere ordinato prete nella Chiesa Episcopale degli Stati Uniti. Era nato nel 1807 da una famiglia dell’etnia Odawa (o Ottawa, da cui traggono il nome alcune città degli Usa e la capitale del Canada), stanziata nelle regioni dell’Ontario, Oklahoma e Michigan. Il suo nome significa “Colui che prega [per il suo popolo] stando in piedi”. Sposato a una donna degli indiani Ojibwa, entrò a far parte di questa tribù. Fu nel 1851, quando era già più che quarantenne, che Enmegahbowh passò dal Midewiwin, la religione sciamanica dei suoi antenati, al cristianesimo, facendosi battezzare da James Lloyd Breck, un missionario venerato come santo dalla Chiesa episcopale. Divenuto diacono, fu mandato, nel 1858, a Crow Wing, nel Minnesota, per aiutare nella fondazione di una nuova missione, di cui assunse la responsabilità, nel 1861. Fu ordinato prete nel 1867. In anni assai difficili, segnati dalle continue prepotenze dei bianchi, e dal comprensibile desiderio di vendetta degli indiani, Enmegahbowh fece di tutto per tutelare i diritti della sua gente e salvaguardare la pace, affrontando ogni rischio e pericolo pur di affermare il messaggio di vita di Gesù. Morì nella riserva indiana della Terra Bianca, nel nord Minnesota, il 12 giugno 1902, all’età di 95 anni. Il calendario episcopale dei santi ne fa memoria in questo giorno.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1° Libro dei Re, cap.18, 41-46; Salmo 64; Vangelo di Matteo, cap.5, 20-26.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

Bene, è cominciata oggi la festa dei campionati. Che non è quella che si celebra negli stadi, dove si raduna solo un’infima minoranza della popolazione, economicamente privilegiata, che può permettersi il lusso di comprare un biglietto, il cui costo, almeno per la partita iniziale, gli organizzatori hanno voluto superiore al valore di un salario minimo di qui. Ma è la festa che si celebra nelle case e nei luoghi di ritrovo, di cui sono un segnale le strade deserte, le grida di esultanza o di disappunto che giungono dal chiuso, il crepitio di mortaretti che accompagna ogni gol segnato. Ed è una festa per puro amore del gioco e dello spettacolo. Che non ha nulla di alienante, perché tutti sanno che non è il gioco che risolve i problemi. Ma sanno anche che esso allieta la vita. Una festa che i fischi e le volgarità indirizzate alla Presidente della Repubblica, durante la partita inaugurale, nello stadio Itaquerão di São Paulo, da una minoranza chiassosa, astiosa e cafona, come sa esserlo certa borghesia bianca di qui, non riusciranno a rovinare. In attesa di festeggiare anche di più per ciò su cui qui si scommette da tempo: la conquista della “Hexa Copa”. E voi non ce ne vorrete a male.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, con un brano di Martin Luther King, tratto da “Il sogno della non violenza” (Feltrinelli). In omaggio alla nostra memoria di oggi. Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Quando gli uomini malvagi congiurano, gli uomini buoni devono pianificare. Quando gli uomini malvagi bruciano e bombardano, gli uomini buoni devono costruire e tenere assieme. Quando gli uomini malvagi usano ignobili parole d’odio, gli uomini buoni devono pronunciarsi in modo esplicito per la gloria dell’amore. Quando gli uomini malvagi cercano di perpetuare l’ingiusto status quo, gli uomini buoni devono cercare di realizzare un vero ordine di giustizia. (Martin Luther King, Jr., Il sogno della non violenza).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Giugno 2014ultima modifica: 2014-06-12T22:37:43+02:00da fraternidade
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