Giorno per giorno – 09 Luglio 2016

Carissimi,
“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; abbiate paura piuttosto di colui che ha il potere di far perire nella Geènna e l’anima e il corpo. Due passeri non si vendono forse per un soldo? Eppure nemmeno uno di essi cadrà a terra senza [che lo sappia] il Padre vostro. Perfino i capelli del vostro capo sono tutti contati. Non abbiate dunque paura: voi valete più di molti passeri!” (Mt 10, 28-31). Già, non abbiate paura. Ripetuto, oggi, dopo tutti questi morti, vittime delle ideologie dell’odio, dell’intolleranza, della violenza, della vendetta, che sono appunto ciò che ha il potere di far perire nel fuoco dell’insensatezza la nostra vita tutta intera. Chi è morto già e davvero non è il giovane nigeriano Emmanuel, fuggito dalla furia omicida di Boko Haram, sopravvissuto alla traversata del deserto e del mare, né gli altri neri uccisi ogni giorno a scadenza cronometrica dal razzismo del vostro, del nostro e di ogni altro Paese, o le vittime senza numero della famelica industria della guerra, o della forsennata corsa all’accumulazione di ricchezza del Sistema e dei suoi accoliti o dei suoi emulatori in piccolo. Quelli muoiono solo nel corpo. Chi li uccide è invece già morto nel corpo e nell’anima, anche se non lo sa. Sono cadaveri ambulanti, loro e i loro pubblicitari, i loro commessi viaggiatori, i loro partiti, i loro gazzettieri, così come gli stolti ripetitori da bar di slogan e di luoghi comuni. Ed anche chi li ascolta e tace. Gesù dice: non abbiate paura, continuate a lottare, Dio è con voi. Con tutti i dannati della terra. Irrevocabilmente.

Oggi ricordiamo Angelus Silesius, mistico tedesco del XVII secolo; Augustus Tolton, primo prete afroamericano negli Usa, e Bruno Borghi, primo preteoperaio in Italia; André Chouraqui, uomo dei tre mondi.

Johannes Scheffler nacque a Cracovia nel dicembre del 1624, figlio di Stenzel e di Maria Magdalena Henneman, entrambi luterani. Nel 1637 rimase orfano di padre e due anni più tardi gli morì la madre. Compiuti gli studi ginnasiali a Breslavia, nel 1643 si trasferì a Strasburgo e poi a Padova, per studiarvi diritto e medicina. È in questo periodo che prese a leggere autori mistici come Taulero e Meister Eckhart, che ne influenzarono la spiritualità. Nel 1649 ottenne l’incarico di medico di corte del duca Sylvius Nimrod von Württemberg in una cittadina nei pressi di Breslavia. Ma vi rimase solo tre anni a causa di un conflitto con il cappellano luterano di corte. Il 12 giugno 1653, Johannes aderì alla fede cattolica e assunse il nome di Angelus Silesius. Poco dopo fu nominato medico di corte dell’imperatore Ferdinando III e nel 1657 pubblicò gli scritti che aveva composto nel frattempo. Al fine di spogliarsi progressivamente dei propri beni, costituì fondazioni in favore di monasteri e di poveri. In quello stesso anno, venne ordinato sacerdote. Nel 1671 ottenne ospitalità in un monastero cistercense, dove trovò modo di sottrarsi agli attacchi che, dai tempi della sua conversione, gli venivano dagli ex-correligionari. Visse gli ultimi anni in assoluta povertà, dedito alla preghiera e alla contemplazione, morendo il 9 luglio 1677.

Augustus Tolton nacque, secondo di quattro figli, nella famiglia di una coppia di schiavi cattolici, Peter Paul e Martha Jane Tolton, a Ralls County, nel Missouri, il 1° Aprile 1854. Allo scoppio della Guerra Civile, nel 1861, il padre fuggì dalla proprietà e si arruolò nell’esercito dell’Unione al fine di lottare per la libertà della sua famiglia e per la fine dello schiavismo. Fu uno dei 180 mila negri che morirono durante la guerra. Martha Tolton a sua volta fuggì con i figli verso la libertà, attraversando il fiume Mississippi e stabilendosi a Quincy, nell’Illinois. Crescendo, il giovane Augustus manifestò il desiderio di essere prete, ma non si trovava un seminario disposto ad accoglierlo. Senza disanimare, egli studiò dapprima col suo parroco, poi, nel 1878, fu ammesso nella scuola gestita dai francescani a Quincy, dove rimase due anni, finché ottenne di potersi recare a Roma nel Collegio Urbano, il seminario della Congregazione di Propaganda Fide. Ordinato prete nel 1886, divenne il primo prete afroamericano negli Stati Uniti. Tornato nella sua diocesi, gli fu affidata una parrocchia di negri, ma il suo carattere, la sua preoccupazione per le reali necessità della sua gente, e le sue predicazioni lo resero presto popolare anche tra molti bianchi di origine tedesca e irlandese, che presero a frequentare la sua chiesa. Suscitando, neanche a dirlo, il risentimento e la gelosia degli altri parroci della zona. I quali nel giro di poco tempo riuscirono ad ottenere il trasferimento del “prete negro” a Chicago, dove divenne il primo pastore negro della città, profondendosi senza risparmio per la causa della sua gente e per la causa del Regno di Dio. Troppo, forse, per durare a lungo. Morì d’infarto, la notte del 9 luglio 1897, tornando da un ritiro. Aveva quarantatre anni.

Di Bruno Borghi abbiamo a disposizione solo pochi elementi biografici. Ne ricaviamo alcuni da un ricordo a lui dedicato a suo tempo da Adista. Cristiano e prete scomodo, fece parte, con La Pira, Balducci, Turoldo, Facibeni, Vannucci, Milani e altri, di una generazione che seppe animare e provocare salutarmente il panorama ecclesiale e politico italiano, a partire dagli anni cinquanta. Nato nel 1922, entrò nel seminario di Firenze dove fu compagno di studi di don Lorenzo Milani, con cui instaurò una duratura amicizia. Nel 1950, scelse di lavorare in fabbrica, desiderando “immedesimarsi totalmente nella condizione della classe operaia, in cui vedeva la presenza di valori e istanze capaci di rivitalizzare una realtà sociale ed ecclesiale in cui cominciavano, dalla base, a nascere i primi fermenti del rinnovamento”. Nell’ottobre 1964 fu autore, insieme a don Milani, di una “Lettera ai sacerdoti della diocesi fiorentina”, in cui denunciava l’autoritarismo del vescovo Ermenegildo Florit. Nel 1965, sempre con don Milani, intraprese una battaglia in difesa dell’obiezione di coscienza al servizio militare, allora fuori legge. Nel 1968, scese in campo per esprimere la sua solidarietà concreta a don Enzo Mazzi, che l’arcivescovo aveva allontanato dalla comunità dell’Isolotto. In seguito Borghi abbandonò il sacerdozio. Conobbe e sposò Agnese, da cui ebbe un figlio, Giovanni. Negli anni successivi, non venne mai meno il suo impegno nella società civile, a difesa dei settori più emarginati. Si impegnò tra l’altro come volontario, a fianco dei carcerati, nel carcere fiorentino di Sollicciano. È morto il 9 luglio 2006, nella sua abitazione di Torri (Firenze).

Nathan André Chouraqui era nato l’11 agosto 1917 (per il calendario ebraico il 23 del mese di Av dell’anno 5677), a Ain-Témouchent in Algeria, nono dei dieci figli di Isaac Chouraqui e Meléha Meyer, entrambi ebrei sefarditi. Colpito da poliomelite a sette anni, dopo gli studi nel Liceo francese di Orano, si trasferìi a Parigi per studiarvi Diritto. Nel 1938 conobbe Colette Boyer, una musicista ammalata di tubercolosi, che sposò nel 1940 ad Ain-Témouchent nel villaggio natale, con una cerimonia ebraica, cui seguì, poco dopo, la conversione di lei all’ebraismo. Durante la seconda guerra mondiale, Chouraqui fu attivo nella Resistenza francese. Poi lavorò per qualche tempo come magistrato in Algeria. Nel 1948, Colette scelse, con il consenso ma anche con il comprensibile strazio del marito, di far ritorno alla Chiesa, restando tuttavia fedele al Credo di Israele. Entrò tra le Piccole sorelle di Gesù, dove sarebbe vissuta fino al 18 ottobre 1981, quando spirò tra le braccia di lui, accorso al suo capezzale per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Intanto, nel 1951, Chouraqui aveva scelto di emigrare in Eretz Israel, stabilendosi a Gerusalemme, dove nel 1958, sposò Annette Lévy, che gli darà cinque figli. Da allora, dedicò tutta la sua vita a cercare le vie di un dialogo fruttuoso tra ebrei, cristiani e musulmani, i tre mondi in cui affondavano le radici della sua biografia. Traduttore e commentatore in francese della Bibbia ebraica, del Nuovo Testamento e del Corano, sapeva scorgere in essi la trama nascosta di un unico disegno divino che mira alla nascita di un uomo nuovo, libero dai condizionamenti e dalle schiavitu di sempre. Fu promotore di associazioni per il dialogo interreligioso e ambasciatore instancabile di un pensiero di pace nel mondo. Nel 1999 fu insignito del Premio Internazionale per il Dialogo fra gli Universi Culturali. André Chouraqui è morto a Gerusalemme il 9 luglio 2007.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Isaia, cap.6, 1-8; Salmo 93; Vangelo di Matteo, cap.10, 24-33.

La preghiera del sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

Accogliendo l’invito che ci viene da amiche di costì, facciamo nostra la proposta patrocinata dal Patriarcato latino di Gerusalemme, di una settimana di digiuno e di preghiera, dal 10 al 17 luglio. per la pace in Medio Oriente, dove convivono musulmani, ebrei e cristiani, le tre grando famiglie religiose che riconoscono Abramo come padre comune nella fede. Ciascuno troverà le forme più adatte, ma tutti si impegnano a intensificare il digiuno da ogni sentimento e parola di orgoglio, esclusione, intolleranza, odio e vendetta; e a pregare con sentimenti e parole di accoglienza, accettazione, dialogo, solidarietà e perdono.

Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura la pagina con cui André Chouraqui chiude il suo libro “Forte come la morte è l’amore. Una autobiografia” (San Paolo). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
La definizione più perfetta dell’amore che io conosca è quella che dava nell’XI secolo Bahya Ibn Paqûda, il mio rabbi. Diceva che l’amore è “uno slancio dell’essere che nella sua essenza si stacca verso Jhwh Elohim per unirsi alla sua altissima luce”. Questa definizione comporta quattro termini che descrivono l’amore nei suoi stati più universali e più vari. L’amore è uno slancio. Senza slancio che mi porti verso l’amato, non c’è l’amore o non c’è più. È un non amore, è morto. È così per le coppie che non sanno più cosa dirsi, stanche dei loro faccia a faccia sterili; è così per i religiosi e le religiose che non sanno più chi e che cosa contemplare; è così per gli uomini e le donne spenti che non sanno più vedere l’amore sempre presente, sempre vivente vicino ad ogni uomo che non lo rifiuta. Lo slancio porta l’Amante verso l’Amato e l’Amato verso l’Amante, qualunque siano il loro nome e la loro realtà: lo slancio è lo stesso, che si tratti del mistico nella sua solitudine, della coppia nella sua intimità, dell’albero verso il suo fiore, del fiore per il suo frutto. Lo slancio manifesta l’essenza della vita d’amore: distrutto lo slancio, morta la vita. Ma lo slancio non può realizzarsi se non è accompagnato dal distacco. Ogni slancio è infranto dai miei attaccamenti, dai miei legami. Se la nave è trattenuta dagli ormeggi come potrà guadagnare l’alto mare? Gli amori sono uccisi per mancanza di distacco. E il distacco non è mai acquisito. Deve essere riconquistato costantemente. Mi stacco da mille legami per accorgermi che altre catene mi impediscono ancora di rispondere all’amore. Il distacco esige una spoliazione di tutto ciò che ricopre la mia nudità e mi impedisce di rispondere allo slancio dell’amore. Senza distacco, l’Amante non può rispondere all’Amato, l’albero al suo frutto, il sole alla terra che illumina e riscalda. Distaccato, lo slancio, invece di essere infranto, si esalta di portarmi verso Colui, verso Colei che amo. Lo slancio dell’Amato risponde a quello dell’Amata o meglio lo sollecita, lo spera, l’attende, lo prepara, lo nutre. Guardate l’universo e guardate voi, non è tutto pronto per la festa dell’amore? Questo è slancio, distacco, unione e luce, ci dice Bahya, il cui sguardo comprende la totalità del reale. La definizione di Bahya, che comprende l’universalità del reale, è vera qualunque sia l’Amato, chiunque sia l’Amante. Nella vita d’amore, la coppia è una sola cosa, senza nome, senza sesso, senza alto e senza basso, senza destra e senza sinistra, senza maschio e senza femmina, una sola come la vita è una sola nella sua causa creatrice. Bahya però ci dice chi ama: Jhwh Elohim. Lui, non un altro. Niente è più importante che conoscere quello che si ama, di sapere il suo nome. Lo sapete tutti: il nome di Colui che amiamo abita il nostro cuore, occupa la nostra memoria , è sempre sulle nostre labbra, nella nostra bocca. Io sono in Lui come Lui è in me. Uno dei nomi mistici di Jhwh Elohim, pr i cabbalisti, è Ani-Va-Hu (Io e Lui). (André Chouraqui, Forte come la morte è l’amore. Una autobiografia).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Luglio 2016ultima modifica: 2016-07-09T22:27:40+02:00da fraternidade
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