Giorno per giorno – 13 Novembre 2014

Carissimi,
“I farisei domandarono a Gesù: Quando verrà il regno di Dio? Egli rispose loro: Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: Eccolo qui, oppure: Eccolo là. Perché, ecco, il regno di Dio è in mezzo a voi!” (Lc 17, 20-21). La preoccupazione dei religiosi, se sono in buona fede, è quasi sempre: quando è che Dio vince? Quando, cioè, finiremo di soffrire e di veder soffrire, di disperarci o anche solo preoccuparci per ciò che ci manca, di essere odiati, invidiati, derisi e di finire per rispondere allo stesso modo, e così via? Gesù risponde che questo, la vittoria di Dio, avviene per piccoli segni: non c’è, nella storia, un suo insediamento ufficiale al governo. Meno che meno nei governi di chi riduce Dio a una bandiera. Non avviene neanche con il migliore dei regimi, che conosceranno sempre limiti, errori, ritardi, e accontentando alcuni, scontenteranno altri, nel conflitto permanente tra gli opposti egoismi. C’è, però, la possibilità concreta, affidata a noi, di testimoniare che Dio, il suo significato, si è insediato stabilmente (o, almeno, quasi) nella nostra vita e governa le nostre azioni. E il salmo responsoriale di oggi ci offriva una buona traccia sul come sapere se e quando è davvero così: “Il Signore rende giustizia agli oppressi, dà il pane agli affamati. Il Signore libera i prigionieri. Il Signore ridona la vista ai ciechi, il Signore rialza chi è caduto, il Signore ama i giusti, il Signore protegge gli stranieri. Egli sostiene l’orfano e la vedova, ma sconvolge le vie dei malvagi” (Sal 146, 7-9). Se questo succede, allora “il Signore regna” (v.10), conclude il salmo. Certo, tutto questo sembra essere il frutto più di un’azione di governo, che di un singolo individuo. Eppure no, ci riguarda tutti: giudica le nostre azioni, i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre scelte di ogni momento. Verrà il giorno in cui si arriverà là, forse, tutti insieme. Nel frattempo “è necessario che il Figlio dell’uomo soffra molto e venga rifiutato da questa generazione” (Lc 17, 25). Da ogni generazione. È il mistero del Crocifisso sempre presente nei crocifissi della storia. Che la logica interna del sistema mondo, cioè il suo peccato, sembra esigere come inevitabile sacrificio per la sua affermazione. Noi, da che parte stiamo?

Oggi è memoria del card. Joseph Luis Bernardin, testimone di pace e riconciliazione, e di Carl Lampert, presbitero e martire sotto il nazismo.

Joseph Bernardin era nato il 2 aprile 1928 a Columbia, nella Carolina del Sud, da una famiglia di immigrati italiani. Ordinato prete nel 1952, all’età di trentotto anni, venne consacrato vescovo e inviato come ausiliare alla diocesi di Atlanta, in Georgia. Arcivescovo di Cincinnati, nell’Ohio, nel 1972, nella sua prima omelia di Natale espresse una dura presa di posizione sulla guerra nel Vietnam. Fu presidente della Conferenza episcopale Usa nel triennio 1974-1977, in un periodo di relazioni tese e difficili tra l’istituzione ecclesiastica e la comunità dei fedeli, caratterizzandosi sempre per un atteggiamento di ascolto e di dialogo, profondamente radicato nella preghiera. Chiamato nel 1982 a succedere al chiacchierato card. Cody, come arcivescovo di Chicago, per la sua indiscussa integrità morale e l’eccezionale prestigio, assunse come priorità del suo magistero la proposta di una “coerente etica della vita”: guerra, fame, diritti umani, aborto, eutanasia e pena di morte furono temi che egli seppe portare coraggiosamente nel pubblico dibattito, affrontandoli sempre alla luce del Vangelo, pur rispettoso della rigorosa separazione che negli Usa esiste tra la sfera politica e quella religiosa. Risale al novembre del 1993 l’evento “spaventoso e devastante” che cambiò la vita di Bernardin: l’accusa, poi ritirata, rivoltagli da un ex-seminarista ammalato di Aids, di aver abusato di lui, quando era arcivescovo di Cincinnati. L’accusatore dichiarò di aver realmente subito un abuso da parte di un professore del seminario, ma di essere stato istigato da un altro prete a coinvolgere nel caso anche il cardinale. Risollevatosi da questa terribile esperienza, il Cardinale riprese con impegno e rinnovato entusiasmo il suo ministero, fino a che, nel giugno 1995, gli fu riscontrato un tumore maligno al pancreas e l’anno successivo una metastasi diffusa. In un’affollatissima conferenza stampa il 30 agosto 1996 il cardinale diede personalmente l’annuncio, commentando: “Possiamo vedere la morte come un nemico o come un amico. Come persona di fede vedo la morte come un amico, come passaggio dalla vita terrena alla vita eterna”. Il vescovo Bernardin si spense all’una e trenta della notte tra il 13 e il 14 novembre 1996.

Carl Lampert era nato a Göfis, nel Vorarlberg (Austria), il 9 gennaio 1894. Dopo gli studi nel seminario di Bressanone, fu ordinato prete, nel 1918. Per dodici anni svolse il suo ministero pastorale a Dornbirn. Fu poi inviato a studiare diritto canonico a Roma e fece ritorno in patria nel 1935. Nel 1939, un anno dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, Lampert assunse l’incarico di provicario del vescovo di Innsbruck. Dopo lo scoppio della guerra, il presule cominciò a denunciare pubblicamente la politica del regime nazista, comprese le sue ingerenze nelle attività religiose della chiesa e l’arresto e l’avvio ai campi di concentramento di personalità ecclesiastiche. Per questo motivo Lampert fu ripetutamente arrestato e, successivamente, internato nei lager di Dachau e Sachsenhausen, dove gli fu cucito sull’uniforme il contrassegno dei prigionieri politici. Dopo la sua liberazione, nel 1941, la Gestapo inviò Lampert in soggiorno obbligato a Zinnowitz, nei pressi di Stettino, in Pomerania. Anche in questa nuova destinazione, il prete mantenne il suo atteggiamento critico nei confronti del regime, che, da parte sua, ne teneva costantemente sotto controllo ogni attività pubblica e ogni contatto privato, visite, lettere e telefonate. Questo fornì materiale sufficiente per portare al suo arresto, nel febbraio 1943, sotto l’accusa di aver rivelato informazioni relative alla realizzazione di armi nell’isola di Usedom, di aver condannato la deportazione degli ebrei nei campi di concentramento e l’uccisione di pazienti nelle cliniche psichiatriche, nonché di ascoltare programmi-radio di stazioni straniere, e di portare aiuto e conforto ai condannati ai lavori forzati. Riconosciuto colpevole di tutto questo, fu condannato a morte per decapitazione. La sentenza fu eseguita il 13 novembre 1944 a Halle/Saale.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera a Filemone, 7-20; Salmo 146; Vangelo di Luca, cap.17, 20-25.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

“Signore, aiutaci a costruire la nostra casa / con finestre di aurora e alberi in giardino / Alberi che di primavera si coprano di fiori / e al crepuscolo ingrigiscano come i vestiti dei pescatori”. Stamattina, se ne è andato Manoel de Barros, il nostro grande poeta, che avrebbe compiuto novantotto anni il prossimo 19 dicembre. E non diciamo altro.

E, per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura una riflessione del card. Joseph Bernardin sulla figura e la missione del prete, per come egli stesso l’ha vissuta. Tratta dal suo libro “Il dono della pace” (Queriniana), è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Come sacerdote, sono chiamato ad essere strumento della volontà di Dio, dell’intimo amore e della relazione che egli ha per e con le persone viventi. La definizione di fondo o le fondamentali qualità del sacerdote non cambiano. E poiché io vivo con loro, molte persone mi dicono che sono lo stesso che io ero quarantanni fa. […] Mi sono sempre curato della gente. Ho sempre cercato di riconciliare le persone. Ho sempre cercato di essere uno strumento dell’amore salvifico di Dio. Si aggiunga che non ho mai capito che cosa significhi essere un sacerdote molto più chiaramente di quanto non lo capisca ora. La gente si aspetta che i preti siano autentici testimoni del ruolo attivo di Dio nel mondo, del suo amore. La gente non vuole che noi siamo politici o manager in affari; la gente non ha interesse per i futili conflitti che possono sorgere nella vita parrocchiale o diocesana. La gente, invece, vuole semplicemente che noi siamo vicini nella gioia e nella sofferenza della loro vita. Capisco che gli aspetti organizzativi sono importanti. La Chiesa è un’istituzione che necessita di una certa dimensione amministrativa. Ma le strutture amministrative finiscono a volte per assumere una parte troppo importante, fino ad oscurare il vero apostolato con la gente, alla quale i sacerdoti dovrebbero dedicarsi. Non mi sono mai sentito più sacerdote di quanto è avvenuto nell’ultimo anno. Dopo il mio primo ciclo di chemioterapia e di trattamento radioterapico, dissi ai miei consiglieri che avevo una nuova priorità nel mio ministero: impiegare più tempo con gli ammalati ed i sofferenti. Per quanto importante sia il resto del nostro operato, la gente vuole qualcosa di diverso da parte della comunità ecclesiale. Perfino se non appartengono ad alcuna religione specifica, uomini e donne ovunque hanno un profondo desiderio di venire a contatto con il trascendente. I membri del clero possono facilitare ciò per mezzo di un semplice atto di bontà che manifestano nell’essere con la loro gente. Le cose cui la gente è naturalmente attaccata e che maggiormente ricorda sono piccoli atti di attenzione e di premura. Anni dopo, questo è quello che la stessa gente conserva dei propri sacerdoti e di altri religiosi. (Joseph Bernardin, Il dono della pace).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 13 Novembre 2014ultima modifica: 2014-11-13T22:36:14+01:00da fraternidade
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