Giorno per giorno – 08 Ottobre 2014

Carissimi,
“Gesù disse loro: Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno; dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano, e perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo a ogni nostro debitore, e non abbandonarci alla tentazione” (Lc 11, 2-4). Noi, del Padre nostro, abbiamo fatto una formula che ripetiamo, senza, a volte, neppure pensare a ciò che diciamo. Luca ce ne offre, nel suo vangelo, una versione più sintetica di quella che troviamo in Matteo. Ma, volendo, potremmo sintetizzarla anche di più. Dire solo: Padre. O, alternativamente: “sia santificato il tuo nome”, o “venga il tuo regno”. Il resto, viene come conseguenza. Stasera, nella chiesetta dell’Aparecida, ci dicevamo che, più che fare di questo la nostra preghiera, dovremmo farne la nostra maniera di essere. Di ogni nostra parola, di ogni nostro gesto e azione, dovremmo poter dire che è motivo della santificazione del Nome, segno del Regno che accade, espressione dell’universale paternità di Dio. Se il Padre nostro diventa davvero un po’ come il nostro respiro, quante cattive parole ci risparmieremmo, quanti atteggiamenti inopportuni, quanti giudizi impietosi. Come possiamo convincere gli altri della verità della nostra professione di fede, se siamo noi per primi a smentirla. Noi crediamo nel Padre, ma ci neghiamo poi come fratelli. Crediamo nel principio della cura reciproca, della condivisione dei beni, del perdono vicendevole, ma quante volte siamo portati a negarlo nei fatti. È, per questo, che alla fine di tutto, chiediamo: Non metterci alla prova, o non abbandonarci in essa. Tu, Padre, Abba, sai come siamo deboli!

Il nostro calendario ci porta la memoria di Sergio di Radonež, patriarca dei monaci della Russia ortodossa, di Néstor Paz Zamora, martire in Bolivia, e di Penny Lernoux, giornalista in difesa dei poveri in America Latina.

Bartolomeo, questo era il suo nome di battesimo, era nato il 3 maggio del 1313, a Rostov Vielikij (Russia). Da piccolo, con tutta la buona volontà, non gli riusciva proprio di imparare a leggere. Finché un giorno incontrò un monaco. E gli confidò il suo cruccio piangendo. Quello allora lo benedisse, gli diede un po’ di pane e gli disse: Va con Dio. Da allora fu tutto più facile. Quando ebbe poco più di vent’anni, decise di ritirarsi con il fratello Stefano in una foresta, non lontano dal villaggio di Radonez, nei pressi di Mosca, dove qualche anno prima la famiglia si era trasferita. Costruì una cappella dedicata alla Trinità, dove il 7 ottobre del 1337 ricevette l’abito monastico, assumendo il nome Sergio. Nonostante la solitudine, i disagi e i pericoli della vita nella foresta, giunsero presto altri uomini, desiderosi di imitarne l´esempio che, pochi anni più tardi lo vollero come loro igùmeno (abate). In breve la Comunità monastica crebbe in modo considerevole e Sergio seppe guidarla con grande umiltà ma anche con fermezza. Fondò molti altri monasteri e la sua fama si diffuse moltissimo. Tipico santo contadino, alieno da ogni intellettualismo, era semplice, umile, serio e gentile e visse una vita di preghiera, digiuno e lavoro. Insegnò ai suoi monaci che la fuga dal mondo e dalla sua logica non esimeva, ma, al contrario, imponeva spirito di servizio e aiuto concreto nei confronti del prossimo, oltre che la pratica rigorosa della povertà, a livello personale e comunitario. Pochi mesi prima di morire, convocati i suoi monaci, nominò il suo successore. Quando poi sentì vicina la morte, li mandò a chiamare, diede loro le ultime istruzioni spirituali, ricevette i sacramenti e, sollevate le mani al cielo, rese l’anima a Dio. Era il 25 settembre del 1392 (corrispondente nel calendario gregoriano all’8 ottobre).

Le poche notizie che disponiamo su Néstor Paz Zamora le ricaviamo dal Martirologio latino-americano. Figlio di un generale boliviano, Néstor era stato per alcuni anni in seminario, dove aveva compiuto i suoi studi di teologia. Uscitone, si era legato alle comunità di Charles de Foucauld, di cui sentiva di condividere profondamente la spiritualità. Era studente di medicina all’Università, quando decise di unirsi alla guerriglia di Teoponte, in cui sarebbe morto di stenti, poco dopo, l’8 ottobre 1970. Tutta la sua esperienza di cristiano mistico e militante è mirabilmente contenuta nelle pagine del Diario che dedicò alla moglie Cecy. Da esso traspare il significato trascendente e sempre valido che Néstor leggeva nella sua lotta per la “terra nuova”, dove l’amore fosse la legge fondamentale. Il 12 agosto scrisse: “Sono un lievito che lavora continuativamente. Questa è almeno la sensazione che ho. Una grande pace e una grande tranquillità mi invadono. Sto ‘vitalmente’ passando dall’idea della ‘morte’ come diminuzione all’idea della ‘morte’ come pienezza e passo ad una nuova dimensione. Non la cerco, ma, se venisse, l’aspetterei con la serenità e la tranquillità che merita un tale momento, e persino le chiederei che li avvisasse che sono passato al Padre, che il ‘vieni, Signore Gesù’ è diventato realtà in me”.

Penny Lernoux era nata il 6 gennaio 1940 in un’agiata famiglia cattolica della California. Al termine di un brillante corso di studi universitari, era diventata giornalista, recandosi a lavorare, dal 1961, in America Latina, e fissando la sua residenza dapprima a Rio de Janeiro, poi a Bogotà e Caracas e, infine, nuovamente a Bogotà. A partire dal 1974 operò come scrittrice freelance. Sposata e madre di una figlia, da subito percepì l’estremo contrasto esistente tra la ricchezza di politici, latifondisti e uomini di affari latinoamericani, da un lato, e la povertà delle masse della regione, dall’altro. Affascinata dalla proposta radicale del Vangelo, si avvicinò alle comunità cristiane di base e si interessò da vicino alla teologia della liberazione, che ne facevano lo strumento per interpretare e cambiare una realtà, caratterizzata da un violento sfruttamento economico e da brutali regimi dittatoriali. Fu per molti anni corrispondente del National Catholic Reporter, oltre a scrivere per altre testate e pubblicare numerosi libri. Colpita da un tumore ai polmoni, due settimane prima della morte, consapevole della gravità del suo stato, confessava: “Mi sento come se stessi scendendo per un nuovo sentiero. Non è una paura fisica o la paura della morte, perché i poveri dell’America Latina, con il loro coraggio, mi hanno insegnato una teologia della vita che, attraverso la solidarietà e la nostra lotta comune, trascende la morte. È piuttosto una sensazione di impotenza – ed io che ho sempre voluto essere campione dei poveri mi ritrovo proprio come impotente – e, anch’io, devo tendere la mia scodella da mendicante; devo imparare – sto imparando – l’estrema impotenza di Cristo. È un’esperienza purificante. Quante cose sembrano ora meno importanti, specialmete le ambizioni”. Morì l’8 ottobre 1989. Aveva lasciato scritto: “Tu puoi anche guardare una favela o un villaggio contadino… ma è soltando entrando in quel mondo – e vivendoci – che comincerai a capire cosa significa essere senza potere, essere come Cristo”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Galati, cap.2, 1-2.7-14; Salmo 117; Vangelo di Luca, cap.11, 1-4.

La preghiera del mercoledì è in comunione con quanti, lungo i cammini più diversi, perseguono un mondo di giustizia, fraternità e pace.

È tutto, per stasera. Noi ci congediamo qui, proponendovi una pagina del “Diáro de Guerrilha” di Néstor Paz Zamora, con una lettera alla moglie. La troviamo in “Sangue pelo Povo. Martirológio Latino-Americano” (Instituto Histórico Centro-Americano de Manágua) ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Mia cara regina, è molti giorni che non scrivo, perché mi mancava animo. Ieri ho ricordato molto tutto ciò che è NOSTRO. Stiamo passando momenti estremamenti difficili e duri. Il mio corpo è crollato, ma il mio spirito rimane intatto. Voglio affidarlo a te in primo luogo e agli altri. Amarti con la pienezza delle mie forze, con tutto ciò che posso, perché tu incarni la mia vita, la mia lotta e le mie aspirazioni. Il giorno 9 difficilmente potremo stare assieme, forse il 29 o a Natale. Ma ho fiducia che sará così. Siamo un piccolo gruppo. Ho la fortuna di essere a fianco di compagni che sono anche amici o parenti e questo mi dà più tranquillità. È difficile a questo punto non disperare ed è la fiducia nel Signore Gesù che mi infonde coraggio per andare avanti sino alla fine. Abbiamo perso la battaglia, almeno questa, irrimediabilmente. Dobbiamo ricuperare il morale e vedere con criterio chiaro e realista ciò che faremo in futuro. Vediamo cosa ne sarà. Speriamo che non sia dopo la morte il nostro incontro, anche se questo sarebbe in ogni caso sovrabbondante di felicità. Credo in questa verità ed essa mi consola perché è reale. Spero di poter stare presto con te. Poterti parlare a lungo, guardarci negli occhi, mettere al mondo un Pazuelopis o una Pasuelopita, che ci rellegri i giorni e andare avanti. Ho paura che ti capiti qualcosa, spero tuttavia che tu stia bene. E per finire ti saluto. Come sempre la carta è una seria limitazione, io non servo per scrivere, posso solo esprimermi. Penso ai vecchi. Ai miei fratelli e sorelle. Presto li abbracceremo. Voglio, e questo è il più importante, mangiare, mangiare, mangiare nei primi giorni, perché è già un mese che non mangiamo, se non qualche boccone sporadico che troviamo. Ti amo molto. Che questo sia chiaro. Sei ciò che amo di più e ciò che amo in pienezza. (Néstor Paz Zamora, Diário de Guerrilha).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 08 Ottobre 2014ultima modifica: 2014-10-08T22:14:45+02:00da fraternidade
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