Giorno per giorno – 06 Ottobre 2014

Carissimi,
“Un uomo scendeva da Gerusalemme a Gèrico e cadde nelle mani dei briganti, che gli portarono via tutto, lo percossero a sangue e se ne andarono, lasciandolo mezzo morto. Per caso, un sacerdote scendeva per quella medesima strada e, quando lo vide, passò oltre. Anche un levìta, giunto in quel luogo, vide e passò oltre” (Lc 10, 30-32). La parabola è nota. Coloro da cui ci si attenderebbe, più che da altri, per la loro professione di fede e, più ancora di consacrazione religiosa, le parole e i gesti della misericordia capaci di ridire Lui in ogni tempo, capita siano quelli che tirano dritto, a caccia, nella migliore delle ipotesi, di un’improbabile santità, senza accorgersi, che lì, a fianco, sul ciglio della strada, ferito di tutte le ferite del mondo, c’è proprio colui che loro dicono di adorare. La parabola parla, dunque, di noi, ci dicevamo stasera a casa di dona Vicentina. Di volta in volta, nei differenti ruoli. E, parla di Dio, nella storia di Gesù, suo figlio, il Samaritano per eccellenza, il primo grande eretico, che non ha avuto paura di lasciare le vie del Cielo, per curvarsi sul ferito, che è ciascuno di noi, e il mondo nel suo insieme. Per confermarci nella verità che noi siamo il suo cielo più vero. Ma, torniamo alla parabola. Il dotto moralista, che è d’accordo con Gesù sul fatto che amore di Dio e amore del prossimo fanno tutt’uno, dice al Maestro: tutto bene, ma in definitiva, chi è il mio prossimo? Perché noi si riesce anche sì, abbastanza, ad amare, ma per categorie, e quello che vorremmo sentirci rispondere è ciò che più o meno viviamo già, nelle nostre piccole vite, che si accontentano di giocare al ribasso: ama il papà, la mamma (e di questi tempi sembra già tanto), ama tua moglie, tuo marito (lo sembra anche di più), ama i tuoi figlioli, fratelli, sorelle, i tuoi compagni di classe (qui si va già nel difficile), i tuoi colleghi, vicini, fratelli di fede, di chiesa, di ideologia, di partito, e così via. Ma, a Gesù, non interessano le categorie. A Lui interessa la persona, le persone, che sono nel bisogno. Il moralista chiede: chi è il mio prossimo da amare? Gesù, alla fine della parabola, ribalta la domanda: chi si è fatto prossimo a colui che è incappato nei briganti? Colui che gli ha usato misericordia, ribatte l’altro. Ma, come si vede, la misericordia non è un semplice sentimento, meno che meno un’emozione momentanea: è dimenticare se stessi, strapparsi al proprio cammino, lasciare i propri interessi, spendere il proprio tempo, curvarsi sul dolore altrui, prendersi cura, pagare di persona. Cose di cui, spesso, sanno esserci di esempio, gli eretici, i pagani, gli atei del nostro tempo. Mentre noi, magari, ce ne restiamo lì, coi nostri catechismi in mano, a dire al ferito, sempre che troviamo il tempo di fermarci: beh, te la sei cercata!

Oggi è memoria di Bruno di Colonia, monaco fondatore della Certosa, e di William Tyndale, riformatore e martire.

Nato, nel 1030, a Colonia (nell’attuale Germania), in una nobile famiglia, Bruno di Hartenfaust, una volta ordinato sacerdote, si dedicò per venticinque anni all’insegnamento della Teologia, nell’archidiocesi di Reims. A cinquantaquattro anni, dopo un ritiro nell’abbazia di Molesmes, in Francia, decise, con sei compagni, di darsi alla vita eremitica nella regione allora disabitata della Chartreuse. Abitando in piccole abitazioni individuali, i monaci presero a vivere un’esistenza austera, silenziosa e laboriosa, riunendosi solo per pregare insieme l’Ufficio Divino. Nacque così l’Ordine dei Certosini. Quattro anni più tardi, il papa Urbano II, suo antico allievo, lo volle a Roma come suo consigliere, per dar mano alla riforma della Chiesa. Ma l’atmosfera che si respirava alla corte pontificia e i crescenti dissidi tra il papa e l’imperatore non dovettero piacere granché all’austero monaco, che nel 1092, preferì tornare alla sua vita, recandosi questa volta in Calabria, dove fondò l’eremo di Serra, nei pressi di Squillace. Lì morì il 6 ottobre dell’anno 1101.

William Tyndale era nato nel 1493 nella contea di Gloucester. Poco si sa della sua giovinezza, salvo il fatto che studiò ad Oxford e a Cambridge. Divenuto prete, subì presto l’influenza delle idee riformatrici di John Wycliff, che sosteneva la necessità per la gente comune di riappropriarsi della Bibbia. Per fronteggiare questa “minaccia”, da oltre un secolo, nel 1408, era stata approvata una legge che proibiva ogni traduzione della Bibbia in inglese e comminava la scomunica a chiunque si azzardasse a leggere la Sacra Scrittura. Sorpreso per l’ignoranza che caratterizzava gran parte del clero, Tyndale dichiarò un giorno ad uno dei suoi colleghi: “Se Dio mi darà vita a sufficienza, farò sì che un qualunque popolano arrivi a conoscere la Bibbia più di voi”. Fino ad allora, l’unica traduzione disponibile della Bibbia era quella manoscritta da Wycliffe, distribuita clandestinamente dai Lollardi. Basata sulla Vulgata latina e non sui testi originali ebraici e greci, era tuttavia piuttosto approssimativa. Tyndale chiese allora al Vescovo di Londra, Cuthbert Tunstall, il permesso di intraprenderne una nuova. Ma, invano. Deluso, nel 1524, lasciò il Paese, recandosi ad Amburgo, dove si dedicò a tempo pieno a quello che ormai considerava il compito della sua vita. Scoperto e denunciato, fuggì a Worms, dove riuscì a dare alle stampe e ad inviare in Inghilterra la prima edizione della traduzione del Nuovo Testamento in lingua corrente. Era il 1526. Il vescovo Tunstall non gradì e ordinò di bruciare nella pubblica piazza tutte le copie sequestrate. Trasferitosi ad Anversa, dove contava di essere piú al sicuro, Tyndale pubblicò nel 1530 il Pentateuco e la seconda edizione del Nuovo Testamento. Sfortunatamente, nel maggio del 1535, tradito da un suo connazionale di nome Henry Phillips, fu arrestato e rinchiuso nella prigione di Vilvoorde, nei pressi di Bruxelles. Processato da un tribunale della Chiesa d’Inghilterra, che Enrico VIII aveva da poco reso indipendente da Roma, Tyndale fu condannato a morte. Prima di essere strangolato e poi bruciato, in piazza a Bruxelles, il 6 ottobre 1536, gridò: “Signore, apri gli occhi del Re d’Inghilterra!”. E l’anno successivo, di fatto, Enrico VIII avrebbe concesso la sua approvazione alla traduzione e alla diffusione della Bibbia di Tyndale.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Galati, cap.1, 6-12; Salmo 111; Vangelo di Luca, cap.10, 25-37.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con le grandi religioni dell’India: Vishnuismo, Shivaismo, Shaktismo.

La vocazione dei reclusi, di quanti hanno scelto la clausura, per vivere il mistero cristiano, è di difficile lettura, soprattutto per il nostro tempo, così segnato dalla logica dell’utilità e della massima efficienza. Anche noi, pur guardandola con rispetto e ammirazione, si fà un po’ fatica a comprenderla. Il vangelo di oggi sembrerebbe adattarsi poco a una tale scelta. Forse, sarebbe più consono ad essa il vangelo che leggeremo domani. Eppure no, riteniamo che questa sia una prospettiva sbagliata. Dato che ogni pagina del vangelo è sempre per tutti e per ciascuno. Tra i tanti significati che vorremmo potervi intravvedere, è quello che loro, i contemplativi, siano immagine dei feriti del mondo, al loro risveglio, quando scorgono il volto del Samaritano, curvo su di loro. E non se ne distaccano più. Oppure, che essi abbiano scelto di restarsene chiusi, in solidarietà, con quanti invece vi sono costretti, in prigione, o nei letti di un’infermità senza cura,o negli ospizi dove solo si attende la morte. E, attraverso la preghiera, glielo mandano a dire. Beh, è tutto, per stasera. Noi ci congeda, lasciandovi alla lettura di un brano di Dom André Louf, tratto da un suo opuscolo, dal titolo “San Bruno”, redatto nel 2001 per il nono centanario della morte del santo. Lo troviamo nel sito San Bruno e i certosini. Cammini di contemplazione ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Con questo ritiro molto rigoroso in cella, la vocazione certosina si apparenta ancora oggi a quella dei numerosi reclusi e recluse che il nostro medioevo occidentale ha conosciuto. Difatti è sempre l’antica preghiera della inclusio, del rito medievale della reclusione, che, secondo il rituale certosino in vigore, il priore recita sul novizio quando questi, dopo la vestizione dell’abito, è solennemente condotto da tutta la comunità nella sua cella. Da quel momento egli è, secondo le belle parole di San Bernardo, “amore Christi inclusus”, recluso per amore di Cristo. Di fatto è il suo attaccamento esclusivo a Cristo che il monaco proverà ad esprimere volta per volta attraverso i rigori e le gioie della solitudine, come è unicamente l’amore che Cristo ha avuto per primo per lui che può spiegare la sua scelta di “dimorare in lui” in questo modo, di “dimorare nel suo amore”, “all’ombra delle sue ali” e “nel segreto del suo Volto”. Un passo dei recenti Statuti certosini descrive così ciò che il solitario può attendersi da una tale reclusione: “Chi dimora stabilmente in cella e da essa è formato, mira a rendere tutta la sua vita un’unica e incessante preghiera. Ma non può entrare in questa quiete, se non dopo essersi cimentato nello sforzo di una dura lotta, sia mediante le austerità nelle quali persiste per la familiarità con la Croce, sia mediante quelle visite con le quali il Signore lo avrà provato come oro nel crogiolo. Così, purificato dalla pazienza, consolato e nutrito dall’assidua meditazione delle Scritture, e introdotto dalla grazia dello Spirito nelle profondità del suo cuore, diverrà capace non solo di servire Dio, ma di aderire a lui” (Statuti 1, 3, 2). L’ultima frase è presa da Guglielmo di Saint-Thierry nella Lettera d’Oro indirizzata ai certosini di Mont¬Dieu: “Agli altri sta di servire Dio, a voi di aderire a lui”. E Guglielmo aggiunge: “Agli altri di credere, sapere, amare e riverire Dio; a voi di assaporarlo, comprenderlo, conoscerlo, gustarlo” (Lettera d’Oro, 16). Tutto questo farà apprendere al monaco la permanenza continua nella cella, secondo un antico detto dei Padri del deserto, ripreso dall’Imitazione di Cristo: “Resta seduto nella tua cella, essa ti insegnerà ogni cosa” (Abbà Mosè, 6). (Dom André Louf, San Bruno).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Ottobre 2014ultima modifica: 2014-10-06T22:11:26+02:00da fraternidade
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