Giorno per giorno – 08 Marzo 2018

Carissimi,
“Gesù stava scacciando un demonio che era muto. Uscito il demonio, il muto cominciò a parlare e le folle rimasero meravigliate. Ma alcuni dissero: È in nome di Beelzebùl, capo dei demòni, che egli scaccia i demòni” (Lc 11, 14-15). Quando la parola è ridata a chi ne è privo, Gesù dice che questo è segno della presenza del Regno di Dio (v.20). Mentre per altri, che si dicono o si fingono interessatamente religiosi sarà sempre segno dell’azione demoniaca e di quanti sono visti come suoi agenti. Stamattina ci dicevamo che è bello che questo vangelo cada oggi, nella Giornata internazionale della donna, le cui lotte e il cui protagonismo, assieme a quelli del mondo del lavoro e dei popoli del Sud del mondo erano additate come “segni dei tempi” nella Pacem in Terris, di Giovanni XXIII, oltre cinquant’anni fa. Certo, riprendersi la parola, non è dato una volta per tutte. A questo proposito è illuminante la breve parabola raccontata nel vangelo di oggi: “Quando un uomo forte, bene armato, fa la guardia al suo palazzo, tutti i suoi beni stanno al sicuro. Ma se arriva uno più forte di lui e lo vince, gli strappa via l’armatura nella quale confidava e ne distribuisce il bottino” (v. 21-22). La scesa in campo di Gesù, forte solo della sua nonviolenza e della proposta del Regno, riesce, alla lunga, ad avere la meglio e vincere il potere che con la forza delle armi opprime, mette a tacere, imprigiona quanti contrastino la logica del dominio nelle sue diverse forme, della rapina e dell’accumulo dei beni che lo regge. Ma non dobbiamo credere che quello se ne resti a lungo tranquillo. Il seguito della parabola, che la liturgia non ci ha fatto ascoltare oggi, dice che “quando lo spirito immondo esce dall’uomo, si aggira per luoghi aridi in cerca di riposo e, non trovandone, dice: Ritornerò nella mia casa da cui sono uscito. Venuto, la trova spazzata e adorna. Allora va, prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui ed essi entrano e vi alloggiano e la condizione finale di quell’uomo diventa peggiore della prima” (v. 24-26). É quanto stiamo sperimentando in questi tempi, quando diritti e conquiste, che sancivano la ritrovata dignità di uomini, donne, nazioni, che si pensavano definitivamente acquisiti, tornano ad essere messi pesantemente in questione, nuovamente sacrificati e negati, a vantaggio, ancora una bolta, dei poteri più forti. Noi che gioco giochiamo in questo scenario? Da che parte stiamo? A chi diamo la parola? Di chi siamo la parola? La Quaresima ci interpella anche su questo.

Oggi, il calendario ci porta la memoria di Giovanni di Dio, testimone, al servizio degli infermi.

Juan Ciudad era nato l’8 marzo 1495 a Montemor-o-novo, nei pressi di Evora, in Portogallo. Quando ebbe otto anni un chierico lo sottrasse ai genitori ignari, portandolo a Oropesa, nella Nuova Castiglia, e lo affidò alla famiglia di Francisco Cid, sovraintendente al bestiame e al personale addetto, nelle tenute del Conte di Oropesa. Qui il ragazzo restò, dedicandosi alla pastorizia, fino all’eta di 28 anni, quando si arruolò in una compagnia di fanteria al servizio dell’imperatore di Spagna. Le molte disavventure convinsero Juan a lasciarsi alle spalle la carriera militare. Per qualche tempo viaggiò per mezza Europa, fu bracciante in Africa, venditore ambulante a Gibilterra, finché si stabilì a Granada, dove aprì un piccolo commercio di libri. Fu allora che, ascoltando una predica di Giovanni d’Ávila, decise di cambiare radicalmente vita: abbandonò tutto, vendette i suoi beni e coperto di stracci cominciò a mendicare per le vie della città, diventando una sorta di folle per Cristo. E per matto lo presero i suoi concittadini, che lo rinchiusero in manicomio. Questo fu tuttavia un evento provvidenziale per permettere a Juan di scoprire la sua vocazione: dedicarsi all’assistenza di poveri e malati. Per quanto privo di specifiche conoscenze mediche, cominciò ad accogliere malati di ogni tipo, prendendosi cura del loro spirito, per aiutare a risanarne il corpo. Quando morì a cinquantacinque anni, l’8 marzo 1550, i suoi discepoli ed amici fondarono l’Ordine dei Fratelli Ospedalieri, meglio conosciuti come Fatebenefratelli, dal saluto che Giovanni rivolgeva ai passanti quando mendicava aiuto per i suoi malati. Fu canonizzato nel 1690 da papa Alessandro VIII e Leone XIII lo dichiarò patrono degli ospedali e degli operatori di salute.

I testi che la liturgia propone oggi alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Geremia, cap.7, 23-28; Salmo 95; Vangelo di Luca, cap.11, 14-23.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

L’8 di marzo è anche la Giornata della Donna. Della sua origine sappiamo solo, come notizia sicura, che l’8 marzo 1908, Clara Essner Zetkin, dirigente del movimento operaio tedesco, e la socialista Rosa Luxemburg organizzarono la Prima Conferenza internazionale della donna. Due anni più tardi, Il 29 agosto 1910, a Copenaghen, dove si tenne la Seconda Conferenza internazionale, tra le proposte approvate vi furono quelle di istituire una giornata internazionale della donna, il diritto universale al voto e il riconoscimento dell’indennità di gestazione anche per le donne non sposate. Giornata quindi di lotta e di rivendicazioni. Nel 1977, poi, l’UNESCO proclamò l’8 Marzo, Giornata internazionale della donna. Che qui ricordiamo, senza mimose e senza cedimenti a un improbabile consumismo, ma per fare memoria delle conquiste raggiunte e di quelle, molte di più, da conseguire ancora. Dall’altra metà del cielo.

È tutto, per stasera. Prendendo spunto dalla celebrazione odierna della Giornata internazionale della donna, scegliamo di proporvi una citazione della teologa Anne-Marie Pelletier, tratta da un suo articolo, apparso ne L’Osservatore romano del 19 ottobre 2017, col titolo “Le donne, futuro della Chiesa?”, in sui si interroga sulla presenza della donna nella comunità cristiana. È questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Le donne sono anche entrate nel discorso magisteriale sotto forma d’indirizzi personali, interpellandole in una modalità vibrante. Così è stato in numerosi interventi di Papa Giovanni Paolo II. E già, in modo esemplare, di Paolo VI, nel suo messaggio alle donne, in chiusura del concilio Vaticano II. E tuttavia osiamo dire che molti di quei discorsi, inserendosi proprio nel registro del sublime, sono inesorabilmente ricaduti nello schema delle “donne parlate”… Parlate in modo diverso, ma sempre nell’orizzonte di un’identità più o meno immaginaria e, alla fine, con lo stesso effetto. Perché una donna troppo celebrata in una singolarità d’eccezione è di nuovo una donna tenuta a distanza. In realtà scartata dallo spazio in cui si trattano le cose serie, quelle che riguardano la decisione e l’effettività del potere… Così, questi nuovi discorsi di celebrazione del femminile si sono ripiegati su se stessi. Hanno riportato le donne al mondo delle rappresentazioni maschili che sostengono, in un modo o nell’altro, le strutture di autorità e di governo. D’altronde non bisogna meravigliarsene, perché tali discorsi non includono un ascolto della donna, che libera da sola lo spazio della sua parola. Non corrono davvero il rischio di un incontro con l’altro, così come questo altro può dirsi, con l’imprevisto della sua esperienza, con la sua differenza che bisogna lasciargli formulare e non assorbire in nuovi discorsi di dominio maschile. La posta in gioco è che le donne nella Chiesa prendano parte alla parola/Parola. […] Si tratta di far sì che la parola delle donne esista nella Chiesa oggi. Come d’altronde essa è esistita ieri, ma colpita da quella impotenza che le viene dal suo essere posta al margine, dal suo essere rinchiusa in una singolarità che si è potuta esprimere, per esempio, attraverso l’etichettatura di “mistica”. Una parola che permette di tenere a distanza ciò che non si vuole ascoltare troppo, anche se non si tratta più delle pratiche antiche, che fecero tacere questa parola annientandone i corpi. […] Ma, giustamente, non si tratta solo di far sì che le donne dicano la loro verità, ma anche che la loro parola possa lasciare il recinto a cui è stata assegnata, possa entrare nel campo dell’ascolto e dello scambio. Dobbiamo di fatto concentrare la nostra attenzione non soltanto sul contenuto dei discorsi, ma anche sulla sua enunciazione: laddove il linguaggio vale non solo per quello che dice, ma anche per quello che costruisce di relazione al livello dei suoi interlocutori. (Anne-Marie Pelletier, Le donne, futuro della Chiesa?).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 08 Marzo 2018ultima modifica: 2018-03-08T22:25:50+01:00da fraternidade
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