Giorno per giorno – 29 Ottobre 2017

Carissimi,
“Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il più grande e il primo dei comandamenti. E il secondo è simile al primo: Amerai il prossimo tuo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti” (Mt 22, 37-40). Questi due comandamenti, indissolubilmente legati, che, secondo Gesù (ma secondo anche altri maestri dell’epoca) riassumono tutto l’insegnamento della Bibbia (“la Legge e i Profeti”), e che noi siamo abituati a ripeterci con disinvoltura, ci giudicano e, temiamo, il piú delle volte, ci condannano. Così come giudicano e condannano la nostra storia e spesso la vita della chiesa, incapaci come si è ad assumerli come orientamento vero, concreto, del nostro agire. Al punto che non ci fa problema affermare di credere e di amare Dio (ridotto così a idolo), e contestualmente ignorare, disprezzare, violentare il prossimo. Eppure è proprio l’amore del prossimo (ben visibile) che rappresenta la cartina di tornasole del nostro amore per Dio (invisibile), come ci ricorda Giovanni nella sua lettera (cf 1Gv 4, 20). Il fatto è che la religione, così come ce la trasmettiamo alla buona, di generazione in generazione, ci ha abituati a separare gli ambiti e ad illuderci che i “gesti religiosi” diano senso e sostanza al nostro amore per Dio, riservando all’amore del prossimo le briciole di atteggiamenti isolati, decisi dal gusto e dalla buona volontà di ciascuno, quando non ci facciamo fomentatori di intolleranza e di odio. In realtà, così facendo, neghiamo la verità della fede in cui diciamo di credere, e diventiamo scuola di ateismo per i molti che vedono in noi questa radicale incoerenza rispetto all’insegnamento e all’esempio del Maestro.

I testi che la liturgia di questa XXX Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro dell’Esodo, cap. 22,20-26; Salmo 18; 1ª Lettera ai Tessalonicesi, cap. 1,5-10; Vangelo di Matteo, cap. 22, 34-40.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Oggi il nostro calendario ci porta la memoria di Mons. Christophe Munzihirwa, martire in Congo; di Manuel Chin Sooj e compagni, catechisti, martiri in Guatemala; e di Valmir Rodrigues de Souza, martire del lavoro infantile in Brasile.

Christophe Munzihirwa Mwene Ngabo era nato a Lukumbo, nei pressi di Walungu (Kivu, Congo) nel 1926. Dopo essere stato ordinato prete nel 1958, nel 1963 chiese e ottenne di entrare nella Compagnia di Gesù. Dopo gli studi all’università di Lovanio, in Belgio, rientrò in Zaire, dove gli fu affidata la direzione spirituale dei gesuiti in formazione a Kimweza. Nel 1971 visse la stagione della contestazione studentesca che sfociò nell’arruolamento forzato degli studenti nelle file dell’esercito. Anche se per la sua età avrebbe potuto essere dispensato, scelse di condividere volontariamente l’arruolamento con i suoi studenti. Nel 1975 fece la sua professione religiosa solenne. Dal 1980 fu per sei anni provinciale dei gesuiti dell’Africa Centrale (Zaire, Ruanda e Burundi). Nel 1986 venne nominato vescovo coadiutore della diocesi di Kasongo, di cui divenne titolare quattro anni più tardi. Nel 1994 partecipò a Roma al Sinodo Speciale per l’Africa. Nominato arcivescovo di Bukavu, nel 1995, visse da vicino il dramma di centinaia di migliaia di rifugiati ruandesi. Durante i successivi due anni dedicò ogni sforzo per additare un cammino di pace alle forze in conflitto nella regione dei Grandi Laghi. Spirito libero, Mons. Munzihirwa si caratterizzò per uno stile di vita poverissimo e per il coraggio profetico con cui seppe in ogni occasione denunciare violenze, corruzione, ruberie, nonché i giochi e gli interessi delle grandi potenze, che agivano dietro le quinte. Fu ucciso a bastonate da alcuni soldati delle milizie ruandesi il 29 ottobre 1996.

Di Manuel Chin Sooj e dei suoi due compagni, rimasti senza nome, sappiamo solo che erano contadini e catechisti, membri del movimento organizzato dal sacerdote Andrés Girón, in Guatemala, che lottava per ottenere terre per migliaia di contadini. Dei tre, sequestrati il 29 ottobre 1987, riapparve solo il cadavere di Manuel, con i segni di orribili torture, riconosciuto dai famigliari nell’ospedale di Mazatenango, nel dipartimento di Suchitepéquez. Rimase sconosciuta la sorte degli altri catechisti.

Valmir Rodrigues de Souza era um bambino di otto anni della regione di Barreiras (Bahia). Il 29 ottobre 1991, Toinho Chorenga, il fazendeiro per cui lavorava, lo massacrò di botte per non aver impedito che la ruota di un carro restasse presa in una buca. È simbolo di tutti i bambini vittime del lavoro infantile e della violenza nei campi.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, e, prendendo spunto dalla memoria di Manuel Chin Sooj e Compagni, vi proponiamo un brano del teologo latinoamericano Gustavo Gutiérrez, tratto dal suo libro “Teologia della liberazione” (Queriniana). Che è, così, per oggi il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Come intendere il significato evangelico della testimonianza di una povertà reale, materiale, concreta? La Lumen Gentium ci invita a ricercare in Cristo il significato piú profondo della povertà cristiana: “Come Cristo ha compiuto la redenzione attraverso la povertà e le persecuzioni, così pure la chiesa è chiamata a prendere la stessa via per comunicare agli uomini i frutti della salvezza. Gesù Cristo ‘sussistendo nella natura di Dio… spogliò se stesso, prendendo la natura di un servo’ (Fil 2, 6-7) e per noi ‘da ricco che egli era si fece povero’ (2Cor 8, 9): così anche la chiesa, quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per diffondere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione” (n.8). L’incarnazione è un atto d’amore. Cristo si fa uomo, muore e risuscita per liberarci e farci godere di questa libertà (Gal 5, 1). Morire e risuscitare con Cristo è vincere la morte ed entrare in una vita nuova (cf Rm 6, 1-11). La croce e la risurrezione sigillano la nostra libertà. Il fatto di assumere la condizione servile e di peccato dell’uomo, annunciata dal secondo Isaia, è presentato da san Paolo come un gesto di impoverimento volontario: “Conoscete la generosità di nostro Signore Gesù Cristo il quale, essendo ricco, per voi si fece povero affinché vi arricchiate con la sua povertá” (2Cor 8, 9). È l’annichilimento, la kenosis di Cristo (Fil 2, 6-11). Ma egli non assume evidentemente la condizione di peccato, con tutte le sue conseguenze, per idealizzarla ma per amore e solidarietà con gli uomini che la soffrono, per redimerli dal peccato, per arricchirli con la sua povertà, per lottare contro l’egoismo degli uomini, contro tutto quanto divide gli uomini, contro tutto quello che provoca ricchi e poveri, proprietari e no, oppressori e oppressi. La povertà è un atto di amore e di liberazione, ed ha un valore redentivo. Se la causa ultima dello sfruttamento e della alienazione dell’uomo è l’egoismo, la ragione profonda della povertà volontaria è l’amore del prossimo. La povertà cristiana, allora, non può avere senso se non come un impegno di solidarietà coi poveri, con quelli che soffrono miseria e ingiustizia, al fine di testificare del male che esse, frutto del peccato, rottura di comunione, rappresentano. Non si tratta di idealizzare la povertà, ma, al contrario, di assumerla come essa è, cioè come un male, per protestare contro di essa e sforzarsi di soppimerla. Come dice P. Ricoeur, non si è realmente poveri se non lottando contro la povertà. (Gustavo Gutérrez, Teologia della liberazione).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 29 Ottobre 2017ultima modifica: 2017-10-29T22:26:26+01:00da fraternidade
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