Giorno per giorno – 28 Ottobre 2017

Carissimi,
“Quando fu giorno, Gesù chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli: Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d’Alfeo, Simone soprannominato Zelota, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore” (Lc 6, 13-16). Ne scelse dodici, ciascuno con la sua storia, quale che fosse (dato che Dio è di bocca buona), perché stessero con lui e si appassionassero del disegno del Padre e lui potesse poi inviarli per testimoniare a quanti si disponessero ad ascoltare con l’udito del cuore, la possibilità di un’altra maniera di esistere, che ha la sua fonte nell’agire trinitario (se ne sia consapevoli o meno), dove tutti si è dono uno all’altro, nell’amore. E questo ben oltre ogni peculiarità del linguaggio religioso, nella concretezza della vita. Il vangelo di oggi ci è proposto per via della memoria di due dei primi chiamati-inviati. Come in qualche misura siamo chiamati ad esserlo anche noi, coi nostri nomi e le nostre storie, quali che siano (dato Dio è di bocca buona).

Oggi è memoria di due dei Dodici: Simone Zelota e Giuda Taddeo, apostoli.

Simone, detto lo Zelota, originario di Cana di Galilea, appare nell’elenco degli apostoli assieme a Giuda, chiamato Taddeo. Il soprannome del primo lascia intendere che, prima di porsi al seguito di Gesù, appartenesse al partito degli “zeloti” (sostenitori della lotta armata contro l’occupazione straniera), o che, per lo meno, ne fosse stato simpatizzante. Giuda, secondo il Vangelo di Giovanni, è colui che durante l’ultima cena, a Gesù che diceva: “Ancora un po’ e il mondo non mi vedrà più, ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete” (v. 14,19) domanda: “Signore, perché mai ti manifesterai a noi e non al mondo?” (v. 22). Al che Gesù risponderà: Chi non ama non vive la mia Parola [e si chiude così ad ogni possibile manifestazione dell’amore] (cf v.24). Un’antica tradizione vuole che i due abbiano sofferto il martirio in Persia.

I testi che la liturgia propone alla nostra riflessione sono propri della festività odierna e sono tratti da:
Lettera agli Efesini, cap. 2,19-22; Salmo 19; Vangelo di Luca, cap.6,12-16.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura il brano di un testo del teologo greco Nicola Cabàsilas (1322-1397), tratto dal suo “Spiegazione della divina liturgia”, in cui commenta il dono della pace lasciato da Gesù ai suoi apostoli. È questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Dopo averci insegnato in quali disposizioni pregare, la Chiesa ci spiega perché occorre anzitutto chiedere la pace dell’alto e la salvezza. Cristo ci ha comandato di cercare prima il regno di Dio e la sua giustizia (Mt 6, 33). Il Regno significa appunto la salvezza, e la giustizia di Dio indica la pace che viene dall’alto. Paolo (Fil 4, 7) ci parla di questa pace che supera tutto quello che uno può immaginare. Il Signore ha lasciato questa pace agli apostoli prima di salire al Padre, dicendo: Vi lascio la pace, vi do la mia pace (Gv 14, 27). Nel vangelo, la parola giustizia non significa solo un’equa ripartizione, ma abbraccia ogni tipo di virtù. Allo stesso modo, il termine pace qui indica qualcosa di universale, frutto di tutte le virtù e di tutta la sapienza ascetica. Infatti, l’uomo sprovvisto di una sola virtù non potrà mai possedere la pace perfetta, raggiunta percorrendo l’itinerario di tutte le virtù. Dobbiamo esercitarci anzitutto nella pace che è a nostra portata, poi chiederemo a Dio la pace che è sua. Ciò vale per ogni virtù: vi è una temperanza che si conquista mediante l’ascesi, e una temperanza che l’anima riceve in dono da Dio. E cosi per tutte le virtù. La Chiesa, dunque, ci parla della pace che dipende da noi, frutto dei nostri sforzi, e con la quale rivolgiamo a Dio le nostre suppliche. Poi ci parla della pace che è dono di Dio e ci esorta a pregare Dio per riceverla. Nella divina liturgia, il sacerdote dice: “preghiamo per ottenere la pace dell’alto”. Egli non intende soltanto la pace con gli altri, che consiste nell’evitare vicendevoli dissapori, ma la pace con noi stessi, quando il cuore non ci condanna più. La pace è di somma utilità, anzi è indispensabile, perché se la mente è in subbuglio, non può comunicare in nessun modo con Dio, a motivo della sua agitazione. La pace, infatti, attua l’unità del molteplice, e l’agitazione frammenta l’uomo in mille parti. Come potrà un uomo disperso nel molteplice unirsi a Dio, che è uno e semplice? Colui che prega senza pace, non potrà farlo come conviene, e tanto meno raccogliere qualche frutto dalla sua preghiera. Se l’ira intorbida la mente o il rancore bandisce la pace dall’animo, uno non troverà nella preghiera il perdono delle sue colpe e ancor meno qualche altra grazia. D’altro lato, se uno ha la coscienza tormentata dalla colpa e sente il cuore accusarlo, costui, sotto l’effetto del turbamento interiore, mancherà di ogni sicurezza davanti a Dio, perché prega senza fede. (Nicola Cabàsilas, Spiegazione della divina liturgia).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 28 Ottobre 2017ultima modifica: 2017-10-28T22:25:06+02:00da fraternidade
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