Giorno per giorno – 16 Ottobre 2017

Carissimi,
“Questa generazione è una generazione malvagia; essa cerca un segno, ma non le sarà dato alcun segno, se non il segno di Giona. Poiché, come Giona fu un segno per quelli di Nìnive, così anche il Figlio dell’uomo lo sarà per questa generazione” (Lc 11, 29-30). Il segno di Giona era stata al tempo dei tempi, secondo il racconto, la parola di un oscuro profeta di un popolo nemico inviato ad annunciare la distruzione di Ninive ai suoi abitanti. Un segno di ben scarsa affidabilità, dunque, a cui c’era la possibilità di prestare o rifiutare ascolto. Il segno vero fu quello offerto dai niniviti a Giona, dandogli credito e decidendo di convertirsi da una vita malvagia, sperando così di poter mutare la sorte preannunciata. È ciò cui allude Gesù, nel rimproverare i suoi contemporanei (lo siamo tutti contemporanei di Gesù): “Nel giorno del giudizio, gli abitanti di Nìnive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché essi alla predicazione di Giona si convertirono. Ed ecco, qui vi è uno più grande di Giona” (v. 32). Anche lui, Gesù, armato solo della sua parola disarmata, che sarà poi la sua (di Dio) verità crocifissa, che ci chiama a convertirci ad essa, si consegna alla nostra scelta che può farne la propria ragione di vita o la sua negazione, anche e soprattutto, come spesso accade nella forma della religione. Che segno siamo disposti a dare noi a Dio, che ci chiama insistentemente ad essere testimoni del Regno, cioè della la vita come servizio e dono, amore fraterno, condivisione e perdono?

Il calendario ci porta oggi la memoria di Rabbi Nachman di Bretzlav, mistico ebreo, e di Agostino Thevarparampil, piccolo prete al servizio dei dalit, gli intoccabili.

Rabbi Nachman di Bretzlav, pronipote del famoso Baal Shem Tov, nacque il 4 aprile 1772 a Medzibor, e fu un alunno piuttosto distratto e svogliato. Sposatosi poco più che ragazzo, visse, da giovane, una fase di rigoroso ascetismo, rifuggendo da ogni piacere, praticando il digiuno e concentrando tutta la sua attenzione sul solo Nome di Dio. Riuscendo tuttavia a fare tutto ciò con genuina e profonda allegria dello spirito. Ben presto, la fama della sua santità gli attirò schiere di discepoli. Innamorato della natura, insegnava loro a contemplare Dio nella bellezza del creato e diceva: “Quando pregate nei campi, è tutto il mondo delle piante che viene in vostro aiuto e dá forza alle vostre preghiere” e ancora: “Venite, e vi mostrerò una nuova strada verso il Creatore. Non attraverso la parola, ma attraverso il canto! Cantiamo, e il Cielo ci comprenderà!”. Ma ammoniva anche: “Bada bene che tu sei là dove sono i tuoi pensieri. Fai attenzione che i tuoi pensieri siano dove tu vuoi essere”. Uno degli elementi centrali del suo insegnamento, era l’insistenza sul bisogno di essere sempre contenti, di non lasciarsi mai abbattere, di non avere mai paura. Spiegava che l’unico vero peccato è la tristezza e lo scoraggiamento che gelano il cuore di una persona che ha commesso un’infrazione morale o alla quale è successo qualcosa di brutto. La depressione è la radice di ogni peccato successivo, in quanto convince la persona di non essere capace di allontanarsi dalla falsa strada, di non essere capace di fare altro che errori, di non meritare nulla se non disgrazie e punizioni. Nel 1798, dopo un breve viaggio in terra d’Israele, si stabilì a Bretzlav, dove il suo insegnamento gli procurò la simpatia della gente più semplice, che egli invitava a servire Dio con la fede innocente dei bambini, ma anche l’avversione di numerosi altri rabbini. Amareggiato da tali dispute, si trasferì a Uman, dove, l’anno seguente, durante la festa di Sukkot, il 18 Tishri 5571 (16 ottobre 1810), morì di tubercolosi, all’età di 38 anni, senza nominare un successore. Il suo insegnamento e la sua figura, lungi dall’essere dimenticati, continuarono a ispirare le successive generazioni e, ancora oggi, migliaia di pellegrini si recano ogni anno sulla sua tomba a Uman.

Agostino Thevarparampil era nato a Ramapuram, nello stato indiano del Kerala, il l° aprile 1891. Terminati gli studi, era entrato in seminario e fu ordinato sacerdote il 17 dicembre 1921. Da allora il suo nome sarebbe stato solo Kunjachan, che nella lingua malayam significa “piccolo prete”, a causa della sua bassa statura. Dopo un breve periodo in cura d’anime a Kadanad, nel marzo 1926 fece ritorno a Ramapuram. Qui venne a contatto con il mondo degli ‘intoccabili’, gli appartenenti alle classi sociali più basse, quelli che Gandhi chiamava Harijan, figli di Dio, che oggi vengono detti Dalit. Agostino decise di dedicare la sua vita per migliorare le loro condizioni e per evangelizzarli. Uomo di preghiera, amante della vita semplice e povera della sua gente, visse in mezzo a loro per quasi mezzo secolo, morendo, dopo una grave malattia, il 16 Ottobre 1973.

I testi che la liturgia propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera ai Romani, cap. 1, 1-7; Salmo 98; Vangelo di Luca, cap.11, 29-32.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

Oggi si celebra la Giornata mondiale dell’Alimentazione, con cui la FAO (Food and Agriculture Organisation) ricorda, ogni anno, la data della sua fondazione, avvenuta il 16 ottobre 1945. Vuole richiamare la nostra attenzione sul dramma della fame, della denutrizione, della sottoalimentazione e delle malattie che ne derivano. Le stime più recenti portano il numero di persone che soffrono la fame a circa 935 milioni. Diversi studi indicano che la fame nel mondo non è determinata dall’aumento della popolazione, né da un’insufficienza nella produzione di alimenti, dato che il processo della modernizzazione agricola, conosciuto come la Rivoluzione Verde, ha permesso un aumento dell’offerta mondiale di alimenti pro capite. Il grande problema della fame è conseguenza invece dell’aumento dei prezzi dei prodotti agricoli e del basso reddito di ampie fasce della popolazione.

“C’era il coprifuoco per tutta Roma, e una bella notte, eravamo a casa, saranno state le tre o le quattro del mattino, quando si cominciò a sentire un rumore, un vociare. Nel ghetto dove abitavamo, i palazzi si affacciavano su una via lunga e stretta, così sporgendosi dalla finestra mio padre vide molte famiglie ebree scendere in strada coi tedeschi. Venivano portati via. La gente usciva anche dal nostro portone, presto ci rendemmo conto di quello che stava succedendo: i tedeschi stavano portando via tutti. La nostra casa era grandissima, c’erano quattro stanze, i soffitti alti, erano belle, bellissime case, e grandi, c’erano poi due stanze, delle quali una entrava dentro l’altra, per cui pensammo di metterci tutti in quest’ultima stanza, lasciando tutto aperto, così se i tedeschi entravano avrebbero visto una casa vuota, disabitata. E così abbiamo fatto. Ma a quel punto mia sorella, la più piccola, mentre noi stavamo dietro le persiane a guardare quello che succedeva, presa dal panico è scappata, è scesa giù (abitavamo al terzo piano), e all’ultima rampa di scale, prima di uscire, trovandosi due tedeschi davanti, ha avuto paura ed è tornata indietro verso di noi. Questi l’hanno seguita, e così ci hanno trovato”. È il ricordo che Settimia Spizzichino ci ha lasciato di “quella mattina” del 16 ottobre 1943, quando, alle cinque e trenta, ebbe inizio il Rastrellamento degli ebrei di Roma ad opera delle truppe naziste. Dei 1024 ebrei, uomini, donne, vecchi, ragazzi, bambini, inviati ad Auschwitz, solo 16 sopravvissero, di cui un’unica donna, Settimia Spizzichino, appunto. Nessuno degli oltre 200 bambini. Sarà bene ricordarsene, se è vero com’è vero che “Non c’è futuro senza memoria. Coloro che non hanno memoria del passato sono destinati a ripeterlo”.

Bene, noi ci si congeda qui, lasciandovi alla lettura di una citazione di Rabbi Nachman di Bretzlav, tratta da “Chayey Moharan”, la biografia che ne scrisse il suo discepolo Rabbi Nathan e che è, perciò, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
In questo mondo molte persone di poca sostanza sono considerate grandi, mentre il merito genuino non è riconosciuto. Ci sono molti e diversi tipi di vita. Alcuni conducono una vita assai agitata, anche se questo non sempre è percepito dall’esterno. Ci sono diversi gradi di vite agitate. La sofferenza di una persona non è mai come quella di un’altra. Anche la vita di una persona che non sopporta una reale sofferenza non può necessariamente essere paragonata a quella di qualcun altro in una categoria simile, perché le varie forme di vita differiscono notevolmente l’una dall’altra. Non si puó paragonare la vita di un cavallo a quella di un uomo. Proprio come ci sono enormi differenze tra le forme di vita sul piano fisico, così ci sono grandi differenze nella qualità della vita spirituale delle persone.La vera vita consiste nel dilettarsi in Dio. Alcune persone ci arrivano già in questo mondo; altre non ci arrivano proprio. La vita spirituale contiene la stessa molteplicità di gradazioni che esiste a livello della vita fisica. (Rabbi Nathan of Breslov, Chayey Moharan, 400).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 16 Ottobre 2017ultima modifica: 2017-10-16T22:58:48+02:00da fraternidade
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