Giorno per giorno – 01 Ottobre 2017

Carissimi,
“Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo gli disse: Figlio, va’ oggi a lavorare nella vigna. Questi rispose: Sì, signore! Ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre? Dicono: L’ultimo” (Mt 21, 28-31). Quei due figli, ci dicevamo stamattina, durante la celebrazione in monastero, sono, di volta in volta, ciascuno di noi, oltre che essere gli uni o gli altri di una comunità, una chiesa, una società che si pretenda cristiana, l’intera storia del cristianesimo, o semplicemente due tipi umani, che è possibile rintracciare ovunque. Ma, restiamo a noi. “Lavorare nella vigna” è la missione che ci è affidata come cristiani: annunciare e testimoniare il Regno, così come ci è stato rivelato in Gesù. Che è un po’ l’invito che ci è rivolto alla fine della celebrazione eucaristica, tradotto malamente “Andate, la messa è finita”, quando significa invece: “Andate, è l’invio, la missione”. Quindi, non finisce niente, semmai comincia. E, invece, noi, ci si ferma all’andare. Andiamo, sì, ma a testimoniare che cosa? Spesso proprio il contrario di ciò che abbiamo appena celebrato, il dono di Cristo a noi, e, in forza del “Fate questo in memoria di me”, il dono di noi agli altri. Capita, però, grazie a Dio, anche il contrario: che ci si proponga in cuor nostro di fare altro, di fare come pare che facciano tutti, vivere secondo la logica del massimo vantaggio personale. E che poi, però, a metà cammino, ci si penta, si senta nostalgia della bella cosa che era andare sui passi di Gesù, che, tra l’altro, come per miracolo, vediamo testimoniata da persone che, di Gesù, sanno proprio nulla, anzi, a volte, neppure vogliono sentirne parlare, tanto negativo è ciò che gli è stato veicolato in proposito da quanti avrebbero dovuto farli appassionare di lui con la forza dell’esempio. Nella parabola non è menzionato, ma è sottinteso, un terzo neppure tanto ipotetico figlio: quello che, inviato, dice: vado e va. Semplicemente. Come il figlio che è Gesù. Come siamo insistentemente invitati ad essere anche noi, quale che sia il nostro passato, di esecutori formali di una Legge, dimentica della misericordia, o, ma è poi la stessa cosa, di trasgressivi esattori di imposte non dovute, o cultori di una religione ridotta a meretricio, a scambio di favori. E sarà stata comunque una grazia, se la luce divina ce ne farà consapevoli, perché, pentiti gli uni e gli altri, fuggendo ogni giudizio sull’altrui operato, saremo messi in grado di testimoniare l’azione della grazia, nel nostro metterci silenzioso al servizio degli altri, a partire dagli ultimi. E sarà il dispiegarsi del Regno.

Bene, i testi che la liturgia di questa XXVI Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Ezechiele, cap. 18, 25-28; Salmo 25; Lettera ai Filippesi, cap. 2, 1-11; Vangelo di Matteo, cap. 21, 28-32.

La preghiera della Domenica è, come sempre, in comunione con le Chiese cristiane delle differenti denominazione ed è volta ad ottenere il dono dell’unità.

Oggi facciamo memoria di Teresa del Bambino Gesù, “piccola” sulla strada dell’Evangelo, e Jacques Fesch, convertito, contemplativo.

Teresa Martin, nacque ad Alençon, in Francia, il 2 gennaio 1873, in una famiglia profondamente religiosa. A 14 anni, manifestò l’intenzione di seguire le sue due sorelle, Paolina e Maria, nella vita del Carmelo. Superando tutti gli ostacoli che si opponevano alla sua precoce vocazione, riuscì ad entrare nel Carmelo di Lisieux l’anno seguente (1888), dove prese il nome di Teresa del Bambino Gesù e del Volto Santo. Come spesso, tuttavia, accade, la realtà che incontrò era lontana da essere quella idealizzata. Vi circolavano meschinità, tiepidezza, sgarbi e storture, ma la giovanissima monaca riescì a tenersi fuori dal gioco del risentimento e della sterile polemica. Intuì che non è criticando le consorelle che sarebbe riuscita a migliorare l’atmosfera del monastero, ma accettando la scommessa di farsi santa, esigendo da sé niente meno che tutto. Con semplicità e una buona carica di auto-ironia. La “via” è quella dell’infanzia spirituale: riconoscere la propria piccolezza, abbandonandosi con fiducia alla bontà di Dio, come un bambino tra le braccia della madre. Le prove spirituali che Teresa affrontò durante la sua vita nascosta – la “notte della fede”, il vuoto spirituale, la tentazione dell’incredulità – la rendono vicina a quanti conoscono l’angoscia del dubbio e della mancanza di fede. La sua fragile salute non gli permise di resistere ai rigori della vita di clausura. La sera del 30 settembre 1897, a 24 anni, Teresa morì di tubercolosi, unendo le sue sofferenze a quelle di Cristo sulla croce.

Jacques Fesch era nato a Saint-Germain-en-Laye, il 6 aprile 1930, figlio, come si dice, di buona famiglia. Ma, anche, una testa calda. Irrequieto, indisciplinato, ribelle, finì con l’essere espulso da scuola. A diciassette anni incontrò Pierrette Polack, dalla relazione con la quale nascerà una figlia, Veronica, e che, raggiunta la maggior età, deciderà, piuttosto riluttante, di sposare, nel giugno del 1951. Terminato il servizio militare, Fesch scoprì che lavorare non era proprio la sua vocazione. In compenso amava spendere. Un giorno, un amico gli prospettò l’idea di un’avventura per mare, in una vita libera da impegni, doveri, convenzioni. Ma, ci voleva una barca e la barca costava tanto. Si poteva comunque rimediare con una rapina. Fu così che il 18 febbraio 1954, a Parigi, prese quella che gli sembrava la decisione giusta: assaltare l’agenzia di cambio di un tale Sylberstein. Senza troppo successo, però, perché, questi fece a tempo a chiamare la polizia. Fesch fuggì, ma, per fermare l’agente che lo inseguiva, gli sparò e lo uccise. Senza che questo gli evitasse di essere arrestato, subito dopo. Il carcere fu, in ogni caso, la sua via di Damasco. Fu lì, infatti, che incontrò, improvvisamente e imprevistamente, Dio. Della ricchezza di questo incontro ci lasciò testimonianza nel diario steso negli ultimi mesi di vita. Fu condannato a morte il 6 aprile 1957. Pochi giorni prima dell’esecuzione, dopo aver letto “Storia di un’anima” di Teresa di Lisieux, aveva scritto: “Che graziosa piccola santa, come ci è vicina! Attraverso la ‘piccola via’, bisogna che giunga ad elevarmi. Offrire le più piccole cose che non sono troppo dure. Come il mio tabacco”. Ricordando poi che la santa aveva pregato intensamente per la conversione di un tal Pronzini, condannato a morte, scrisse ancora: “Ha salvato l’anima di un condannato a morte. Il mio caso è troppo simile al suo perché non se ne occupi”. Avrebbe voluto morire il 3 ottobre, giorno in cui allora si celebrava la memoria di Teresa di Lisieux. Fu ghigliottinato invece il 1º Ottobre 1957. Qualche anno più tardi, però, con la riforma del calendario, la memoria della santa fu fatta coincidere con la data liturgica della sua morte, sicché i due finirono per ritrovarsi accomunati. Con reciproca soddisfazione, presumibilmente.

Oggi, se ci fosse il vecchio Pedro (ma, a suo modo, c’è), avremmo ricordato la sua professione monastica, avvenuta nel 1945, il giorno della memoria della piccola Teresa (che a quel tempo era celebrata il 3 di ottobre): i due, nonostante le apparenze che li facevano così irrimediabilmente diversi, avevano tutto a che vedere l’uno con l’altra. E soprattutto con Quello che li aveva sedotti. Complimenti, Pedro! Se, per il mistero della comunione dei santi, ti resta del tempo libero, dai un’occhiata giù alla tua gente di Goiás. E ai suoi amici.

Per stasera è tutto. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un brano di Teresa di Lisieux., tratto dallo Scritto autobiografico C. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Come è grande la potenza della preghiera! La si direbbe una regina la quale abbia ad ogni istante libero àdito presso il re e possa ottenere tutto ciò che chiede. Non è affatto necessario per essere esaudite leggere in un libro una bella formula composta per la circostanza; se così fosse, ahimè! come sarei da compatire! Al di fuori dell’Ufficio divino, che sono indegnissima di recitare, non ho il coraggio di sforzarmi a cercare nei libri le belle preghiere: ciò mi fa male alla testa, ce ne sono tante! E poi sono tutte belle, le une più delle altre. Non ce la farei a dirle tutte, e, non sapendo quale scegliere, faccio come i bimbi che non sanno leggere, dico molto semplicemente al buon Dio quello che gli voglio dire, senza far belle frasi, e sempre mi capisce. Per me la preghiera è uno slancio del cuore, è un semplice sguardo gettato verso il Cielo, è un grido di gratitudine e di amore nella prova come nella gioia, insomma è qualche cosa di grande, di soprannaturale, che mi dilata l’anima e mi unisce a Gesù. Non vorrei però, Madre cara, farle credere che io reciti senza devozione le preghiere in comune, nel coro o negli eremitaggi. Al contrario, amo molto le preghiere in comune, perché Gesù ha promesso di “trovarsi in mezzo a coloro che si riuniscono nel suo nome”; sento allora che il fervore delle mie sorelle supplisce al mio. Ma da sola (ho vergogna di confessarlo), la recita del rosario mi costa più che mettermi uno strumento di penitenza. Sento che lo dico così male! Ho un bell’impegnarmi nel meditare i misteri del rosario, non arrivo a fissare il mio spirito. Per lungo tempo mi sono afflitta per questa mancanza di devozione che mi meravigliava, perché amo tanto la Vergine Santa, tanto che mi dovrebbe esser facile fare in onor suo le preghiere che le piacciono. Ora me ne cruccio meno, penso che la Regina dei Cieli è mia madre, vede certo la mia buona volontà e se ne contenta. Qualche volta, se il mio spirito è in un’aridità così grande che mi è impossibile trarne un pensiero per unirmi al buon Dio, recito molto lentamente un Padre nostro e poi il saluto angelico; allora queste preghiere mi rapiscono, nutrono l’anima mia ben più che se le avessi recitate precipitosamente un centinaio di volte. La Santa Vergine mi mostra che non è affatto sdegnata con me, non manca mai di proteggermi appena l’invoco. Se mi sopravviene una preoccupazione, una difficoltà, subito mi volgo a lei, e sempre, come la più tenera delle madri, ella prende cura dei miei interessi. (Teresa di Lisieux, Scritto autobiografico C, 317-318).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 01 Ottobre 2017ultima modifica: 2017-10-01T22:01:37+02:00da fraternidade
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