Giorno per giorno – 30 Settembre 2017

Carissimi,
“Mentre tutti erano pieni di meraviglia per tutte le cose che faceva, Gesù disse ai suoi discepoli: Mettetevi bene in mente queste parole: il Figlio dell’uomo sta per essere consegnato in mano degli uomini. Ma essi non comprendevano questa frase; per loro restava così misteriosa, che non ne comprendevano il senso” (Lc 9, 43b-45). Gesù, subito dopo la confessione di Pietro, che aveva riconosciuto in lui il messia, aveva fatto già un primo annuncio di ciò che gli sarebbe presto accaduto, anche per correggere in tempo le false aspettative che potessero nutrire in cuor loro i discepoli, sulla scorta delle antiche profezie, circa la figura, la missione e, perché no, il successo dell’inviato da Dio. Poi c’era stato, per i tre che erano saliti con Gesù sul monte, il “colloquio” di lui con Mosè ed Elia sulla “dipartita che egli avrebbe portato a compimento a Gerusalemme” (Lc 9, 31). Ora, nuovamente, e con maggior insistenza, Gesù chiede ai discepoli di concentrarsi su questo fatto: la sua consegna nelle mani degli uomini. Noi fatichiamo a capirlo anche dopo duemila anni. Prigionieri come siamo dell’immagine sacrificale che ci è stata a lungo inculcata, che fa di Gesù la vittima esigita dal Padre per perdonare i nostri peccati. E di un padre così ne faremmo volentieri a meno. Dato che qualunque padre umano, quand’anche cattivo, saprebbe essere più longanime nel perdonare, senza pretendere un tal prezzo. Gesù sa che l’amore, inevitabilmente, perde in un orizzonte in cui ciò che conta è il potere in tutte le sue forme e vuole farci sapere che in questa perdita, in questa sconfitta, del Figlio dell’uomo, di ogni figlio di uomo, è implicato Dio, non come autore della sconfitta – secondo una certa visione religiosa – , ma come vittima, che liberamente si consegna in solidarietà con tutte le vittime, senza opporre violenza a violenza, nella speranza di porre fine ad essa. L’amore muore, sí, ma l’amore, anche, vince. Perché non cede alla logica della violenza né allo spirito di vendetta, che ne segnerebbe la negazione, l’affermazione del piú vero ateismo, la fine del Dio amore. Quale Dio noi testimoniamo ogni giorno, con le nostre parole, gesti, azioni e omissioni? Con chi ci sentiamo e testimoniamo solidarietà? Con il Dio che si consegna all’abbraccio dei poveri, o che arma il braccio dei potenti?

Oggi è memoria di Girolamo, monaco al servizio della Parola e padre della Chiesa. Il martirologio latinoamericano ricorda Jorge Luis Cerrón, universitario, martire dela solidarietà tra i giovani e i poveri, a Huancayo, in Perù.

Nato nel 347 da genitori cristiani a Stridone, tra la Dalmazia e la Pannonia, Sofronio Eusebio Girolamo compì a Roma gli studi di grammatica, retorica e filosofia. Ricevuto il battesimo, da papa Liberio, si recò a Treviri, nelle Gallie, per perfezionare gli studi teologici. Nel 373 fu ad Aquileia e poi ad Antiochia di Siria, che lasciò per stabilirsi come eremita nel deserto di Calcide, portandosi tuttavia appresso tutta la sua ricchissima biblioteca. Fu in questo periodo che Girolamo studiò l’ebraico e maturò il suo tormentato distacco dalla vita mondana e dalla cultura classica. Lui stesso in una lettera racconta di essersi trovato in sogno di fronte ad un giudice che gli chiedeva conto della sua identità ed avendogli egli risposto di essere cristiano, si sentì replicare: “Bugiardo, tu sei ciceroniano, non cristiano”. Si diede perciò ad una vita di preghiera, di studi rigorosi e di penitenza e venne ordinato sacerdote. Tornato a Roma nel 382, fu nominato segretario di papa Damaso, che lo incaricò della traduzione della Bibbia in latino, a partire dai testi originali. La sua traduzione è conosciuta ancora oggi come “Vulgata”. Ma non fu solo uno studioso. Fondò un luogo di preghiera e di studio rigoroso delle Sacre Scritture, in cui si impegnarono alcune donne dell’aristocrazia romana, tra cui Marcella, Paola e la figlia di quest’ultima, Eustochio, tutte desiderose di vivere la fede cristiana in maniera non banale. Cosa non facile, dopo che l’imperatore Teodosio aveva fatto del cristianesimo la religione di stato, spalancando le porte della Chiesa ad ogni pratica di corruzione e di opportunismo. Fenomeni che Gerolamo non esitò a denunciare e combattere con passione e veemenza. Alla morte di Damaso, nel 384, Girolamo sperò, forse, ma inutilmente, di succedergli. Fece allora ritorno in Palestina, a Betlemme, accompagnato da Paola ed Eustochio, con cui fondò un monastero maschile e uno femminile, oltre ad un ospizio per i pellegrini. Di carattere irruento e intrattabile entrò in polemiche dottrinali, non senza venature personali e accenti d’intolleranza, con molti grandi del suo tempo, compresi Giovanni Crisostomo, Ambrogio, Basilio e Agostino. Lasciò numerose opere scritte (lettere, trattati di esegesi, commenti biblici…). I suoi difetti temperamentali non sminuiscono in ogni caso la grandezza della sua opera. È chiamato “Dottore massimo delle Scritture”. Morì a Betlemme nel 420.

Jorge Luis Cerrón era uno studente universitario di 24 anni, prossimo a laurearsi in ingegneria agraria, all’università di Huancayo, capoluogo della regione di Junin e della provincia di Huancayo, in Perù, quando fu assassinato, il 30 settembre 1991, da una formazione di Sendero Luminoso. Il fatto che fosse membro attivo della Pastorale Giovanile e della Commissione arcidiocesana di Azione Sociale, oltre che, per la sua specialità di agronomo, collaboratore della Caritas nell’appoggio ai contadini e al Club delle madri, costituì motivo sufficiente perché Sendero Luminoso lo condannasse a morte. I compagni lo ricordano come umile, generoso, instancabile amico, con un’inesauribile riserva di buon umore per sollevare gli spiriti. Quando la violenza della repressione governativa o quella di Sendero Luminoso si scatenano, Jorge Luis è sempre pronto nella difesa della giustizia e della vita. E lo fa, senza timore, pubblicamente. Le sue riflessioni e le sue poesie sulla realtà sociale e il modo di essere cristiani sono ben noti nella cerchia degli amici.Al suo funerale, presieduta dall’Arcivescovo di Huancayo, sono presenti i contadini, i suoi coetanei, le madri. Con il cuore a pezzi, portano a spalle la bara di Jorge Luis, come fosse un trofeo, lungo quindici isolati, fino a il cimitero. Dove la paura ancora paralizza, serve il il suo esempio di martire per la causa di Gesù, che è la causa dei suoi fratelli, a rianimare e dare forza.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Profezia di Zaccaria, cap.2, 5-9. 14-15a; Ger 31, 10-13; Vangelo di Luca, cap.9, 43b-45.

La preghiera del sabato è in comunione con le comunità ebraiche della diaspora e di Eretz Israel.

Da ieri sera, al tramonto, i nostri fratelli ebrei sono entrati nel 10 del mese di Tishri, quando si celebra Yom Kippur, il “Giorno del Perdono”, Shabbat shabbaton, il “Sabato dei sabati”, la maggior festività giudaica, quella di cui il libro del Levitico dice “In quel giorno si compirà il rito espiatorio per voi, al fine di purificarvi; voi sarete purificati da tutti i vostri peccati, davanti al Signore” (Lv 16, 30). È durante questa festa, che, nel kodesh ha-kodashim, il “Santo dei santi” del Tempio, per una sola volta durante l’anno, il sommo sacerdote, pronunciava il Nome di Dio (Jhwh), invocando per tutto il popolo il perdono dei peccati. L’intera giornata, ancora oggi, è caratterizzata dall’astensione da ogni tipo di lavoro, dal digiuno e dalla preghiera che, in sinagoga, dura quasi senza interruzione da mattina a sera. L’augurio che ci si scambia oggi è: “G’mar Hatimah Tovah” letteralmente “Un buon sigillo finale”, intendendo: “Possa tu essere inscritto nel Libro della Vita”. Amen!

Ed è tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un testo di san Girolamo, tratto dal suo “Commento al Vangelo di Marco”. Che è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Chi si ferma alla lettera della Scrittura, rimane fisso al suolo; guarda in giù come animale privo d’intelligenza e non può vedere Gesù nelle sue vesti candide. Chi invece segue la parola di Dio, sale sul monte, perché si eleva verso le realtà più alte; davanti a lui Gesù si trasfigura e le sue vesti diventano splendenti. Se ci fermiamo alla lettera, che vi è di scintillante, di splendido, di sublime in quello che leggiamo? Se invece ci mettiamo a leggere secondo lo spirito, le vesti delle parole da cui è avvolta la Scrittura, si illuminano d’un tratto e luccicano candide come neve: “nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle cosi bianche” (Mc 9, 3 ). Considera una qualsiasi profezia o parabola evangelica. Se leggi restando attaccato alla lettera, che avrà di luminoso o di sfavillante? Ma se ponendoti alla sequela degli apostoli, cerchi di cogliere lo spirito del testo, le parole che rivestono la Scrittura si trasfigurano d’un tratto e divengono luminosissime. Se gli apostoli non avessero veduto Gesù trasfigurato con le vesti d’una bianchezza sfolgorante, non avrebbero nemmeno potuto scorgere Mosè ed Elia che parlavano con lui. Finché comprendiamo la Scrittura secondo la lettera che uccide non vediamo Mosè ed Elia discorrere con Gesù, poiché essi non possono conoscere il vangelo. Chi invece segue il Signore e merita di contemplarlo trasfigurato con le vesti sfolgoranti, questi comprende secondo lo spirito quello che sta scritto. Allora, ecco venire Mosè ed Elia, cioè la legge e i profeti, a parlare con Gesù, cioè con il vangelo. “Essi parlavano della sua dipartita, che avrebbe portato a compimento a Gerusaleme” (Lc 9, 31) vuoi dire che la legge e i profeti annunziano la passione del Signore. Vedi quanto è importante capire la Scrittura secondo lo spirito? […] Quando leggi Mosè ed Elia, cioè la legge e i profeti, ma non intendi in Cristo ciò che hanno scritto, non puoi capire che annunziano la passione del Signore. […] Se leggo il Pentateuco fermandomi al senso letterale, precipito in basso; ma se lo comprendo secondo lo spirito, salgo sulle vette. Osserva come i tre discepoli, quando si accorgono di stare sul monte, cioè di capire secondo lo spirito, disprezzano le realtà terrene e umane, mentre desiderano le verità celesti e divine. Non vogliono più scendere in terra, ma permanere nel mondo dello spirito. “Maestro, è bello per noi stare qui” (Lc 9, 33 ). Anch’io, quando leggo le Scritture e le capisco secondo lo spirito, non voglio più scendere in basso; anelo a piantare nel mio cuore una tenda per Cristo, una per la legge, una per i profeti. (Girolamo, Commento al Vangelo di Marco).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 30 Settembre 2017ultima modifica: 2017-09-30T22:58:59+02:00da fraternidade
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