Giorno per giorno – 21 Settembre 2017

Carissimi,
“Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli.Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?” (Mt 9, 10-11). Festa di Matteo, il gabelliere, che si sente raggiunto dallo sguardo amante di Gesù, prima di aver avuto il tempo di pentirsi di qualcosa. Il figlio prodigo della parabola conobbe l’amore del padre solo dopo averne sperimentato l’abbraccio gratuito, al suo [interessato] ritorno a casa. Del figlio maggiore, che pure non se ne era mai allontanato, non ci è dato sapere se finì per conoscerlo anche lui. Il fatto è che è solo quando ci si sente amati, nonostante tutto, indipendentemente da meriti e demeriti, che si riesce a superare il proprio egoismo che mette sempre noi stessi al centro come criterio per la ricerca della felicità, e ci si converte allora all’amore, che non giudica più né si sente giudicato. Chi si sente giudicato e/o giudica non ha ancora fatto l’esperienza dell’Abba di Gesù. Per questo vale il suo l’ammonimento, scandaloso all’orecchio dei religiosi di ogni tempo: “i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21, 31). È troppo grande la gioia della scoperta per avere tempo di misurare quello che a torto si ritiene l’eccesso di grazia che Dio può riservare agli altri. Quando si misura è perché in fondo si apprezza ancora (fino a provarne invidia) la [falsa] libertà del peccato, e si sente come un peso la compagnia del Padre, scegliendo così di allontanarsene o limitandosi, sotto il manto di una falsa obbedienza, a sopportarla. Chiesa di peccatori perdonati, quella di Matteo, si apre all’abbraccio dei peccatori inconvertiti e con questo li converte. I religiosi, dal canto loro, non mancheranno di fare le pulci: Sì, ma la legge, allora, c’è per chi? La legge c’è per farti scoprire che c’è ciò che la supera: l’amore. “Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio” (v. 13).

Oggi il calendario ci porta le memorie di Matteo, apostolo ed evangelista, del gesuita Gabriele Malagrida, apostolo del Brasile; e di Rosario Livatino, martire della giustizia in tempi di mafia.

Matteo-Levi è uno dei Dodici, tradizionalmente considerato l’autore del primo dei vangeli canonici. Figlio di Alfeo, prima della sua conversione, era pubblicano, cioè esattore delle imposte per conto dei romani. Mentre stava seduto al banco dell’esattoria, Gesù lo vide e gli disse: “Seguimi”. E lui si alzò e lo seguì. Si ritiene che la sua attività apostolica si sia limitata, almeno in un primo momento, alla Palestina, o che, comunque, si sia diretta a una comunità di giudei cristiani, nell’ambito della quale sarebbe poi stato redatto il Vangelo che porta il suo nome. Una tradizione indica l’Etiopia come suo successivo campo di missione, altre tradizioni suggeriscono la Persia. Forse morì martire.

Gabriele Malagrida nacque a Menaggio, sul lago di Como, il 6 dicembre 1689. Entrato nella Compagnia di Gesu nel 1711, dopo alcuni anni di insegnamento a Bastia, in Corsica, ottenne di partire per il Brasile, nel 1721, dove per molti anni svolse il suo ministero nelle missioni del Pará e del Maranhão. Per dodici anni percorse oltre seimila chilometri, in gran parte a piedi, lungo un itinerario che lo portò fino a Salvador de Bahia e gli fece attraversare sulla via del ritorno gli attuali stati di Sergipe, Alagoas, Pernambuco, Paraíba e Ceará. Fu una grande marcia al servizio del Vangelo, durante la quale predicò, battezzò, confessò, fondò conventi e costruì chiese, ma soprattutto denunciò le soperchierie dei ricchi, difese i diritti degli indios, protesse emarginati, poveri e prostitute, condividendo con loro uno stile di vita povero e austero. Recatosi per un breve soggiorno a Lisbona nel 1750, vi fece ritorno nel 1754, chiamato a corte e accolto da uno moltitudine di fedeli, presso i quali si era diffusa la fama della sua santità. Sfortunatamente questo suo soggiorno coincise con la salita al potere, nel 1756, di Sebastião José de Carvalho e Melo, il famigerato marchese di Pombal, nelle cui mani si venne concentrando tutto il potere del Portogallo di Dom José I e che era nemico giurato delle missioni e dei gesuiti. Due opuscoli piuttosto farneticanti, attribuiti all’anziano gesuita, in cui si sosteneva che il terribile terremoto del 1° Novembre 1755 che aveva distrutto Lisbona era da considerarsi un castigo divino, offrì il pretesto al marchese di Pombal per ordinarne l’arresto e istituire successivamente un processo presso la santa Inquisizione. I giudici, legati a filo doppio al potente ministro, condannarono il gesuita, come visionario ed eretico, consegnandolo al braccio secolare per essere strangolato e bruciato sulla pubblica piazza. Il che avvenne il 21 settembre 1761. L’anno seguente, papa Clemente XIII lo beatificò e proclamò “martire della chiesa e apostolo del Maranhão”.

Rosario Angelo Livatino era nato a Canicattì (Agrigento) il 3 ottobre 1952, da Vincenzo e Rosalia Corbo. Giovane di Azione Cattolica, dopo gli studi classici, si iscrisse alla Facoltà di Giurisprudenza a Palermo, laureandosi “cum laude” nel 1975. A ventisei anni, nell’estate del 1978, dopo essersi classificato tra i primi in graduatoria nel concorso per uditore giudiziario, entrò in magistratura presso il Tribunale di Caltanissetta. Nel 1979 diventò sostituto procuratore presso il tribunale di Agrigento e ricoprì la carica fino al 1989, quando assunse il ruolo di giudice a latere. In breve, il giovane magistrato venne acquisendo una conoscenza approfondita del fenomeno mafioso e delle sue trame, infiltrazioni, connessioni e collusioni, nei più diversi ambiti, istituzionale, economico-finanziario, politico, massonico, e operò conseguentemente, mettendo a segno numerosi colpi nei confronti dell’organizzazione mafiosa, anche attraverso lo strumento della confisca dei beni. Venne ucciso il 21 settembre del 1990 mentre si recava, senza scorta, in tribunale, per mano di quattro sicari assoldati dalla Stidda, un’organizzazione mafiosa attuante nell’agrigentino. Pochi giorni prima, Cossiga, l’ineffabile Presidente della Repubblica di allora, da sempre vicino ai poteri occulti, aveva dichiarato, con evidente allusione: “Possiamo continuare con questo tabù, che poi significa che ogni ragazzino che ha vinto il concorso ritiene di dover esercitare l’azione penale a diritto e a rovescio, come gli pare e gli piace, senza rispondere a nessuno? Non è possibile che si creda che un ragazzino, solo perché ha fatto il concorso di diritto romano, sia in grado di condurre indagini complesse contro la mafia e il traffico di droga. Questa è un’autentica sciocchezza! A questo ragazzino io non gli affiderei nemmeno l’amministrazione di una casa terrena, come si dice in Sardegna, una casa a un piano con una sola finestra, che è anche la porta”. Ma il “giudice ragazzino” tirò dritto per la sua strada, fino a dare la vita. Un giorno aveva detto: “Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili”. Beh, lui lo è stato, a prezzo della vita.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1ª Lettera a Timoteo, cap. 4, 12-16; Salmo 111; Vangelo di Luca, cap.7, 36-50.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

Da ieri sera al tramonto, per i nostri fratelli ebrei, è il 1° di Tishri dell’anno 5778 (dalla creazione del mondo), e perciò Rosh haShanah, Capodanno. È una festa che dura due giorni e ricorda la creazione di Adamo ed Eva, e, in essi, di ciascuno(a) di noi: occasione per chiederci che cosa abbiamo fatto finora della nostra vita e, più specificamente, dell’anno che abbiamo alle spalle. Il precetto centrale che riguarda questa festa è il suono dello shofar, il corno d’ariete, che chiama i fedeli a pentirsi e a imboccare la strada del ritorno, la teshuvah. Rosh haShanah è anche il primo dei cosiddetti iamim noraim”, i dieci “giorni terribili”, una specie di full immersion nella preghiera e nella penitenza, che culmineranno nello Yom Kippur, il Giorno dell’Espiazione, la maggior festa del calendario ebraico. In cui Dio, augurabilmente, pronuncerà la sua parola di perdono.

Per il Sanatana Dharma (quello che impropriamente è chiamato Induismo) comincia oggi, primo giorno del mese lunare di Asvina, Navaratri, la festa di “nove notti” (tale è il significato del nome) che celebra la Madre divina, sotto i nomi di Durga (che distrugge le tendenze negative), Lakshmi (che propizia l’acquisizione di ogni sorta di virtù) e di Sarasvati (che instilla sapienza e conoscenza spirituale). La novena culminerà, il 30 di settembre, nella festa di Dussehra, che celebra la sconfitta del re dei demoni Ravana da parte del Signore Rama. Beh, che oltre ogni simbolismo, questo possa essere vero per tutti noi!

Oggi 21 settembre si celebra la Giornata Internazionale della Pace, istituita dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 30 novembre 1981 con la risoluzione 36/67 che ne fissava la ricorrenza il terzo giovedì di settembre, spostata poi, a partire dal 2002, al 21 settembre di ogni anno. La giornata ha come scopo quello di sollecitare gli stati membri delle Nazioni Unite, le organizzazioni governative e non governative e gli individui, ad unirsi per far cessare le ostilità esistenti nel mondo e a commemorare la Giornata in maniera appropriata, sia attraverso l’educazione e una capillare azione di coscientizzazione sul tema della pace e della nonviolenza. La tematica scelta per la giornata mondiale di quest’anno è “Insieme per la pace: rispetto, sicurezza e dignità per tutti”, con una speciale attenzione sulla situazione critica dei rifugiati e dei migranti in tutto il mondo. “Il nostro obbligo, come comunità internazionale, è quello di assicurare che tutti coloro che sono costretti a fuggire dalle proprie case ricevano la protezione a cui hanno diritto secondo la legge internazionale. Il nostro compito, come famiglia umana, è quello di sostituire la paura con la gentilezza”.

Nel pomeriggio un buon gruppo dei nostri si è recato a Goiânia, per assistere, nell’Aula dell’Assemblea Legislativa, al conferimento del titolo di cittadino goiano al nostro padre Geraldo Nascimento. La proposta, partita dal deputato Karlos Cabral, è stata motivata dai ventanni spesi nella capitale dello Stato (e non solo) a servizio e in difesa di categorie da sempre collocate ai margini della società: giovani delle periferie, persone disabili, vittime della dittatura, minoranze sessuali. Fondatore con un gruppo di laici della Casa della Gioventù (CAJU), nel 1984, ne era stato allontanato dai superiori e trasferito a São Paulo, nel 2011, a causa delle ripetute minacce di morte, in seguito al contributo dato alla scoperta di un gruppo di sterminio della polizia militare. Che si spera non abbiano seguito, ora che, su richiesta del nostro vescovo al Provinciale dei gesuiti, egli ha fatto ritorno in questo Stato, e nella nostra città, come responsabile dello spazio dell’antico monastero. La festa è stata semplice e bella. Padre Geraldo, stretto nell’abbraccio riconoscente di tanta gente, ha dovuto farsi prestare all’ultimo momento una giacca (di un paio di misure in meno delle sue) per rispettare il cerimoniale.

Bene. È tutto, per stasera. Prendendo spunto dalla festa di Rosh haShanah, noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura un piccolo aneddoto sul tema, tratto dal libro di Martin Buber, “I racconti dei Chassidim” (Garzanti). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Rabbi Moshe il giorno dell’anno nuovo, prima di pregare diceva: “Una volta un re era in collera contro il suo popolo disobbediente e sedeva a giudizio. Ma nessuno osava farsi avanti e chiedergli pietà. Tra la folla era però il capo della rivolta. Questi sapeva che la sua testa era perduta. Si fece avanti e parlò al re. Così nei Giorni Terribili l’officiante si avvicina all’arca e prega per la comunità”. (Marin Buber, I racconti dei Chassidim).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle dela Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 21 Settembre 2017ultima modifica: 2017-09-21T22:10:25+02:00da fraternidade
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