Giorno per giorno – 04 Settembre 2017

Carissimi,
“C’erano molte vedove in Israele al tempo di Elia, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elia, se non a una vedova in Sarepta di Sidóne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo, ma nessuno di loro fu risanato se non Naaman, il Siro” (Lc 4, 25-27). Comincia oggi la lettura del vangelo di Luca, che ci accompagnerà per tre mesi fino alla soglia dell’Avvento. Nel brano ascoltato oggi, vediamo Gesù di ritorno nella sua terra, partecipare al culto sinagogale, leggere un brano della Scrittura, tratto dal libro di Isaia, e, a partire da questo, annunciare in cosa consisterà il suo ministero messianico: lo Spirito “mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4, 18-19). In questo credono, e questo assumono come forma della loro testimonianza, quanti confessano Gesù come Cristo. Questo dimostra anche quanto pochi siano stati e siano ancora i suoi discepoli. Dato che, come già i suoi concittadini, nell’ascoltarlo allora, anche molti dei suoi seguaci, lungo i secoli, di tutto erano e sono preoccupati, fuorché di seguirlo nel suo cammino. Erano e sono (siamo?) gente a caccia di prodigi, di favori, di grazie, come una qualsiasi clientela di personaggi potenti. E Gesù, provocatorio come sarebbe stato sempre, a replicare, additando qual è l’agire del Padre: se pensate che la religione sia in vista di un qualche privilegio, vi sbagliate di grosso, dato che Dio fa sorgere il sole e scendere la pioggia su buoni e su cattivi, su fedeli e infedeli. E, anzi, se deve scegliere qualcuno, sceglie proprio i più lontani. Come già ai tempi di Elia e di Eliseo, in tempi di carestia e di epidemie, si preoccupò di sfamare e curare, nel caso, dei pagani, extracomunitari e stranieri. Perché noi si impari a fare lo stesso. Questi sono i dogmi, cioè le verità, proclamate e trasmesse, col Vangelo, dalla nostra religione; su questo ci ammaestrano i nostri riti, l’essere battezzati nella morte del Signore, che dona la sua vita a tutti, che si fa nostro cibo nell’Eucaristia, perché noi diventiamo a nostra volta cibo per i poveri, nel concreto della vita; su questo ci ritroviamo ad annunciare e testimoniare, come comunità, asssieme ai nostri pastori, perché nulla di questa eredità vada perso, ma si perpetui nel tempo. E non si finisca per fare della religione un mercato come un altro, per guadagnarsi, peccando una volta di più di egoismo che ci illudiamo santo, prosperità sulla terra e il paradiso nell’altra.

Oggi il calendario ci porta le memorie di Mosè, profeta, guida e legislatore d’Israele; Albert Schweitzer, teologo, filosofo, organista, medico e missionario in Africa; Rabbi Simcha Bunam di Pžysha, mistico ebreo, André Jarlan, prete e martire in Cile.

Figura dominante nella Bibbia, dall’Esodo al Deuteronomio, Mosè è considerato dall’ebraismo tradizionale “Padre dei profeti”, il profeta maggiore, superiore a tutti coloro che lo precedettero e lo seguirono. Nell’ebraismo che seguì la diaspora, Mosè é “Moshè Rabbenu”, “Mosè, nostro Maestro”. La sua storia, che ha come unica fonte la Bibbia, si svolge, probabilmente, all’epoca del faraone Ramses II (1301-1234 a.C.). Alla guida del suo popolo, per quarant’anni, durante il lungo viaggio attraverso il deserto, gli fornì una formazione religiosa, basata sul culto esclusivo di Jhwh, il Dio che libera [Israele] dalla schiavitù, facendone suo popolo testimone. Mediatore dell’Alleanza sul Sinai, Mosè pose le basi dell’organizzazione sociale e legislativa di Israele, quale nazione indipendente. Giunto alle soglie della terra promessa, punito da Dio a non entrarvi, potè però contemplarla, prima di morire, dalla cima del monte Nebo. La morte avvenne il 7 del mese di Adar dell’anno 2488 [dalla creazione del mondo]. Dio stesso seppellì Mosè, nella valle, nel paese di Moab, davanti a Beth Pe’or, secondo l’espresso desiderio del suo servo. Che volle con ciò testimoniare che continuava ad amare tutti come suoi propri figli, anche quanti avevano peccato gravemente contro Dio (cf Nm 25,3).

Albert Schweitzer nacque in Alsazia (all’epoca tedesca, ma oggi francese), il 14 gennaio 1875, figlio di un pastore luterano. Studiò a Strasburgo e a Parigi, dove, nel 1900, ottenne il dottorato in filosofia e teologia. Ben presto si fece conoscere come pregevole organista e profondo conoscitore della musica di Bach. La notte di Pentecoste del 1905, Schweitzer decise di lasciare l’insegnamento accademico e la brillante carriera, per dedicare la vita alla lotta contro la miseria e la sofferenza. A tal fine, decise di studiare medicina. Nel 1913, lui e la moglie, Hélène Bresslau, partirono alla volta di Lambaréné, nell’attuale Gabon, dove costruirono l’ospedale che, in seguito, diventerà famoso. Schweitzer era profondamente convinto della responsabilità e del debito infinito accumulato dai cristiani bianchi nei confronti dell’Africa, attraverso il dominio coloniale. La sua vita e la sua dedizione come medico furono, per lui, il modo di pagarne personalmente una piccola quota. Nel 1952 ricevette il Premio Nobel per la Pace. Morì il 4 settembre del 1965.

Rabbi Simha Bunam era nato a Voidislav (Polonia) nel 1767. Ebbe modo di lavorare come scrivano, mercante di legna e farmacista. Introdotto nel chassidismo dal suocero, divenne dapprima discepolo di Rabbi Israele, il Magghid di Kosnitz, e, in seguito di Rabbi Giacobbe Isacco (il “Chozeh” o Veggente) di Lublino, da cui si distaccò per seguire a Pžysha, l’omonimo discepolo di quello, detto lo Jehudi, divenendo in poco tempo il più caro dei suoi allievi. Al punto da essere scelto, alla sua morte, benché riluttante, come suo successore dalla grande maggioranza dei chassidim di Pžysha. Secondo le parole di Martin Buber “L’insegnamento, quando vi si mise veramente, era per lui un impegno vitale, grave di responsabilitá; e il suo influsso sui giovani, che venivano da ogni parte e lo scongiuravano di lasciarli vivere vicino a lui, era sconvolgente. Poiché i giovani lasciavano per lui casa e mestiere, le famiglie in tutto il paese lo osteggiavano come nessun altro”. Un giorno i suoi scolari chiesero a Rabbi Bunam: “Da che cosa riconosciamo, in questa epoca senza profeti, se un peccato ci è stato perdonato?”. Rispose: “Lo riconosciamo dal fatto che non commettiamo più il peccato”. Disse una volta: “Sì, io posso indurre a conversione tutti i peccatori, ma i bugiardi no”. Rabbi Simha Bunam morì il 12 elul 5587 (4 settembre 1827).

André Jarlan era nato in Francia il 25 maggio 1941. Ordinato prete a Rodez, nell’Aveyron, il 16 giugno 1968, era stato destinato alla parrocchia di Aubin. Le sue esperienze con la Gioventù e l’Azione operaia cattolica e, più tardi, come prete operaio, assieme ai numerosi incontri con missionari lo portarono a maturare la vocazione missionaria. Chiese allora ed ottenne di essere inviato come prete “fidei donum” in Cile, dove giunse nel febbraio del 1983, in piena dittatura pinochetiana, stabilendosi a La Victoria, un quartiere povero della periferia di Santiago. Abitando con un altro prete, Pierre Dubois, in una casa di fango e paglia come quelle dei vicini, si dedicò, con pazienza e allegria, ai bambini, ai giovani e alle categorie più emarginate: drogati, disoccupati e senza-tetto. Il 4 settembre 1984, gli abitanti di La Victoria promossero una manifestazione di protesta. Giunsero sul posto plotoni di polizia che le repressero con estrema violenza. I preti si diedero da fare per soccorrere i feriti, consolare, incoraggiare. Al tramonto, approfittando di un momento di calma, André si ritirò in camera a pregare. Era seduto al tavolino, con la Bibbia aperta, quando, nel quartiere, giunse di nuovo la polizia. Due proiettili attraversarono le pareti e una lo raggiunse alla testa. André reclinò il capo sulla Bibbia aperta al salmo 130, che si apre con: “Dal profondo a te io grido, Signore; Signore, ascolta la mia voce”. Il giorno 7, migliaia di abitanti del quartiere accompagnarono la bara portata a spalle fino alla cattedrale dove l’arcivescovo, durante l’Eucaristia, disse: “André, fratello, il tuo sacrificio comincia a fiorire con la fecondità che Dio concede a chi dà la vita per amore”.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
1ª Lettera ai Tessalonicesi, cap. 4,13-18; Salmo 96; Vangelo di Luca, cap. 4,16-30.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

E, per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, lasciandovi alla lettura di un brano di Albert Schweitzer, tratto dall’antologia di sue citazioni, apparsa con il titolo “Rispetto per la vita” (Edizioni di Comunità). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Ogni violenza ha in sé il proprio limite, in quanto richiama altrettanta violenza che prima o poi la eguaglia o la supera. La gentilezza invece agisce con mezzi semplici e continui; non provoca resistenze che pregiudichino la sua opera, mentre mitiga quelle che già esistono. Mette in fuga la diffidenza e l’incomprensione, e si rafforza attirando altrettanta gentilezza. Quindi di tutte le forze è la più intensa e la più efficace. La bontà che l’uomo riversa sul mondo agisce sul cuore e sui pensieri dell’umanità, ma noi siamo così insensatamente indifferenti da non prendere mai sul serio la gentilezza. Vogliamo spostare un pesante carico, eppure evitiamo di servirci di una leva, la quale renderebbe cento volte più potente la nostra forza. (Albert Schweitzer, Rispetto per la vita).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 04 Settembre 2017ultima modifica: 2017-09-04T22:48:18+02:00da fraternidade
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