Giorno per giorno – 09 Luglio 2017

Carissimi,
“Venite a me, voi tutti, che siete affaticati e oppressi, e io vi ristorerò. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime. Il mio giogo infatti è dolce e il mio carico leggero” (Mt 11, 28-30)”. Ci sono oppressioni che possono sembrare insostenibili. Padre Geraldo, stamattina, nell’omelia, raccontava di un giovane di 23 anni, malato terminate di cancro, che aveva accompagnato negli ultimi mesi di vita. Il padre era morto poco tempo prima, non avendo retto al dolore per la scomparsa avvenuta due anni prima, in un incidente stradale, di una figlia, del genero e di due nipotine, mentre si recavano ai funerali di un’altra figlia, morta anch’essa di tumore. Il giovane, prima di morire, trovò il modo di dire a padre Geraldo che moriva contento e il sacerdote, da parte sua, durante le esequie, alla presenza della madre, era riuscito a ripetere soltanto, piú volte: “Dio è buono, Dio è buono”. La madre era andata a trovarlo, qualche giorno dopo e l’aveva ringraziato per quelle sue parole. Passato qualche anno, ormai anziana, aveva settantatre anni, era tornata a visitarlo e gli aveva detto: “Vorrei farle una domanda, ma mi vergogno un po’”. Lui l’aveva incoraggiata e lei: “Sarà che posso mettermi con qualcuno?”. E il prete: “Ma certo, perché no?”. Ora, tornando a noi, cosa poteva avere a che fare questa storia con il vangelo di oggi? In cui Gesù ringrazia il Padre per aver rivelato il segreto del Regno ai piccoli e non a quelli che sanno già tutto e aver invitato poi tutti coloro che sono stanchi e oppressi a rivolgersi a lui. E padre Geraldo ha detto di suo: che cos’è il Regno per noi, per ciascuno/a di noi? E per gli indios, i negri, i senzatetto, i rifugiati, gli impoveriti, i variamente discriminati, i diveramente abili, gli anziani, i malati terminali, gli emarginati? Ecco, Dio, deve avere una parola speciale per ciascuno di questi gruppi, di queste persone. Una risposta che noi non possiamo avere la presunzione di sapere in anticipo, uguale per tutti. Per la quale noi si può al massimo invitare a mettersi in ascolto, sapendo che, in ogni caso, Dio è ed ha per tutti solo una parola di benedizione, che ci rende lieve il cammino della vita. E guai a noi, se invece lo rendiamo pesante agli altri.

I testi che la liturgia di questa 14ª Domenica del Tempo Comune sono tratti da:
Profezia di Zaccaria, cap. 9,9-10; Salmo 145; Lettera ai Romani, cap. 8,9.11-13; Vangelo di Matteo, cap. 11,25-30.

La preghiera della domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Oggi ricordiamo Angelus Silesius, mistico tedesco del XVII secolo; Augustus Tolton, primo prete afroamericano negli Usa, e Bruno Borghi, primo preteoperaio in Italia; André Chouraqui, uomo dei tre mondi.

Johannes Scheffler nacque a Cracovia nel dicembre del 1624, figlio di Stenzel e di Maria Magdalena Henneman, entrambi luterani. Nel 1637 rimase orfano di padre e due anni più tardi gli morì la madre. Compiuti gli studi ginnasiali a Breslavia, nel 1643 si trasferì a Strasburgo e poi a Padova, per studiarvi diritto e medicina. È in questo periodo che prese a leggere autori mistici come Taulero e Meister Eckhart, che ne influenzarono la spiritualità. Nel 1649 ottenne l’incarico di medico di corte del duca Sylvius Nimrod von Württemberg in una cittadina nei pressi di Breslavia. Ma vi rimase solo tre anni a causa di un conflitto con il cappellano luterano di corte. Il 12 giugno 1653, Johannes aderì alla fede cattolica e assunse il nome di Angelus Silesius. Poco dopo fu nominato medico di corte dell’imperatore Ferdinando III e nel 1657 pubblicò gli scritti che aveva composto nel frattempo. Al fine di spogliarsi progressivamente dei propri beni, costituì fondazioni in favore di monasteri e di poveri. In quello stesso anno, venne ordinato sacerdote. Nel 1671 ottenne ospitalità in un monastero cistercense, dove trovò modo di sottrarsi agli attacchi che, dai tempi della sua conversione, gli venivano dagli ex-correligionari. Visse gli ultimi anni in assoluta povertà, dedito alla preghiera e alla contemplazione, morendo il 9 luglio 1677.

Augustus Tolton nacque, secondo di quattro figli, nella famiglia di una coppia di schiavi cattolici, Peter Paul e Martha Jane Tolton, a Ralls County, nel Missouri, il 1° Aprile 1854. Allo scoppio della Guerra Civile, nel 1861, il padre fuggì dalla proprietà e si arruolò nell’esercito dell’Unione al fine di lottare per la libertà della sua famiglia e per la fine dello schiavismo. Fu uno dei 180 mila negri che morirono durante la guerra. Martha Tolton a sua volta fuggì con i figli verso la libertà, attraversando il fiume Mississippi e stabilendosi a Quincy, nell’Illinois. Crescendo, il giovane Augustus manifestò il desiderio di essere prete, ma non si trovava un seminario disposto ad accoglierlo. Senza disanimare, egli studiò dapprima col suo parroco, poi, nel 1878, fu ammesso nella scuola gestita dai francescani a Quincy, dove rimase due anni, finché ottenne di potersi recare a Roma nel Collegio Urbano, il seminario della Congregazione di Propaganda Fide. Ordinato prete nel 1886, divenne il primo prete afroamericano negli Stati Uniti. Tornato nella sua diocesi, gli fu affidata una parrocchia di negri, ma il suo carattere, la sua preoccupazione per le reali necessità della sua gente, e le sue predicazioni lo resero presto popolare anche tra molti bianchi di origine tedesca e irlandese, che presero a frequentare la sua chiesa. Suscitando, neanche a dirlo, il risentimento e la gelosia degli altri parroci della zona. I quali nel giro di poco tempo riuscirono ad ottenere il trasferimento del “prete negro” a Chicago, dove divenne il primo pastore negro della città, profondendosi senza risparmio per la causa della sua gente e per la causa del Regno di Dio. Troppo, forse, per durare a lungo. Morì d’infarto, la notte del 9 luglio 1897, tornando da un ritiro. Aveva quarantatre anni.

Di Bruno Borghi abbiamo a disposizione solo pochi elementi biografici. Ne ricaviamo alcuni da un ricordo a lui dedicato a suo tempo da Adista. Cristiano e prete scomodo, fece parte, con La Pira, Balducci, Turoldo, Facibeni, Vannucci, Milani e altri, di una generazione che seppe animare e provocare salutarmente il panorama ecclesiale e politico italiano, a partire dagli anni cinquanta. Nato nel 1922, entrò nel seminario di Firenze dove fu compagno di studi di don Lorenzo Milani, con cui instaurò una duratura amicizia. Nel 1950, scelse di lavorare in fabbrica, desiderando “immedesimarsi totalmente nella condizione della classe operaia, in cui vedeva la presenza di valori e istanze capaci di rivitalizzare una realtà sociale ed ecclesiale in cui cominciavano, dalla base, a nascere i primi fermenti del rinnovamento”. Nell’ottobre 1964 fu autore, insieme a don Milani, di una “Lettera ai sacerdoti della diocesi fiorentina”, in cui denunciava l’autoritarismo del vescovo Ermenegildo Florit. Nel 1965, sempre con don Milani, intraprese una battaglia in difesa dell’obiezione di coscienza al servizio militare, allora fuori legge. Nel 1968, scese in campo per esprimere la sua solidarietà concreta a don Enzo Mazzi, che l’arcivescovo aveva allontanato dalla comunità dell’Isolotto. In seguito Borghi abbandonò il sacerdozio. Conobbe e sposò Agnese, da cui ebbe un figlio, Giovanni. Negli anni successivi, non venne mai meno il suo impegno nella società civile, a difesa dei settori più emarginati. Si impegnò tra l’altro come volontario, a fianco dei carcerati, nel carcere fiorentino di Sollicciano. È morto il 9 luglio 2006, nella sua abitazione di Torri (Firenze).

Nathan André Chouraqui era nato l’11 agosto 1917 (per il calendario ebraico il 23 del mese di Av dell’anno 5677), a Ain-Témouchent in Algeria, nono dei dieci figli di Isaac Chouraqui e Meléha Meyer, entrambi ebrei sefarditi. Colpito da poliomelite a sette anni, dopo gli studi nel Liceo francese di Orano, si trasferìi a Parigi per studiarvi Diritto. Nel 1938 conobbe Colette Boyer, una musicista ammalata di tubercolosi, che sposò nel 1940 ad Ain-Témouchent nel villaggio natale, con una cerimonia ebraica, cui seguì, poco dopo, la conversione di lei all’ebraismo. Durante la seconda guerra mondiale, Chouraqui fu attivo nella Resistenza francese. Poi lavorò per qualche tempo come magistrato in Algeria. Nel 1948, Colette scelse, con il consenso ma anche con il comprensibile strazio del marito, di far ritorno alla Chiesa, restando tuttavia fedele al Credo di Israele. Entrò tra le Piccole sorelle di Gesù, dove sarebbe vissuta fino al 18 ottobre 1981, quando spirò tra le braccia di lui, accorso al suo capezzale per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Intanto, nel 1951, Chouraqui aveva scelto di emigrare in Eretz Israel, stabilendosi a Gerusalemme, dove nel 1958, sposò Annette Lévy, che gli darà cinque figli. Da allora, dedicò tutta la sua vita a cercare le vie di un dialogo fruttuoso tra ebrei, cristiani e musulmani, i tre mondi in cui affondavano le radici della sua biografia. Traduttore e commentatore in francese della Bibbia ebraica, del Nuovo Testamento e del Corano, sapeva scorgere in essi la trama nascosta di un unico disegno divino che mira alla nascita di un uomo nuovo, libero dai condizionamenti e dalle schiavitu di sempre. Fu promotore di associazioni per il dialogo interreligioso e ambasciatore instancabile di un pensiero di pace nel mondo. Nel 1999 fu insignito del Premio Internazionale per il Dialogo fra gli Universi Culturali. André Chouraqui è morto a Gerusalemme il 9 luglio 2007.

Noi ci si congeda qui, offrendovi in lettura la pagina con cui André Chouraqui chiude il suo libro “Forte come la morte è l’amore. Una autobiografia” (San Paolo). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
I nostri litigi tra ebrei, cristiani e musulmani hanno riempito con le nostre grida la nostra storia, grida insignificanti sul piano politico, miserabili dal punto di vista religioso, fondate tutte su un egoismo cieco o su un’ignoranza lampante delle nostre fonti, la Bibbia, i vangeli, il Corano, in nome dei quali ci fronteggiamo in combattimenti impietosi. Ridicole ieri, oggi le nostre dispute diventano mostruose. Ieri rischiavamo la morte degli uomini che si battevano sui campi di battaglia, che bruciavano sui roghi o marcivano nelle prigioni. Oggi la posta degli stessi conflitti diventa prodigiosamente diversa e riguarda la vita o la morte di milioni di persone. Gli uomini sono gli stessi, ma hanno nelle mani strumenti di morte ogni giorno più potenti e più efficaci. Fino a quando resteremo chiusi in noi e ciechi alla situazione reale del pianeta terra? Le nostre dispute, se continuano, saranno i detonatori di un’esplosione peggiore di quella descritta nelle nostre apocalissi. Devo richiamare qui dei fatti noti a tutti, evocati ogni giorno dalle autorità più incontestabili e che ci lasciano insensibili, come se non ci riguardassero? Eccone qualcuno: centomila bombe atomiche sono depositate negli arsenali delle varie nazioni. Ogni anno gli stati investono somme favolose – circa milleottocento miliardi di dollari – per accrescere questo arsenale già sufficiente a distruggere parecchie volte il pianeta. Le scorie atomiche, i pesticidi, le piogge acide, l’inquinamento dell’acqua potabile e degli oceani, la crescita dei livelli dei mari, la desertificazione dei continenti, in cui le foreste tropicali e migliaia di specie vegetali sono in via d’estinzione, irrobustiscono la minaccia nucleare. Col ritmo con cui si sviluppano queste piaghe, la terra rischia di diventare un inferno: la bomba atomica non avrà più che da spazzarne via i detriti. Già lo strato di ozono che filtra i raggi ultravioletti nell’alta atmosfera si lacera, rischiando di lasciarli giungere a un’intensità mortale. Tutte le risorse dell’umanità non sarebbero troppo per per portare delle soluzioni a questi problemi. Uniti, potremmo risolverli, liberare nazioni e stati dalle minacce di guerra, dalla fame che colpisce continenti interi, dall’aridità che fa ogni giorno morire di sete migliaia di esseri viventi. Potremmo aprire all’umanità un’era nuova in cui l’uomo raggiungerà un sapere e dei poteri tanto inconcepibili per noi quanto quelli di cui disponiamo noi lo erano per i nostri padri. (André Chouraqui, Forte come la morte è l’amore. Una autobiografia).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Luglio 2017ultima modifica: 2017-07-09T22:51:29+02:00da fraternidade
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