Giorno per giorno – 06 Luglio 2017

Carissimi,
“Salito su una barca, Gesù passò all’altra riva del lago e giunse nella sua città. Ed ecco, gli portarono un paralitico steso su un letto. Gesù, vista la loro fede, disse al paralitico: Coraggio, figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati. Allora alcuni scribi cominciarono a pensare: Costui bestemmia” (Mt 9, 1-3). Gesù ha lasciato il territorio dei pagani, da cui è stato pregato di allontanarsi, e fa ritorno alla terra dei fedeli, dove però non ha sorte molto migliore, incompreso come continua ad essere. Stasera ci dicevamo che noi siamo più simili agli scribi del racconto, immagine dell’uomo religioso, che misura ogni comportamento secondo il merito, e non secondo la grazia di cui Dio ci fa dono. Per noi, anche se da duemila anni leggiamo questo vangelo, Gesù continua a scandalizzare e a bestemmiare, con il suo perdono, il dio che castiga che ci hanno insegnato. E che ci fa molto comodo, dato che ci risparmia la fatica del perdonare a chi ci ha fatto dei torti. La fede che ci è presentata in questo brano evangelico è la stessa cosa della verità di Dio che Gesù incarna: la capacità di compassione per il peccatore che non riesce ad uscire dalla sua situazione di peccato (“Non sanno quello che fanno”, ripeterà Gesù sino alla fine). Questo rappresenta un enorme passo avanti anche rispetto all’insegnamento del libro di Giona, in cui il profeta aveva annunciato il castigo e si aspettava, comprensibilmente, di vederlo attuato, nonostante la penitenza dei niniviti, che suscitò invece la misericordia di Dio. Qui Gesù, non si aspetta niente, non digiuno, non ceneri, e nemmeno giaculatorie, gli basta vedere come siamo ogni volta ridotti, e ci dice il suo “Coraggio, ti sono rimessi i tuoi peccati”, che guarisce la nostra paralisi e ci restituisce, almeno per un po’ di tempo, alla libertà. La fede della Chiesa (e di noi “fedeli”) è questa capacità di annunciare, celebrare e vivere la gratuità del perdono. Noi lo facciamo, perché l’abbiamo sperimentato da Dio. E se lo facciamo noi, come potrebbe non farlo, ogni volta, Dio?

Due sono le memorie di oggi, entrambe sotto il segno del martirio, della testimonianza alla Verità di Gesù, fino a dare la vita. Quelle di Jan Hus e di Thomas More.

Jan Hus era nato a Husinec, nella Boemia meridionale, verso il 1371. Terminati gli studi, fu ordinato presbitero nel 1400. Chiamato all’ufficio di predicatore della chiesa di San Michele a Praga, divenne professore di teologia all’Università della stessa città. Uomo di una profonda spiritualità, saldamente ancorata alla Parola di Dio, Hus percepì presto la corruzione, i latrocini e l’ipocrisia che dilagavano soprattutto tra il clero e diede tutto se stesso per restituire alla comunità dei semplici cristiani, attraverso un approccio diretto alle Scritture, la figura del Gesù umile, povero, solidale con gli ultimi, consegnatoci dal Vangelo. La sua predicazione rivelò numerose convergenze con le dottrine del riformatore inglese John Wycliff, condannato per eresia (che, all’epoca, era praticamente sinonimo di fedeltà all’Evangelo) qualche decennio prima. Questo fatto segnò anche il destino di Hus. Nel 1408, infatti, il prete fu sospeso a divinis e nel 1412 scomunicato. Nonostante il favore popolare, quando nel 1413 la nobiltà favorevole al clero corrotto prese il potere a Praga, Hus dovette fuggire e rifugiarsi nel villaggio natale. Qui scrisse la sua maggior opera teologica, De Ecclesia. Il culmine della tensione con la gerarchia ecclesiastica si registrò quando, nella lotta che opponeva due contendenti al titolo di papa, uno dei due (che successivamente sarebbe uscito sconfitto) promosse la vendita di indulgenze per raccogliere fondi per una guerra contro il rivale. Hus restò sconvolto dall’idea che si potesse anche solo immaginare di vendere benefici spirituali per finanziare una guerra tra due che rivendicavano il titolo di “Servo dei servi di Dio” e lo dichiarò pubblicamente. Nel 1414, convocato dal Concilio di Costanza, vi si recò, munito di un salvacondotto imperiale, per difendere le sue tesi. Non aveva tenuto conto che, per un certo potere, anche i salvacondotti erano carta straccia. Riconosciuto colpevole, fu condannato a morte e e arso vivo nella pubblica piazza il 6 luglio del 1415.

Thomas More era nato a Londra il 7 febbraio 1478. Di carattere accattivante e simpatico, sposo e padre di famiglia, ebbe un figlio e tre figlie. Profondamente religioso, prendeva parte quotidianamente all’Eucaristia, dedicando inoltre parte del suo tempo alla lectio divina. Fu giurista e amico di Erasmo di Rotterdam, il celebre umanista che gli dedicò il suo capolavoro “L’elogio della pazzia”. Cancelliere del regno, lasciò numerose opere, la più conosciuta delle quali è L’Utopia: il sogno di una società perfetta, in cui, per dirlo con le sue parole, non succeda più che “un nobile, un banchiere, uno strozzino, un fannullone, un ignavo, che nulla fa per il bene dello Stato, abbia il diritto di vivere tra mollezze e lusso, tra l’ozio e gli inutili perditempo, mentre un operaio, un cocchiere, un falegname, un contadino, che lavorano come muli e senza i quali lo Stato non potrebbe tirare avanti neppure per un anno, abbiano a stento un boccone di pane e menino un’esistenza miserabile”. Che era, anche solo limitandoci a questo, un programma discretamente radicale! Essendosi opposto al divorzio di Enrico VIII e alla pretesa del re di arrogarsi l’ultima parola in materia religiosa, fu condannato a morte. Dopo la sentenza, alla Corte che gli chiedeva se avessa qualcosa da aggiungere, Thomas More rispose: “No, signori, non ho più niente da aggiungere se non che come si legge negli Atti degli Apostoli – san Paolo era presente e consenziente alla morte di santo Stefano ed ebbe in custodia le vesti di coloro che lo lapidavano: eppure ora sono entrambi santi in Paradiso, e lassù saranno amici per sempre. Così, io fermamente confido – e con tutto il cuore lo chiederò nelle mie preghiere – che, benché voi, monsignori, siate qui in terra i giudici della mia condanna, possiamo un giorno ritrovarci tutti insieme nella gioia del Paradiso, per la nostra eterna salvezza”. Thomas More fu decapitato il 6 luglio 1535, testimoniando così la sua fedeltà alla sua propria coscienza e alla Chiesa di cui si sentiva figlio.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro della Genesi, cap.22, 1-19; Salmo 116A; Vangelo di Matteo, cap.9, 1-8.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

Il Dalai Lama (Oceano di Saggezza) compie oggi ottantadue anni. Nato il 6 luglio 1935, a Taktser, in un villaggio nel nord est del Tibet, da Choekyong Tsering e da Diki Tsering, il piccolo Lhamo Döndrub, all’età di due anni venne riconosciuto come tulku, o reincarnazione dello scomparso Thubten Gyatso, il tredicesimo Dalai Lama, e, come tale, emanazione del bodhisattva Avalokitesvara (il Buddha della Compassione), e fu perciò ribattezzato con il nome di Jetsun Jamphel Ngawang Lobsang Yeshe Tenzin Gyatso. Guida spirituale del buddhismo tibetano, il Dalai Lama ha ricevuto nel 1989 il Premio Nobel per la Pace. Beh, in tale occasione, come abbiamo già fatto in passato, scegliamo di congedarci con una sua citazione, tratta questa volta da una Conferenza tenuta al Forum di Assago, a Milano, il 28 giugno 2012. E che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Quando ho l’opportunità di parlare alla gente, mi sento una persona semplice, solamente uno dei tanti fra i 7 miliardi di esseri umani. Se nel rivolgermi a voi dovessi pensare che in realtà sono tibetano, un monaco buddhista, immediatamente creerei un divario, una distanza tra me e voi. D’altra parte, se pensiamo di comunicare fra di noi, pensiamo al fondamento di noi stessi è che siamo tutti uguali nel volere essere felici e nell’aver diritto alla felicità. Siamo tutti uguali a non volere soffrire e col diritto a non soffrire. Da questo punto di vista siamo esattamente uguali, se comincio a pensare alle differenze e ad elencare le differenze, di razza, di colore, di cultura ecc… è su questa base che sorgono le discriminazioni: io sono ricco e voi poveri, ecc. È questo tipo di discriminazione che porta tutti i conflitti. Il concetto di felicità e la sua realizzazione, dipende tantissimo nell’aver fiducia negli altri, è proprio la mancanza di fiducia che porta all’opposto. Se guardiamo anche a livello dell’umanità stessa, credo che, di base, questo concetto, noi e gli altri, sia troppo enfatizzato, c’è troppa tendenza di pensare: noi e gli altri. E’ un concetto vecchio, antico. Una volta le comunità avevano meno relazione uno con l’altro, non c’era troppo scambio. Ora siamo nel 21° secolo, l’economia è globale, l’ambiente, i grandi problemi dell’umanità sono uguali. E’ un modo antico di pensare: noi agli altri. Che non ha più ragione d’essere. Dobbiamo pensare un noi molto grande, un noi grande come tutta l’umanità. Il popolo delle Hawaii ha un detto: “Il tuo sangue è il mio sangue, le tue ossa sono anche le mie ossa”. Per cui, ciascuno di noi, il raggiungimento della felicità e della gioia in ciascuno di noi, dipende esclusivamente dagli altri. Se proprio vogliamo essere egoisti, cerchiamo di farlo in modo intelligente. Il massimo guadagno che vogliamo per noi stessi è quello di prenderci cura degli altri, questo è il modo intelligente di essere egoisti. (Dalai Lama, La Felicità al di là della religione, Conferenza tenuta al Forum di Assago, Milano, il 28 giugno 2012).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 06 Luglio 2017ultima modifica: 2017-07-06T22:40:38+02:00da fraternidade
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