Giorno per giorno – 12 Giugno 2017

Carissimi,
“Vedendo le folle, Gesù salì sulla montagna e, messosi a sedere, gli si avvicinarono i suoi discepoli. Prendendo allora la parola, li ammaestrava dicendo: Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli” (Mt 5, 1-3). Comincia così quello che potrebbe essere chiamato il “manifesto programmatico” di Gesù. Noi lo si è letto durante l’Eucaristia, con cui, stamattina, nella chácara di recupero, ci siamo congedati da Renato, giunto alla fine dei suoi nove mesi di trattamento. E il consiglio che abbiamo rivolto a lui e a noi è stato di fare nostra la “politica delle beatitudini”. Politica intesa come nostra maniera di essere e agire, come scelta dei valori sui cui plasmare la nostra vita. “Felici sono i poveri”: poveri lo siamo tutti, in una forma o nell’altra, ma, in questo caso, siamo invitati a guardare a chi è più povero di noi e a cospirare – che letteralmente significa “respirare assieme” – per far diventare vera questa felicità. “Felici coloro che piangono”: tutti noi, una volta o l’altra, abbiamo conosciuto, o fatto sperimentare ad altri il dolore e le lacrime: ebbene, è giunta l’ora di asciugarle, quelle lacrime, cambiando il pianto di quanti ci amano, e non soltanto il loro, in sorriso. Che è ciò che ha fatto Gesù. “Felici i miti”, che scelgono, anche in un mondo violento e prevaricatore, di rinunciare ad ogni tipo di violenza fisica, verbale, psicologica. “Felici coloro che hanno fame e sete di giustizia”: perché si uniscano in un grande progetto collettivo che restituisca la vita – e vita piena – a quanti ne sono stati priovati, dato che la giustizia solo “per me” non è che una forma in più di egoismo. “Felici i misericordiosi”, perché, così, saremo uguali a Dio che nutre amore materno, preoccupazione, cura tenera, con tutti. “Felici i puri”, dal cuore trasparente, che agiscono senza secondi fini, gratuitamente. “Felici i costruttori di pace”: non, però, della pace imposta da potenti e prepotenti, basata sulla paura dei vili e sull’indifferenza dei più. “Felici i perseguitati per causa della giustizia”: perché, facendo nostra questa causa, saremo come i profeti e come lo stesso figlio di Dio, che è giunto a dare la sua vita per noi. E porre la vita a servizio degli altri è la maniera che Dio ha di regnare. Fare nostro questo programma ci cambia la vita e aiuta a cambiare la storia.

Il nostro calendario ecumenico porta oggi le memorie di Medgar Wiley Evers, martire della lotta nonviolenta degli afroamericani, e di Enmegahbowh, primo prete e missionario indiano d’America.

Medgar Wiley Evers era nato il 2 luglio 1925, a Decatur, nel Mississippi, figlio di James and Jessie. Aveva frequentato scuola fino a quando, diciottenne, era stato chiamato sotto le armi e spedito in guerra. Al ritorno dal fronte, si era iscritto alla Facoltà di economia e commercio dell’Università statale di Alcorn e, lì, oltre a studiare, come ogni bravo ragazzo, cantava nel coro, giocava a calcio, gareggiava in atletica leggera, redigeva il giornaletto dell’Università. Dopo la laurea, sposò Myrlie Beasley e insieme furono ad abitare a Mound Bayou, dove cominciò la sua lotta per i Dirittti Civili, organizzando il boicottaggio dei distributori di benzia che non permettevano l’uso delle toilette ai neri e creando sezioni locali del NAACP (Associazione nazionale per il progresso della popolazione di colore). Per mantenere la famiglia, lavorò qualche anno come agente assicurativo, fino al 1954, quando la Corte suprema dichiarò incostituzionale la segregazione razziale nelle scuole. Chiese allora l’ammissione alla Facoltà di Legge del Mississippi, ma gli fu negata. Questo però richiamò su di lui l’interesse della direzione nazionale del NAACP, che gli propose una collaborazione a tempo pieno. Trasferitosi con la moglie a Jackson, cominciò a investigare gli episodi di violenza contro i neri e si impegnò per fare ammettere all’università James Meredith, che sarebbe diventato di lì a poco il primo afroamericano a varcare i cancelli di un’università del Mississippi. Tutto bene, ma crebbe l’odio nei confronti di Evers. Il quale, la notte del 12 giugno 1963, rientrando a casa, fu ucciso da un proiettile assassino. Il killer, un sostenitore della supremazia dei bianchi, tale Byron De La Beckwith, processato due volte negli anni sessanta, riuscì in entrambi i casi a farla franca. Solo nel 1994, sottoposto nuovamente a processo, sarebbe stato riconosciuto colpevole e condannato all’ergastolo. Medgar Evers, lui, aveva scritto, qualche anno prima di essere ucciso: “Può sembrare strano, ma io amo il Sud. Io non potrei scegliere di vivere altrove. Qui c’è terra, dove un uomo può allevare il suo bestiame, ed io comincerò a farlo un giorno o l’altro. Ci sono laghi dove puoi lanciare l’amo e pescare la tua trota. Qui c’è spazio dove i miei bambini possono giocare e crescere e diventare buoni cittadini. Sempre che l’uomo bianco glielo consenta”.

Enmegahbowh fu il primo nativo americano ad essere ordinato prete nella Chiesa Episcopale degli Stati Uniti. Era nato nel 1807 da una famiglia dell’etnia Odawa (o Ottawa, da cui traggono il nome alcune città degli Usa e la capitale del Canada), stanziata nelle regioni dell’Ontario, Oklahoma e Michigan. Il suo nome significa “Colui che prega [per il suo popolo] stando in piedi”. Sposato a una donna degli indiani Ojibwa, entrò a far parte di questa tribù. Fu nel 1851, quando era già più che quarantenne, che Enmegahbowh passò dal Midewiwin, la religione sciamanica dei suoi antenati, al cristianesimo, facendosi battezzare da James Lloyd Breck, un missionario venerato come santo dalla Chiesa episcopale. Divenuto diacono, fu mandato, nel 1858, a Crow Wing, nel Minnesota, per aiutare nella fondazione di una nuova missione, di cui assunse la responsabilità, nel 1861. Fu ordinato prete nel 1867. In anni assai difficili, segnati dalle continue prepotenze dei bianchi, e dal comprensibile desiderio di vendetta degli indiani, Enmegahbowh fece di tutto per tutelare i diritti della sua gente e salvaguardare la pace, affrontando ogni rischio e pericolo pur di affermare il messaggio di vita di Gesù. Morì nella riserva indiana della Terra Bianca, nel nord Minnesota, il 12 giugno 1902, all’età di 95 anni. Il calendario episcopale dei santi ne fa memoria in questo giorno.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
2ª Lettera ai Corinzi, cap.1, 1-7; Salmo 34; Vangelo di Matteo, cap.5, 1-12.

La preghiera di questo lunedì è in comunione con i fedeli del Sangha buddhista.

È tutto, per stasera. Noi ci si congeda qui, con un brano di Martin Luther King, tratto da “Il sogno della non violenza” (Feltrinelli). In omaggio alla nostra memoria di oggi. Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
È arrivato il tempo di farla finita con l’allegra ipocrisia delle garanzie di vita, libertà e ricerca della felicità. Questi nobili principi sono contenuti nella Dichiarazione di indipendenza, ma quel documento è sempre stato una dichiarazione di intenti piuttosto che una realtà. Quando fu scritta c’erano ancora gli schiavi; c’erano ancora schiavi quando fu adottata e a tutt’oggi gli americani di pelle nera non hanno né vita, né libertà, né la possibilità di ricercare la felicità, mentre milioni di americani bianchi poveri vivono nella non meno oppressiva schiavitù economica. Gli americani che sinceramente condividono questi ideali nazionali, e sanno che essi rappresentano sogni non realizzati ancora per troppi, dovrebbero accettare di buon grado lo stimolo delle richieste dei negri. Queste stanno mandando in frantumi quel compiacimento che ha permesso l’accumulo di una quantità di mali nella società. La rivolta dei negri chiede all’America di riesaminare i suoi miti confortanti e può ancora catalizzare le drastiche riforme che ci salveranno dalla catastrofe sociale. (Martin Luther King Jr, Il sogno della non violenza).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 12 Giugno 2017ultima modifica: 2017-06-12T23:09:08+02:00da fraternidade
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