Giorno per giorno – 09 Giugno 2017

Carissimi,
“Come mai dicono gli scribi che il Messia è figlio di Davide? Davide stesso infatti ha detto, mosso dallo Spirito Santo: ‘Disse il Signore al mio Signore: Siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi. Davide stesso lo chiama Signore: come dunque può essere suo figlio?” (Mc 12, 35-37). È la domanda che Gesù dirige alla folla che lo ascoltava nel tempio, volta a correggere le idee sbagliate che potessero circolare su di lui, come anche sulla figura del messia davidico, e, in ultima analisi, su Dio. Il salmo che cita (Sal 110), ce lo siamo letti per intero stasera, nella chiesetta dell’Aparecida, ed è un salmo terribile, di quelli che i terroristi del Daesh, se mai si sentissero investiti di qualche missione divina (e c’è da dubitarne parecchio, anche alla luce delle confessioni di alcuni di loro) potrebbero tranquillamente recitare: “Egli abbatterà i re nel giorno della sua ira, sarà giudice fra le genti, ammucchierà cadaveri, abbatterà teste su vasta terra” (vv.5-6). Questo il messia che l’oracolo annunciava. Gesù si attribuisce soltanto l’inizio del primo versetto, per rivendicare un’origine che va oltre quella della semplice discendenza secondo la carne. Ammesso questo, c’è solo da aprire bene occhi ed orecchie per vedere come si comporta Gesù, cosa insegna, e come morirà. Per capire anche chi siano i nemici che il Signore porrà sotto i suoi piedi. Non esseri umani che egli ci ha insegnato ad amare, ma il peccato e la morte, di cui il suo passaggio sulla terra e la sua risurrezione decretano la sconfitta. Che se noi siamo dei suoi, è su di lui che dobbiamo misurare il nostro comportamento e rivedere, nel caso, le nostre idee su Dio e il nostro modo di essere e agire nella chiesa.

Tre sono le memorie di oggi: quella di Efrem di Nisibi, diacono, poeta e innografo; quella di José de Anchieta, “il più piccolo della Compagnia di Gesù” (secondo la sua stessa definizione); e quella di Héctor Gallego, prete e martire della solidarietà in Panama.

Efrem nacque a Nisibi in Mesopotamia (oggi Nusay-bin in Turchia, al confine con la Siria), verso il 306 e, diciottenne, ricevette il battesimo dal vescovo di quella città, Giacomo, che divenne sua guida spirituale ed amico. Al pari di altri asceti di quella regione, Efrem rinunciò al matrimonio e scelse di vivere in solitudine, dedicandosi allo studio delle Scritture e alla preghiera, e ponendo la sua vita al servizio della chiesa e dei poveri. Quando nel 363 la città cadde in mano persiana, Efrem, che nel frattempo era stato ordinato diacono, si stabilì a Edessa, dove gli fu affidata la direzione della cosiddetta “scuola dei persiani”, in cui si insegnava a leggere e a commentare la Sacra Scrittura. Dall’assidua frequentazione dei testi sacri, trasse, con l’aiuto dell’estro poetico di cui era assai dotato, molte liriche e inni, che si diffusero ben presto in tutto l’Oriente. Nel 372, una grande carestia si abbattè sulla città di Edessa, e Efrem ricevette l’incarico di organizzare i soccorsi. Morì il 9 giugno dell’anno successivo. Benedetto XV lo dichiarò dottore della Chiesa nel 1920.

José era nato il 19 marzo 1533 a San Cristobal de la Laguna, nell’isola di Tenerife, arcipelago delle Canarie, da dona Mência Dias de Clavijo Llerena (di famiglia ebrea convertita) e da João Lopez de Anchieta, un esule basco che, dopo una ribellione, si era visto commutata la pena di morte in quella dell’esilio, grazie all’intervento di un capitano suo amico, tal Ignazio di Lojola. Di cui in seguito si sarebbe sentito parlare in altra veste. Ricevuta la prima istruzione nella città natale e mandato, quattordicenne, a Coimbra, in Portogallo, per portare a termine i suoi studi, José maturò lì la sua vocazione religiosa. Entrato nella Compagnia di Gesù nel 1551, fece la sua professione religiosa due anni più tardi e subito dopo fu inviato con altri compagni come missionario in Brasile. Sbarcati a Bahia l’8 luglio 1553, i missionari si spostarono in direzione dell’altipiano. Giunti nei pressi di un villaggio indigeno, nella regione di Piratininga, costruirono la loro prima casa, “una casupola poverissima e strettissima”, che vollero dedicare a san Paolo, dato che era il 25 gennaio [1554], festa della Conversione dell’Apostolo. Fu da quella baracca che negli anni successivi si sarebbe sviluppata quella che oggi è la megalopoli paulista. Ordinato sacerdote nel 1566, il nostro gesuita, che continuerà a firmarsi sempre e soltanto col nome, per timore forse che si scoprissero le sue ascendenze ebree (erano tempi in cui l’Inquisizione perseguitava gli ebrei convertiti, diffidando della sincerità della loro conversione), si distinse per entusiasmo apostolico e per saggezza, nonché per capacità di governo, quando, un decennio più tardi, fu chiamato alla guida della Provincia gesuita del Brasile. Di fronte alla brutalità e all’ignoranza crassa dei colonizzatori, seppe prendere le difese degli indios, studiando le possibilità e percorrendo i cammini di quella acculturazione pacifica che, nei parametri culturali e religiosi dell’epoca, era intesa come unica via alla promozione umana, sociale e morale di quelle popolazioni. Compose in lingua indigena il primo catechismo, dopo averne scritta anche la prima grammatica. Morì il 9 giugno 1597 a Reritiba, chiamata poi Anchieta in suo onore.

Il colombiano Jesús Héctor Gallego era giunto, per la prima volta a Santa Fé de Veraguas, in Panama, da seminarista, nel febbraio 1967. Ed era tornato in patria, solo per esservi ordinato prete, il 16 luglio dello stesso anno, per mano del profetico vescovo Mons. Marcos Gregorio McGrath. Rientrato in agosto, in Panama, avviò subito un’intensa attività pastorale per impiantare quella che sarà la sua futura parrocchia. Con un gruppo di seminaristi prese a percorrere tutta la regione, visitando i villaggi disseminati sulle sue montagne. Si trattava di un distretto completamente abbandonato, per l’assoluta mancanza di vie di comunicazione. I contadini erano quasi tutti analfabeti, poveri, in cattive condizioni di salute e isolati. Padre Héctor organizzò la popolazione in 64 comunità di base, in cui si approfondiva la conoscenza delle Scritture, si discutevano i problemi della comunità, si celebrava l’Eucaristia. Una volta al mese si celebrava la Messa di tutte le comunità; oltre mille contadini, macinando molti chilometri a piedi, convergevano allora a celebrare la loro fede, scoprire insieme le cause dell’oppressione e della miseria, divenire solidali nella lotta, organizzare il lavoro in cooperativa. Il lavoro di coscientizzazione si basava su un “pericoloso libello rivoluzionario”: l’enciclica Populorum Progressio di Paolo VI. Se la gente sentiva di potersi fidare di quel prete, che vestiva e abitava poveramente come loro, che, come loro, a volte, pativa la fame, altri invece presero a guardarlo con sospetto e stizza. Le minacce contro il “prete estremista”, che era venuto a turbare l’ordine e la sicurezza dei latifondisti, si moltiplicarono, così come gli avvertimenti, i dispetti, gli attentati, i fermi. Finché, il 9 giugno 1971 fu prelevato a forza di casa e fatto sparire. Numerosi testimoni riconobbero nei sequestratori alcuni membri della Guardia Nazionale, che nei giorni precedenti il sequestro avevano chiesto di lui. Tre di loro saranno in seguito condannati a quindici anni di prigione per coinvolgimento diretto nella sparizione di padre Héctor. Lui però vive.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Tobia, cap. 11, 5-17; Salmo 146; Vangelo di Marco, cap. 12, 35-37.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fedeli dell’Umma islamica che confessano l’unicità del Dio clemente e misericordioso.

E, per stasera, è tutto. Noi ci congediamo qui, lasciandovi alla lettura di tre strofe dell’ “Inno III del Natale”, di Efrem Siro, tratto dal libro “Inni sulla natività e sull’epifania” (Paoline). Ed è questo, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Benedetto, lui che ha segnato / la nostra anima, / l’ha adornata e l’ha sposata a sé. / Benedetto, lui che ha fatto del nostro corpo / una tenda della sua invisibilità. / Benedetto, lui che nella nostra língua / ha tradotto i suoi segreti. / Siano rese grazie a quella voce, / di cui è cantata / la gloria sulla nostra cetra, / e la potenza sulla nostra arpa. / I popoli si sono radunati e sono venuti / ad ascoltare i suoi canti. // Gloria a colui che mai / poté essere misurato da noi. / Il nostro cuore è troppo piccolo per lui, / e debole anche la nostra mente. / La nostra piccolezza è disorientata / dalla ricchezza dei suoi discernimenti. / Gloria a colui che sa tutto, / e che si è sottomesso / a domandare, per ascoltare / e apprendere ciò che [già] sapeva, / per rivelare, con le sue domande, / il tesoro dei suoi benefici. // Adoriamo colui che ha illuminato / la nostra mente con il suo insegnamento, / e che ha tracciato nel nostro udito / un sentiero per le sue parole. / Rendiamo grazie a Colui che ha innestato / il suo frutto nel nostro albero. / Gratitudine verso Colui che mandò / il suo erede, / per attirarci a sé mediante lui, / e per farci eredi insieme a lui. / Gratitudine verso il Buono, / causa di tutti i beni. // (Efrem Siro, Inno III del Natale, 7. 11-12).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 09 Giugno 2017ultima modifica: 2017-06-09T23:04:05+02:00da fraternidade
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