Giorno per giorno – 08 Giugno 2017

Carissimi,
“Si accostò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: Qual è il primo di tutti i comandamenti? Gesù rispose: Il primo è: Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore; amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza. E il secondo è questo: Amerai il prossimo tuo come te stesso” (Mc 12, 28-31). A noi ce l’hanno insegnato fin da bambini, ma forse non abbiamo ancora del tutto capito come funzioni e cosa implichi. Nel pomeriggio, durante l’incontro nella chácara di recupero, ci dicevamo che se davvero amassimo Dio, così come è detto, se cioè amassimo l’amore, che Lui è e con cui ci ama e lo assumessimo come ragione della nostra vita, infinitamente diverso sarebbe l’amore (che fino ad oggi è solo disamore) con cui amiamo il nostro prossimo. E non parliamo dei nostri nemici, ma proprio delle persone che diciamo di amare: figli, genitori, fratelli, sorelle, parenti, insomma, e amici. Un amore che finisce per porre noi stessi al centro, resi oggetto di un sentimento, che rivendichiamo come diritto, fatto di obbedienza, devozione, gratificazioni e gratitudine, per tutto ciò che pensiamo di aver investito in esso. Il che rappresenta una forma, solo più sottile e mascherata, di egoismo e di volontà di potenza, con cui intendiamo asservire l’altrui libertà, imponendo scelte (che non sono più tali), valori, gusti, comportamenti. Il che è esattamente il contrario di ciò che fa Dio, il quale ci propone, sì, il comandamento di amare, sapendo che in questo consiste l’esperienza piú profonda della felicità, ma ci lascia subito liberi, perché è il dono della libertà che ci fa umani. Divini, solo se e quando la vivremo per amare. Dunque, ci tocca fare lo sforzo, non di amare Dio, per potere amare come Lui ama, dato che non ci riusciremmo mai, ma di chiedergli di portarci Lui, per grazia, ad amarlo davvero. Così, forse, un giorno, ci riusciremo.

Ricordiamo oggi Matta el Meskin (Matteo il Povero), monaco copto e maestro spirituale; August Hermann Francke, teologo, pedagogo e filantropo pietista; e Mohammed, profeta dell’Islam.

Jussef Scandar era nato a Benha, el Kaliobia (Egitto), il 20 settembre 1919. Laureatosi brillantemente in farmacia all’Università del Cairo, aveva intrapreso con successo la professione, garantendosi uno stile di vita ricco e invidiabile. Ma, a 29 anni, sentendo la chiamata del Signore che gli chiedeva tutto, lasciò ogni cosa ed entrò in uno dei monasteri più poveri dell’Egitto, Deir Amba Samuil, a Qualmun, dove vivevano ormai solo pochi monaci vecchi e malati. Fu allora che prese il nome di Matta el Meskin. Alla fine degli anni cinquanta, decise di compiere una scelta ancor più radicale, optando per la vita eremitica, nel deserto di Wadi El Rayan, dove, qualche anno più tardi cominciarono a raccogliersi attorno a lui giovani monaci desiderosi di vivere come lui la radicalità dell’evangelo. Nel 1969 la piccola comunità rispose positivamente all’invito del papa Cirillo VI che la voleva nel deserto di Wadi El Natroun, per dare nuovo vigore all’antico monastero di San Macario, abitato da soli sei monaci. In pochi anni il centro spirituale avrebbe conosciuto una sorprendente rinascita spirituale e materiale, arrivando ad ospitare oggi oltre cento monaci e richiamando dai luoghi più disparati pellegrini alla ricerca dell’Assoluto. Matta el Meskin è morto come oggi, l’8 giugno del 2006.

August Hermann Francke nacque a Lubecca (Germania) il 22 marzo 1663. Conseguito nel 1686 il dottorato in teologia all’università di Lipsia, vi divenne professore di ebraico due anni più tardi. Convertito assai presto alle idee di Philipp Jakob Spener, il fondatore del movimento pietista, creò, sull’esempio di quello, delle scuole per la spiegazione pratica e devozionale delle Sacre Scritture, aperte ai suoi concittadini. Osteggiato dall’ortodossia luterana, fu dimesso dall’insegnamento e esonerato dall’incarico di pastore. Accettò allora l’invito di Spener di insegnare lingue orientali nell’Università di Halle, e nel contempo assunse l’incarico di pastore in uno dei più miserabili sobborghi della città. L’impatto con la miseria del popolo, lo spinse a dedicare tutte le sue forze nella creazione di scuole per i figli dei mendicanti e diseredati, case di riposo per anziani e laboratori artigiani, seguiti da un orfanotrofio e infine dall’Istituto Biblico Canstein, dotato di una propria tipografia, che stampò e fece distribuire 80.000 Bibbie complete e 100.000 copie del Nuovo Testamento in soli sette anni. Nominato, nel 1715, pastore dell’importante chiesa di St. Ulrich e rettore dell’università di Halle, Francke morì l’8 giugno 1727. Le sue fondazioni, attive ancor oggi, furono decisive per lo sviluppo del missionariato luterano pietista del XVIII e XIX secolo.

Mohammed era nato alla Mecca verso il 570 d. C., figlio di Abdallah e di Amina. Rimasto orfano ancora bambino, fu accolto dal nonno paterno e in seguito adottato dallo zio Abd al-Muttalib, che lo introdusse nel mondo del commercio. Entrato al servizi della ricca vedova Khadija, accettò, successivamente, di sposarla. All’età di 35 anni, inquieto e insoddisfatto della vita che conduceva, Mohammed prese a rifugiarsi in una grotta del monte Hira vicino alla Mecca, dedicandosi alla meditazione. Dopo cinque anni di questa sua ricerca spirituale, la notte del 27 di Ramadan del 610 d.C. udì una voce che gli recitò e gli fece ripetere questa sura: “Leggi! In nome del tuo Signore che ha creato, ha creato l’uomo da un grumo di sangue. Leggi, ché il tuo Signore è il Generosissimo, Colui che ha insegnato mediante il càlamo, che ha insegnato all’uomo quello che non sapeva” (Corano, XCVI, 1-5). Con questa rivelazione (cui seguirono le altre che costituiranno l’insieme del Corano), iniziava la missione profetica di Mohammed, che fu vista da subito come una minaccia dal potere economico che dominava la società meccana del tempo e come tale avversata duramente. Vedendosi abbandonato dal suo stesso clan hascimita, Mohammed decise di fuggire con i suoi discepoli a Yatrib (la futura Medina). Era l’anno 622, che divenne così il primo anno dell’era egiriana (da Hejira = espatrio). Fu redatto un Patto che, sottoscritto da tutti i gruppi presenti in città, dava vita alla Umma, la comunità politica dei credenti. Dopo una serie di battaglie ad esiti alterni, Mohammed e le sue truppe entrarono nel 630 alla Mecca, ponendo fine ai culti idolatrici che vi erano praticati. Stabilitosi nuovamente a Medina, Mohammed moriva, l’8 giugno 632, poche settimane dopo aver compiuto il suo ultimo pellegrinaggio alla Mecca. Qui aveva pressantemente invitato gli oltre centomila pellegrini presenti a non dimenticare i princípi da lui predicati: l’uguaglianza tra i popoli e le razze di tutto il mondo, il rispetto reciproco tra uomini e donne, la sollecitudine nei confronti dei subalterni, la fraternità tra i credenti, la pratica dei cinque pilastri dell’Islam (la testimonianza di fede nell’unico Dio, la preghiera, l’aiuto ai bisognosi, il digiuno solidale, il pellegrinaggio alla Mecca).

I testi che la litugia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro di Tobia, cap. 6, 10-11; 7, 1. 9-17; 8, 4-9; Salmo 128; Vangelo di Marco, cap. 12, 28-34.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali indigene.

È tutto, per stasera. Noi ci congediamo qui, offrendovi in lettura un brano di Matta el Meskin, tratto dal suo “Fann al-hayah al-nagiha”, che non sappiamo bene cosa voglia dire, ma che troviamo in traduzione italiana nel sito “Nati nello Spirito. Spiritualità cristiana ortodossa”. E che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Predicare, in arabo, significa “gridare”. È cioè chiamare con voce forte, come fece la Samaritana: “La donna intanto lasciò la brocca, andò in città e disse alla gente: ‘Venite a vedere un uomo che mi ha detto tutto quello che ho fatto. Che sia forse il Messia?’” (Gv 4,28-29). Questa donna senza marito lasciò la brocca, dimenticò se stessa, non si curò del suo peccato, si mise alla prova e uscì a predicare. Predicò il Messia che Anna e Caifa uccisero dopo aver predicato la salvezza per tre anni e mezzo. Fu come se Cristo avesse detto alla Samaritana: “Va, corri, predica, non temere, il tuo peccato me lo porto io sulle spalle!” Il predicatore è dunque un uomo che ha udito un giorno risuonare nel cuore la voce dell’Onnipotente che gli offriva la buona novella della salvezza. All’istante, egli dimentica se stesso, il suo peccato, la compagnia dei peccatori, i suoi errori e si lancia a richiamare tutti a quella salvezza che è entrata nel suo cuore senza averla meritata in alcun modo! Il peccatore che ha provato dentro di sé la misericordia di Dio e ha gustato il miele del pentimento è il predicatore che più di altri è capace di portare la salvezza ai peccatori e di attrarre ad essa coloro che fuggono dal volto di Dio! L’opera missionaria sgorga dalla salvezza e non dal cuore e dalla mente del missionario. Essa attrae le menti e i cuori verso il pensiero e l’opera della salvezza, verso il cuore di Dio che chiama. La predicazione è una potenza che si spande dall’alto dei cieli e avvolge il predicatore prima di toccare coloro a cui è rivolta la predicazione. (Matta el Meskin, Fann al-hayah al-nagiha)

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 08 Giugno 2017ultima modifica: 2017-06-08T23:02:08+02:00da fraternidade
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