Giorno per giorno – 20 Gennaio 2017

Carissimi,
“Gesù salì sul monte, chiamò a sé quelli che voleva ed essi andarono da lui. Ne costituì Dodici – che chiamò apostoli –, perché stessero con lui e per mandarli a predicare con il potere di scacciare i demòni. Costituì dunque i Dodici: Simone, al quale impose il nome di Pietro, poi Giacomo, figlio di Zebedèo, e Giovanni fratello di Giacomo…” (Mc 3, 13-17). Stamattina, alla chácara di recupero, si era con dom Eugenio, per l’ “invio” di Rodolfo, giunto al termine dei suoi nove mesi di trattamento. E non ci sarebbe potuto essere vangelo più bello e adatto di questo alla celebrazione. Dunque anche tu, gli ha detto dom Eugenio, sei stato chiamato (e chissà se sarà stato cambiato anche a lui il nome, che significa “lupo glorioso”, o se dovrà aspettare che gliene sia rivelato un senso più vero e profondo!); sei stato chiamato, dunque, e te ne sei venuto qui, in circostanze, apparentemente così fuori dal comune, anche se tutte, a dire il vero, sono fuori dal comune, come è successo con quei primi Dodici. Sei venuto qui non, però, per restarci, ma per essere inviato, appunto, per annunciare ad altri la possibilità, che ci è data in ogni momento, di una nuova vita, a partire da un incontro reale con Gesù, la sua parola, la sua verità, il suo spirito, come non lo si era mai immaginato prima. Possibilità nuova, inedita, concreta, in cui ci è via via consentito di vedere trasformata la nostra esistenza, con le relazioni, gli affetti, le compagnie che la intessono, a immagine e sui passi di Gesù. Nonostante tutte le difficoltà e gli ostacoli, qualche volta, a prima vista, insormontabili, e persino le temporanee ricadute, che quasi inevitabilmente incontreremo sul nostro cammino. Ciò che conta è la scelta di fondo, a cui dobbiamo restare ostinatamente fedeli: Gesù, la vita come dono. Noi ci siamo congedati da Rodolfo con una parola di benedizione così formulata: Abbi sempre e in ogni momento la certezza dell’amore infinito dell’Abba, del dono e perdono incondizionato di Gesù, il Figlio, dell’energia trasformatrice dello Spirito. Tutto questo, ricevilo, annuncialo e vivilo in ogni relazione, come verità della tua vita.

Oggi la comunità fa memoria di Sebastiano, martire a Roma, di Cyprien Michael Tansi, presbitero e monaco, di Octavio Ortiz e compagni, martiri in Salvador, di Khan Abdul Ghaffar Khan (Bacha Khan), profeta di pace e di nonviolenza.

Del martire Sebastiano, nonostante le molte leggende fiorite sulla sua figura, sappiamo solo che fu giustiziato sotto l’imperatore Diocleziano (nell’anno 300) e fu sepolto nelle catacombe che avrebbero preso il suo nome. Ambrogio qualche decennio più tardi lo menziona in un suo commento al salmo 118, dicendo che era di Milano e che preferì lasciare la vita tranquilla per recarsi a Roma e testimoniare la sua fedeltà a Cristo. Questo gli costò la vita.

Iwene Tansi era nato nel 1903 a Aguleri, nello stato di Anambra, in Nigeria. Inviato dai genitori a studiare in una scuola gestita da missionari cattolici, vi conobbe il messaggio cristiano e, a dieci anni, chiese ed ottenne di essere battezzato, prendendo il nome di Michael. Negli anni successivi, mentre proseguiva brillantemente gli studi, s’impegnò sempre più nella vita e nelle attività di base della chiesa locale. A ventidue anni, nonostante l’opposizione della famiglia, entrò nel seminario di Igbariam per essere poi ordinato prete dell’archidiocesi di Onitsha, il 19 Dicembre 1937. Dopo due anni di esperienza a Nnewi, gli fu affidata la cura pastorale di una vastissima regione, che egli per molti anni percorse in lungo e in largo, con mezzi di fortuna, dedicandosi instancabilmente all’annuncio del Vangelo, a organizzare percorsi catechetici, corsi per la preparazione al matrimonio, incontri di discernimento vocazionale e favorendo svariate attività educative. Nel luglio 1950, rispondendo a un invito del suo vescovo, che desiderava trapiantare in Nigeria l’esperienza della vita contemplativa, entrò nell’abbazia trappista di Mount St. Bernard, nella contea di Leichester, in Inghilterra. Dopo tre anni trascorsi come oblato, il 7 dicembre 1952, vi fu ammesso come novizio con il nome di Cyprien. L’8 dicembre 1956, emise i suoi voti solenni. Negli anni seguenti il monaco africano non mancherà di edificare tutti con la sua preghiera e lo spirito di abnegazione, morendo, tuttavia prematuramente, il 20 gennaio 1964, alla vigilia del suo rientro in Africa, come maestro dei novizi nella nuova fondazione di Bamenda, in Camerun.

Octavio Ortiz era nato il 22 marzo 1944, ad Agua Blanca nel municipio di Cacaopera, nel Dipartimento di Morazarán (El Salvador), nella famiglia contadina di Alejandro Ortíz e Exaltación de la Cruz Luna (che persero altri quattro figli durante gli anni sanguinosi della dittatura). Entrato nel seminario di San José de la Montaña, fu il primo a ricevere l’ordinaziaone sacerdotale da mons. Romero che gli affidò in un primo momento la cura pastorale della Comunità di Zacamil e poi quella della parrocchia di El Despertar, alla periferia di Mejicanos. All’alba del 20 gennaio 1979, durante un ritiro, guidato da P. Octavio in un Centro di spiritualità della parrocchia, che vedeva riuniti una trentina di giovani, sopraggiunse una pattuglia dell’esercito che sparò al sacerdote e a quattro studenti e catechisti Ángel Morales, David Caballero, Jorge A. Gómez e Roberto A. Orellana, arrestando gli altri. Dopo il massacro, i soldati fotografarono i cadaveri con accanto le loro stesse armi, per far credere all’opinione pubblica che si trattasse di un gruppo di guerriglieri. Mons. Romero che celebrò i funerali, denunciò l’assassinio e additò nel regime il responsabile della strage.

Khan Abdul Ghaffar Khan era nato nel 1890 nella famiglia di un proprietario terriero, Khan Sahib Baharam Khan, a Utmanzai, un villaggio nei pressi di Peshawar, che oggi è in Pakistan, ma allora era in India, colonia britannica. Benché illetterati, i genitori educarono il giovane Abdul ad una profonda religiosità e al gusto per una vita semplice ed essenziale. Nel 1929, partecipando ad una riunione del Partito del Congresso, Khan fece sua la causa della lotta indipendentista e decise di coinvolgervi la sua gente, i focosi pathan. Con una pretesa, tuttavia, a prima vista assurda: sarebbero stati soldati disarmati, addestrati ad affrontare con coraggio il nemico, senza arretrare né rispondere. I pathan arruolati, che scelsero di chiamarsi Khudai khidmatgar, i servi di Dio, costituirono il primo esercito nonviolento professionale della storia. Promettendo di astenersi da ogni violenza e vendetta, di perdonare chiunque li opprimesse o facesse loro del male, di evitare ogni pigrizia, e di dedicare almeno due ore al giorno ad un qualche servizio sociale, i pathan passavano di villaggio in villaggio, organizzando la popolazione, aprendo scuole, convocando assemblee, insegnando tecniche di nonviolenza, conducendo in tal modo la loro personalissima jihad, la guerra santa tra il bene e il male, che ogni persona è chiamata a combattere nella sua propria coscienza. Il 31 dicembre 1929 i delegati del Congresso indiano dichiararono l’indipendenza, lanciando la parola d’ordine della noncollaborazione e della disobbedienza civile. Seguì una repressione spietata da parte dei britannici. Khan trascorse lunghi periodi in prigionia, ma l’esercito nonviolento dei servi di Dio, che giunse a contare trecentomila membri, non desistette. Quando, alla vigilia dell’indipendenza, la Lega musulmana chiese uno stato confessionale autonomo, Khan e i suoi combatterono la proposta, convinti, come Gandhi, che musulmani e indú avrebbero potuto continuare a convivere. Fu tutto inutile e gli opposti estremismi ebbero la meglio: Gandhi fu ucciso da un indú che l’accusava di essere filomusulmano, e Khan fu imprigionato dal governo musulmano del Pakistan sotto l’accusa di essere filoindú. Avrebbe trascorso quindici anni in prigione e sette in esilio in Afghanistan. Ghaffar Khan morì novantottenne a Peshawar il 20 gennaio 1988 e fu sepolto a Jalalabad, in Afghanistan. Decine di migliaia di persone parteciparono ai suoi funerali e un cessate-il-fuoco fu annunciato in quel Paese dilaniato dalla guerra per permettere lo svolgimento delle solenni esequie. Era stato decorato solo un anno prima con il Bharat Ratna – il più alto riconoscimento civile dello stato indiano.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Ebrei, cap. 8, 6-13; Salmo 85; Vangelo di Marco, cap. 3, 13-19.

La preghiera del Venerdì è in comunione con i fratelli della Umma islamica.

Oggi, Ernesto Cardenal, già monaco trappista (fu discepolo di Thomas Merton), in seguito semplice prete e poeta tra i maggiori dell’ultimo secolo, nel nostro Continente, nonché figura di spicco della rivoluzione sandista, in Nicaragua, poi finita in niente, compie 92 anni, essendo nato in quel di Granada il 20 gennaio 1925. Nel 2014, papa Francesco gli ha revocato la sospensione a divinis che gli era stata comminata dal Vaticano per la sua partecipazione come ministro della Cultura al governo rivoluzionario dell’epoca. A mo’ di omaggio, scegliamo, nel congedarci, di offrirvi una sua poesia dal titolo “Salmo do homem que vê a realidade e não se cala”, che troviamo in rete. Ci sembra, oltretutto, in qualche modo adeguata a “pregare” quanto avvenuto oggi a Washington, con l’insediamento del nuovo presidente degli Stati Uniti. Ed è, così, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Ascolta, Signore, questi versi che ti prego / Contemplando la realtà in cui vivo. / Sia maledetto il sistema che non lascia sognare i poeti / Né permette a chi pensa di dire la verità. / I suoi giorni saranno di lutto e di lamento / Perché ha ucciso nell’Uomo ciò che vi è di più degno. // Maledetto il sistema che non pratica la giustizia / e perseguita e tortura e imprigiona chi annunzia. / Dovrà giustificare la sua condotta davanti alla storia / e non troverà nessuna parola a sua difesa. // Sia maledetto il sistema che cerca solo un’apparenza di grandezza / mentre muoiono di fame gli uomini alle sue frontiere; / Allo stesso modo che è cresciuto cadrà, / Perché ha costruito le sue fondamenta / Su corpi vivi e sangue di innocenti. // Maledetto il sistema che cerca di uccidere nell’uomo la dimensione della trascendenza / e pone al suo posto il “dio denaro”, il “dio sesso”, e il “dio progresso”, / si distruggerà dentro inevitabilmente, / Perché il cuore dell’uomo fu ben fatto / E nessuno può uccidere in noi / Questa sete d’infinito che ci consuma. // Felice sarà, invece, / l’uomo che beve acqua alla fonte della piazza assieme al popolo, / Non avrà motivo di vergognarsi di nulla, / Non dovrà abbassare gli occhi / Davanti a qualsiasi uomo onesto. // Felice l’uomo che a forza di interiorizzare / è diventato libero dentro / e non s’importa della denuncia dei forti, / Saranno i suoi giorni come il grano della terra, / Pieni di sole e di speranza condivisa / E lo seguiranno i popoli della terra. // Felice l’uomo che non assiste a riunioni importanti / Né crede ai discorsi del governo; / Felice l’uomo che così pensa, / Perche avrà sempre tranquilla la sua coscienza. / Anche se soffrisse incomprensioni e persino il disprezzo. (Ernesto Cardenal, Salmo do homem que vê a realidade e não se cala).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 20 Gennaio 2017ultima modifica: 2017-01-20T22:43:24+01:00da fraternidade
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