Giorno per giorno – 14 Gennaio 2017

Carissimi,
“Gli scribi dei farisei, vedendolo mangiare con i peccatori e i pubblicani, dicevano ai suoi discepoli: Perché mangia e beve insieme ai pubblicani e ai peccatori? Udito questo, Gesù disse loro: Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati; io non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mc 2, 16-17). Se i peccatori, quelli “ufficiali” (con tanto di patente, emessa dagli uffici competenti a loro carico), considerato comunque che gli altri, tutti, lo sappiano o meno, lo sono comunque, magari solo clandestinamente, se dunque i peccatori erano allora ammessi alla tavola di Gesù, o Lui si invitava alla loro, e se l’evangelista annota il fatto scrupolosamente, questo significherà pure qualcosa anche per noi, oggi. Se noi ci consideriamo giusti, dice il Signore, non facciamo al suo caso. Proviamo a ripassare un’altra volta e chissà. Lui è venuto per i peccatori, certo forse anche perché sono generalmente più simpatici, ma soprattutto perché sono consapevoli della loro condizione e sanno che, lì, c’è qualcuno che inseguivano, senza conoscerlo, da tempo, anche attraverso i loro peccati. Per venirne, possibilmente, fuori. Lui, questi, li vuole alla sua tavola. Che, poi, è l’Eucaristia. E senza neanche confessione. Come col figlio prodigo, del resto. E senza neanche conversione. Quella e questa seguiranno. Al momento gli basta quel po’ di fame che li muove. Normalmente a peccare. Ora, invece, verso di Lui. Quel che ci è dato sapere è che, allora, i discepoli – pubblicani e peccatori – li accettavano tranquillamente in loro compagnia. Poi, più tardi, qualcuno deve aver storto il naso. Così l’evangelista si è premurato di ricordargli come si comportava Gesù. Mangiare con Gesù e, poi, mangiare Gesù, alla lunga rischia di cambiarti la vita. Sempre che si voglia davvero cambiare qualcosa. Invece, negare ai peccatori, che si dispongono a questo cammino, l’accesso alla mensa di Gesù (o plaudire a questa esclusione), rende invece indegni di parteciparvi proprio coloro che, così facendo, si sono persi l’unico e piú vero significato di Gesù, la sua misericordia. Il cibo di cui si cibano, in questo caso, non è, al di là di ogni apparenza, il pane eucaristico, ma il lievito un po’ rancido di quei religiosi che non hanno mai smesso di assillare Gesù. Del quale, però, resta la segreta speranza che, un giorno o l’altro, si arrivi tutti a capire e praticare il messaggio. Compresi noi.

Oggi è memoria di Serafim di Sarov, mistico e asceta della Russia ortodossa, e di Leonhard Schiemer, pacifista anabattista, martire.

Prochor Mosnin (tale il suo nome alla nascita) era nato il 19 luglio 1759 a Kursk in una famiglia di commercianti, conosciuti da tutti come cristiani devoti e caritatevoli. Da ragazzo Prochor amava frequentare la divina liturgia e dedicarsi alla lettura di libri religiosi. Diciottenne, durante un pellegrinaggio alle Grotte di Kiev, vi conobbe il santo staretz Dositeo, che, confermandolo nella vocazione monastica, lo indirizzò al monastero di Sarov, affidandogli la preghiera del Nome come mezzo potente per restare unito a Dio. Dopo otto anni di noviziato, il giovane fece la sua professione monastica, ricevendo il nome di Serafim. Nel 1794 Serafim fu ordinato prete e ricevette il permesso di recarsi a vivere in una piccola capanna nella vicina foresta, per dedicarsi ad una vita di preghiera e digiuno e allo studio delle Scritture e degli scritti dei Padri. Lì visse, salvo brevi interruzioni, fino al 1810, quando, per obbedire alla richiesta dei monaci anziani, Serafim ritornò in monastero. Continuò tuttavia a vivere nella solitudine e nel silenzio della sua cella per altri dieci anni. Fu solo alla fine di questo lungo periodo di tempo che, obbedendo ad una visione del Cielo, si dispose ad accogliere quanti, visitando il monastero, aspettavano da lui una parola o un consiglio spirituale. Il vecchio monaco soleva allora salutare chiunque si recasse da lui con una prostrazione, un bacio e le parole del saluto pasquale: “Cristo è risorto!” e ad ognuno si rivolgeva chiamandolo con l’espressione “gioia mia”. Nel 1825 fece ritorno nella sua capanna nella foresta, dove, arricchito del dono della chiaroveggenza, continuò a ricevere migliaia di pellegrini da tutta la Russia. Serafim si riposò nel Signore il 1° gennaio 1833 del calendario giuliano (corrispondente al 14 gennaio del nostro calendario), mentre era inginocchiato davanti ad un’icona della Madre di Dio.

Leonhard Schiemer era nato verso il 1500 a Vöcklabruck (Alta Austria) in una famiglia molto religiosa, che l’aveva avviato al mestiere di sarto. Desideroso, però, di consacrarsi a Dio, Leonhard, poco più che adolescente, era entrato in un convento francescano, a Judenburg, ma sei anni più tardi, deluso dalla vita conventuale, ne era uscito, recandosi ad abitare a Norimberga, dove aveva ripreso l’antico mestiere. In questa città avvennero presumibilmente i primi contatti di Schiemer con gli ambienti anabattisti. Nel maggio 1527, recatosi a Nikolsburg, in Moravia, potè assistere alla disputa tra due diversi gruppi anabattisti, gli Stäbler (sostenitori della nonviolenza assoluta) e gli Schwertler (che sostenevano la liceità della difesa armata). Poche settimane più tardi quando, a Vienna, incontrò Hans Hut e la sua congregazione, Leonhard ne fece sue le tesi pacifiste e chiese di essere battezzato. Subito cominciò la sua attività di missionario, prima nella città di Steyr, poi a Salzburg e in Baviera. Nell’agosto 1527 partecipò, ad Augsburg, al Sinodo dei Martiri (chiamato così in seguito, perché un gran numero dei partecipanti trovò la morte a causa della fede professata). Inviato in Tirolo, si stabilì a Rattemberg, una cittadina sul fiume Inn, dove la congregazione locale lo volle suo vescovo. Il 25 novembre 1527, su pressione delle gerarchie cattoliche, Schiemer fu arrestato e imprigionato. Durante la prigionia, compose numerose opere, che avranno una notevole importanza nello sviluppo del movimento anabattista. Tra esse anche alcuni inni, che entrarono a far parte dell’Ausbund, l’innario in uso ancor oggi presso le comunità Amish. Nel gennaio 1528, un tentativo di fuga gli comportò un drastico peggioramento nelle condizioni di prigionia. Dopo ripetute sessioni di tortura, il giovane, non ancora trentenne, fu decapitato. Era il 14 gennaio 1528. Nei successivi dodici anni altri settanta anabattisti, uomini e donne, sarebbero morti a Rattenberg, testimoniando con il loro sangue la loro fedeltà al vangelo della pace e dela nonviolenza.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Ebrei, cap. 4, 12-16; Salmo 19; Vangelo di Marco, cap.2, 13-17.

La preghiera del Sabato è in comunione con le comunità ebraiche di Eretz Israel e della diaspora.

Detenuti della più grande prigione di Rio Grande do Norte, il carcere di Alcaçuz, a 25 chilometri dalla capitale, Natal, sono dal tardo pomeriggio in rivolta. Finora c’è notizia di almeno 26 prigionieri uccisi, i più decapitati, altri bruciati. La tragedia (la terza in due settimane) sembra originata dallo scontro tra due fazioni rivali, il PCC (Primo Comando della Capitale) e il Sindacato del Crimine. Ma questa è in ogni caso solo la causa immediata. Determinante, in questo come negli altri casi, è piuttosto la situazione disastrosa e disumana delle strutture carcerarie e l’inettitudine delle autorità. Nonché l’indifferenza dei più.

Noi ne facciamo memoria il giorno della sua scomparsa, il 4 settembre, ma vogliamo ricordarlo anche oggi, giorno della sua nascita, avvenuta a Kaysersberg, in Alsazia, nel 1875. Parliamo di Albert Schweitzer, che scelse di lasciare tutto per dedicarsi agli ultimi e più diseredati dell’Africa equatoriale. Scegliamo, nel congedarci, di proporvi una sua citazione tratta da “Filosofia della civiltà” (Fazi). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Di tutto il desiderio d’ideale che esiste nell’umanità solo una piccola parte può manifestarsi con le azioni. Tutto il resto è destinato a realizzarsi in risultati invisibili, i quali tuttavia valgono mille volte di più dell’attività che attira l’attenzione del mondo. Quei risultati stanno in rapporto a quest’ultima come il mare profondo alle onde che si muovono in superficie. Le forze nascoste della bontà si concentrano negli uomini che esercitano come occupazione secondaria l’immediato servigio personale, non realizzabile nel loro lavoro quotidiano. Il destino di molti è di avere come professione, allo scopo di guadagnarsi la vita e di soddisfare le esigenze della società, un lavoro più o meno senza anima nel quale possono esprimere poco o nulla delle loro qualità umane, poiché in quel lavoro essi devono essere poco più che delle macchine umane. Eppure nessuno si trova nella condizione di non avere alcuna opportunità di offrirsi agli altri come essere umano. Il problema creato dal fenomeno del lavoro perfettamente organizzato, specializzato e meccanizzato dipende solo in parte, quanto alla sua soluzione, da questo atteggiamento della società che non solo non accetta le condizioni così prodottesi, ma cerca di difendere, appena può, i diritti della personalità umana. L’importante è che gli interessati non si pieghino semplicemente al loro destino, ma cerchino invece con tutta la loro energia di affermare, in mezzo a quelle condizioni sfavorevoli, la loro personalità umana affidandosi all’aiuto dell’attività spirituale. Ognuno ha la possibilità di salvare la sua vita umana, a dispetto della vita professionale, purché afferri qualsiasi opportunità di essere un uomo attraverso un’azione personale, anche se modesta, per il bene del prossimo bisognoso dell’aiuto dei suoi simili. Ci si arruola così al servizio della spiritualità e del bene. Nessun destino può impedire ad un uomo di offrire agli altri questo servizio immediato compiuto parallelamente al lavoro quotidiano. Se per lo più tale servizio non viene reso, è perché si lasciano perdere le opportunità. (Albert Schweitzer, Rispetto per la vita).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 14 Gennaio 2017ultima modifica: 2017-01-14T22:54:12+01:00da fraternidade
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