Giorno per giorno – 25 Ottobre 2016

Carissimi,
“A che cosa è simile il regno di Dio? È simile a un granello di senape, che un uomo prese e gettò nel suo giardino; crebbe, divenne un albero e gli uccelli del cielo vennero a fare il nido fra i suoi rami” (Lc 13, 18-19). A volte, la storia, quella grande, che ha per protagonisti gli imperi, gli stati, le grandi religioni, e quella piccola, minuta, che si svolge tra le pareti di casa, nelle strade di quartiere o di paese, tenta di smentire questa parola di Gesù. La prima, con le sue pretese, di incarnare il Regno in grandi strutture (o imprese) di potere, che gli sono di per se stesse antitetiche; la seconda, di negarlo di fatto, affossandolo nelle categorie dell’insignificanza, vuoi con un ritualismo fine a se stesso, vuoi con la riduzione del suo messaggio ad una qualche tradizione culturale. E la profezia, in un caso come nell’altro, vada a farsi benedire! Stasera, a casa di dona Balbina, ci dicevamo che, dell’annuncio del Regno, a dire il vero, anche le chiese, spesso farebbero (o hanno fatto) a meno. Dato che rappresenta una sfida continua e, almeno apparentemente, crea più problemi di quanti ne vorrebbe risolvere. Visto che esige una conversione radicale dalle categorie del mondo, o, se si preferisce, del Sistema: potere, ricchezza, competizione, forza, affermazione, successo. Quando la tentazione è, invece, quella di assumerle e farle proprie. O che impone di ampliare i propri orizzonti ai bisogni degli altri e non limitarsi a soddisfare i propri. Con il rischio concreto, in questo caso, che i fedeli – più fedeli alle proprie radici tribali che al vangelo di Gesù -, finiscano per traslocare e mettersi in proprio (con una religione fai-da-te) o cambiare di gregge. Come avviene abbastanza spesso, in ambienti in cui proliferino denominazioni che sorgono da un giorno all’altro, più interessate a garantire “meritate” prosperità, che a sollecitare atteggiamenti di accoglienza verso tutti e un concreto lavorio per la vita di tutti. Noi, come siamo, in relazione alla testimonianza del Regno? Le due parabole di Gesù si possono applicare anche a noi, alla nostra comunità?

Oggi facciamo memoria di Henri Perrin, preteoperaio, e di Antonio Llidó, prete al servizio degli ultimi, martire in Cile.

Nato il 13 aprile 1914, Henri Perrin fece parte del gruppo di giovani preti che, durante la II Guerra mondiale, scelsero di accompagnare i lavoratori francesi inviati a lavorare nelle fabbriche tedesche. Lì, lavorò con i suoi connazionali, operando nello stesso tempo come cappellano clandestino. Scoperto, fu imprigionato per un breve periodo e poi rimpatriato. L’esperienza tuttavia lo segnò irreversibilmente. Scoprì infatti la distanza che separava la chiesa dalla classe lavoratrice e, presto, con altri preti che la pensavano uguale, decise che era ora di restituire la chiesa ai poveri e i poveri alla chiesa. Nacque così, nel 1947, con l’approvazione dei vescovi francesi, l’esperimento dei preti-operai. Perrin fu assunto in una fabbrica di plastica. Non rivelò subito la sua identità. Quando comunque i compagni seppero che era prete, la sua maniera d’essere ne aveva già conquistato rispetto, simpatia e cameratismo. Non sarebbe durata a lungo. Il Vaticano nel 1949 emise un decreto che condannava l’adesione dei cattolici ai partiti comunisti e alle organizzazioni ritenute fiancheggiatrici, compresi i sindacati. I vescovi francesi, finché poterono, tergiversarono. Si rendevano infatti conto dell’importanza che la figura dei pretioperai rivestiva nel processo di evangelizzazione del mondo del lavoro e di ri-evangelizzazione della stessa chiesa. E sapevano che non c’era verso di stare in quel mondo, senza assumerne le lotte e gli strumenti organizzativi. Tuttavia, all’inizio del 1954, le insistenti pressioni di Roma posero fine all’esperimento. Molti obbedirono e lasciarono le fabbriche, altri ritennero questo passo un tradimento dei poveri e del Vangelo. Restarono e subirono i provvedimenti ecclesiastici. Lui, il nostro prete, amareggiato, deluso, indignato, non ebbe neppure tempo di decidere. Morì in un incidente di moto, poco più che quarantenne, il 25 ottobre dello stesso anno. Poi sarebbe arrivato il Concilio Vaticano II. E le stagioni successive.

Antonio Llidó era nato a Xábia (Alicante, Spagna), il 29 aprile 1936. Terminati gli studi di Magistero, entrò in seminario nel 1957 e fu ordinato prete nel 1963. I villaggi alicantini di Quatretondeta e Balones (settecento anime in tutto) furono la sua prima destinazione. Lì, con l’aiuto di un maestro e di un gruppo di giovani universitari, elaborò uno straordinario progetto sociale, pedagogico e pastorale, che permise di accompagnare negli studi quaranta ragazzi senza futuro fino alla soglia dell’università. Nel 1967, per aver rifiutato di votare all’ennesimo referendum franchista e dopo aver firmato un manifesto di protesta contro la repressione degli studenti antifascisti, venne mandato per castigo dal suo vescovo come cappelano all’ospedale della marina militare, a El Ferrol. Naturalmente non durò molto. Nel 1969, decise di partire missionario per il Cile, stabilendosi nella città di Quillota, nella diocesi di Valparaiso, dove gli fu affidata la cura della chiesa della Madonna degli Abbandonati e della Medaglia Miracolosa. Conobbe livelli di miseria che gli parvero intollerabili. Scoprì che in una baraccopoli di sole dieci case abitavano 115 bambini. Con un confratello organizzò una manifestazione di protesta contro la costruzione di una nuova palestra in un esclusivo collegio marista della città, che doveva sorgere a poche centinaia di metri da un’altra palestra di un altrettanto esclusivo istituto religioso. Questo gli procurò naturalmente l’inimicizia dei religiosi e del vescovo locale. Era solo l’inizio del suo impegno a fianco dei poveri e delle forze politiche che ne portavano avanti le aspirazioni. Il vescovo gli impose di far ritorno in Spagna, ma Llidó non potè accettare di abbandonare i già abbandonati da tutti. Questa fedeltà gli costò la sospensione a divinis. L’11 settembre 1973, un sanguinoso golpe militare pose precocemente fine al governo di Unità popolare di Salvador Allende, che aveva sollevato tante speranze, e Llidó entrò in clandestinità. Il 1º Ottobre 1974 venne scoperto e arrestato da agenti della DINA, la famigerata polizia segreta di Pinochet. Secondo le testimonianze raccolte, benché ripetutamente torturato, riuscì a mantenersi saldo e imperturbabile, continuando a infondere coraggio agli altri detenuti. Se ne persero definitivamente le tracce il 25 ottobre dello stesso anno, quando la polizia segreta lo prelevò dal carcere di Quatro Álamos, senza destinazione conosciuta.

I testi che la liturgia odierna propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Efesini, cap.5, 21-33; Salmo 128; Vangelo di Luca, cap.13, 18-21.

La preghiera del martedì è in comunione con le religioni tradizionali africane.

Le comunità ebraiche della diaspora celebrano oggi, 23 del mese di Tishri, Simchat Torah, ovvero la “Gioia della Legge”. Entrando nella festa, la sera della vigilia, i rotoli della Torah vengono prelevati dall’aron-ha-kodesh (“arca santa”), e consegnati agli uomini che, a turno, abbracciati ad essi, compiono le sette hakafot (“giri”), cantando e danzando intorno alla bimah (la piattaforma da cui viene letta la Torah). Il rituale è ripetuto la mattina seguente, quando viene anche proclamato l’ultimo brano del Deuteronomio, subito seguito da alciuni versetti del primo di Genesi, dando così inizio al nuovo ciclo annuale delle letture liturgiche. Chi legge l’ultimo brano della Torah è chiamato Chatan Torah (“Sposo della Torah”), mentre colui che ne ricomincia la lettura è il Chatan Bereshit (“Sposo del Principio”). Che anche noi si possa sempre gioire del dono della Parola che ci viene fatto e si sappia danzarla con la nostra vita. Oltre tutti i possibili acciacchi della vecchiaia.

E, prendendo spunto dalla festività ebraica della Gioia della Legge, scegliamo di proporvi, nel congedarci, un testo che rilegge, attraverso l’esegesi che ne hanno fatto i rabbini lungo i secoli, l’evento che ne è all’origine. Tratto da “L’Eros e la Legge” (Giuntina) di Stéphane Moisès, è , per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
“Mi baci con i baci della sua bocca, poiché i tuoi amori sono migliori del vino”. È così che all’inizio del libro biblico del Cantico dei cantici (1, 2) l’amante proclama il desiderio che la trasporta verso il suo amico. Sappiamo che la tradizione ebraica ha esitato a lungo prima di decidere di includere nel canone biblico questo testo apparentemente così profano, questo dialogo amoroso in cui la passione condivisa si esprime attraverso la magia di un colloquio poetico senza uguali. Se ciò nondimeno il Cantico dei cantici è stato inserito nelle Scritture è perché molto presto nella tradizione ebraica è stato letto – e questa lettura è stata poi ripresa dall’esegesi cristiana – come un testo allegorico che celebra l’amore mistico di Dio e del suo popolo. Nella tradizione ebraica, questo tipo di interpretazione è divenuta canonica dal Midrash Shir haShirim Rabbà, che risale al VI secolo e.v., fino al commento di Eliya di Vilna, che probabilmente dobbiamo collocare nella seconda metà del XVIII secolo. […] Eliya di Vilna, all’inizio del suo commento, sviluppa la tesi paradossale secondo cui l’origine della Legge è un’esperienza amorosa: “ ‘Mi baci con i baci della sua bocca’: si tratta qui di un unico bacio che è tuttavia doppio. Nel Salmo 62 è detto infatti: ‘Dio ha pronunciato una sola parola e io ne ho intese due’. In effetti, secondo il Talmud (Shevu’ot, 20b), “i due primi comandamenti: ‘Io sono il Signore tuo Dio’ (Es 20, 2) e ‘Tu non avrai altri dei davanti al mio volto’ (Es 20, 30) sono stati pronunciati con un’unica parola”. Ora, [secondo un altro insegnamento talmudico] “Noi abbiamo inteso solo i primi due comandamenti dalla bocca di Dio stesso e gli altri [otto] dalla bocca di Mosè” (Makot 24, a). Ecco perché [nel racconto biblico] i primi due comandamenti sono scritti alla prima persona [“Io sono”, “davanti al mio volto”], mentre gli altri comandamenti sono scritti alla terza persona [per esempio, al versetto 20, 7: “colui che pronuncerà il suo nome”], perché è Mosè che li ha enunciati in nome di Dio. […] Ora, questi due comandamenti sono [comparabili a] due baci: come il bacio dello sposo a colei che desidera significa tanto che lei è unita a lui quanto che non è unita ad alcun altro, lo stesso vale per le prime due parole “Io sono il Signore tuo Dio” e “Tu non avrai altri dei”, che sono la somma di tutta la Torà. […] Il versetto “Mi baci con i baci della sua bocca” significa dunque: “Ah! Trasmettici anche gli altri tuoi comandamenti come baci, come queste due parole [“Io sono il Signore tuo Dio” e “Tu non avrai altri dei”] che hai pronunciato tu stesso e che esprimono un grande amore, un amore insuperabile, e un desiderio meraviglioso, simile a quello di uno sposo che bacia colei che desidera” (Stéphane Mosès, L’Eros e la Legge).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 25 Ottobre 2016ultima modifica: 2016-10-25T22:48:52+02:00da fraternidade
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