Giorno per giorno – 23 Ottobre 2016

Carissimi,
“Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: O Dio, abbi pietà di me peccatore” (Lc 18, 10-13). L’evangelista specifica che Gesù dissse questa parabola “per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri” (v. 9). E ce n’è sempre. Una volta o l’altra deve capitare pure a noi, che, giusti, non lo siamo neanche tanto. La preghiera, poi, che sia propriamente tale e si rivolga perciò a Dio (e, magari, anche agli altri se ci stanno a sentire), o sia invece un semplice monologo, interiore o meno, dà voce in ogni caso a ciò che noi si pensa di noi stessi e degli altri, e perciò disegna il tipo di società in cui ci siamo accomodati o di relazioni che instauriamo. Padre Paulo, stamattina, durante la condivisione della Parola, rimarcava giustamente come i due della parabola di oggi, nel loro atteggiamento, gli ricordassero i due figli della parabola del padre misericordioso. Giusto, rigoroso, severo, tutto d’un pezzo, il primo, il figlio maggiore, il religioso, la persona perbene; consapevole delle proprie malefatte e umiliato, il secondo. E succede che il buon Dio ci resta male per il primo e lo dichiara dalla parte del torto, mentre perdona, giustifica, fa festa al secondo. È un Dio che non serve mica molto a mantenere ordine nella società. Oh, sia chiaro: non è che gli dispiaccia chi si comporta bene e si compiaccia del male che succede. Non fa però di questo il criterio ultimo di giudizio, come invece fa spesso comodo a noi. Dato che il suo criterio ultimo è l’amore, il ricomporre tutto in unità, il ricreare le condizioni di una convivenza fraterna, dove non ci si giudica, ma ci si aiuta, ci si accoglie, ci si sostiene a vicenda. Giusti, lo possiamo essere anche su tutti i dieci comandamenti, ma se manchiamo su quello che non è neppure menzionato, ma che connota l’essere stesso di Dio, la sua misericordia, è come se non ne osservassimo neppure uno. E questo è il peccato tipico di chi è religioso: basta osservare, per fare un esempio, le reazioni indispettite che in molti ambienti accampagnano l’accoglienza che papa Francesco riserva a coloro che hanno sbagliato: Perdinci, neppure una parola per quanti, con fatica, non hanno mai deviato dalla retta via? E sembra, ogni volta di sentire il fratello maggiore del figlio prodigo. Diamine, gli si potrebbe rispondere, ma vi è costato tanto restare nella casa del Padre? Avete vissuto come un peso il comportarvi bene? In questo caso prendetevi tranquillamente una bella libera uscita, peccate un po’: vi aiuterà ad evitare il peccato più grande. Quel peccato che ha il potere di trasformare in un inferno di dispetto, astio, risentimento, per voi e per gli altri, quell’anticipo di paradiso, che siamo chiamati a vivere alla sequela di Gesù.

I testi che la liturgia di questa XXX Domenica del Tempo Comune propone alla nostra riflessione sono tratti da:
Libro del Siracide, cap. 35, 12-14.16-18; Salmo 34; 2ª Lettera a Timoteo, cap. 4, 6-8.16-18; Vangelo di Luca, cap.18, 9-14.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le comunità e chiese cristiane.

Il calendario ci porta oggi le memorie dello staretz Ambrogio di Optina, “fatto tutto a tutti”; di Vilmar José de Castro, maestro e catechista, e di Nativo da Natividade de Oliveira, sindacalista, entrambi martiri in Brasile.

Alexander Mikajlovic Grenkoff era nato il 21 novembre 1812 in una famiglia del clero minore. Suo padre era infatti lettore nella parrocchia di un villaggio nel governatorato di Tambov. Conclusi gli studi in seminario, il giovane scoprì che la carriera ecclesiastica non era fatta per lui. Se ne tornò perciò a casa e per qualche tempo insegnò nella locale scuola elementare. Ma, via via, sentì crescere in lui la vocazione monastica, sicché, nell’autunno del 1839, chiese ed ottenne di entrare nel monastero di Optina. Qui vestí l’abito, assumendo il nome di Ambrogio. Ordinato diacono e poi prete, dovette limitare le sue attività a causa delle precarie condizioni di salute. Sfruttando le sue conoscenze di greco e latino, curò per alcuni anni l’edizione di testi patristici. L’attivita di carattere erudito tuttavia non gli era particolarmente congeniale, venne perciò dedicando sempre più tempo alla direzione spirituale (starcestvo), profondamente radicata in una vita di preghiera e di ascesi. E continuò così per tutta la vita. Ogni volta più malconcio, ogni volta più ricercato dalla gente, ogni volta più dolce, dedicato, identificato con quanti ricorrevano a lui per parlargli e riceverne il consiglio. Nell’estate del 1890, per l’aggraversi delle sue condizioni di salute, si trasferì a Sciamordino, nel monastero femminile, da lui fondato nel 1884. Continuò tuttavia a ricevere visitatori da mattina a sera, ininterrottamente. All’inizio di ottobre ci si rese conto che la fine si approssimava. Il 10 Ottobre 1891 (23 ottobre secondo il calendario gregoriano), alle 11,30, terminate le preghiere del trapasso, Ambrogio sollevò il braccio, fece il segno dalla croce e si spense. Sulla lapide della sua tomba furono incise le parole dell’apostolo Paolo: Sono stato debole con i deboli, al fine di guadagnare i deboli. Mi sono fatto tutto a tutti per salvarne in ogni modo qualcuno”.

Vilmar José de Castro era nato nel 1959 in una famiglia di piccoli agricoltori di Caçu, nel Sud-est goiano. Maestro rurale, era agente di pastorale della diocesi di Jataí, membro della Commissione Pastorale della Terra, integrante della Scuola Biblica regionale. Fu assassinato il 23 ottobre 1986 tra Caçu a Itarumã, sulla strada che percorreva ogni giorno per recarsi a scuola. Vilmar aveva rappresentato la sua diocesi al 6º Incontro Nazionale delle Comunità ecclesiali di Base, che si era svolto pochi mesi prima a Trindade. Durante la celebrazione dei martiri, quanti dei presenti avevano ricevuto minacce di morte furono invitati ad alzarsi. Vilmar era tra loro. Di fatto, da quando la UDR, il nuovo sindacato dei latifondisti, aveva cominciato a operare a Caçu, il nome di Vilmar era fatto spesso, in maniera non propriamente benevola, dai grandi proprietari. Che aspettarono solo l’occaisone giusta per colpirlo ed eliminarlo. Subito risaputa da tutti fu la complicità e la copertura offerta nella perpetrazione del delittto dalla famiglia Teixeira, una famiglia di latifondisti della zona. Con Vilmar si volle colpire la voce della Chiesa, “colpevole” di una pastorale a favore dei contadini senza terra, dei piccoli produttori e dei lavoratori urbani, che metteva in pericolo i loro interessi economici.

Nativo da Natividade de Oliveira era nato a Doresopolis, in Minas Gerais, il 20 novembre 1953, da Laurita de Oliveira e Benedito Rodrigues de Oliveira. Nel 1961, la famiglia si era trasferita nella zona rurale del municipio di Carmo do Rio Verde (Goiás), dove nel 1967 dona Laurita morì. Nel 1972 Nativo sposò Maria di Fátima Marinelle, da cui ebbe due figli: Luciene ed Eduardo. Attivo nelle comunità ecclesiali di base, nel 1975 conobbe dom Tomás Balduino, allora vescovo di Goiás, che lo convinse a dedicarsi al lavoro di coscientizzazione e organizzazione sindacale. Impegno che egli assunse, almeno inizialmente, senza troppa fortuna, dovendosi scontrare con la difficile situazione politica, con l’atteggiamento minaccioso del padronato e con la paura dei lavoratori rurali. All’inizio degli anni 80, insieme ad Adão Rosa e altri compagni, Nativo, pur continuando il suo lavoro nei campi, collaboró alla fondazione del Partito dei Lavoratori (PT) nello Stato di Goiás e delle Conferenze della Classe Lavoratrice (CONCLAT), che costituirono l’embrione della Centrale Unica dei Lavoratori (CUT), che lo vide tra i suoi quadri dirigenti in Goiás. L’organizzazione sindacale cominciò progressivamente a prendere piede e a conquistare la fiducia dei lavoratori. Ma questo determinò la rabbiosa reazione dei potentati locali. Il 1984, con la fine della dittatura, segnava l’inizio di una nuova stagione politica per il Brasile. L’anno seguente, le elezioni delle rappresentanze sindacali segnarono una netta vittoria del sindacato guidato da Nativo. Era evidentemente troppo. Il 23 ottobre 1985, alle 19,30, veniva ucciso con cinque colpi di fucile davanti alla sede del Sindacato dei Lavoratori rurali di Carmo do Rio Verde. Il pistoleiro, Júlio Santana, confesserà in seguito che il delitto era stato commissionato dal sindaco della città, Roberto Pascoal Liérgio, e dal presidente del sindacato dei Proprietari rurali, Geraldo dos Reis Oliveira. Che restarono impuniti.

Bene, prendendo spunto dalla memoria di Ambrogio di Optina, vi proponiamo, nel congedarci, una citazione tratta dai suoi insegnamenti. Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Per molti, non c’è nulla di cui essere orgogliosi. Questo è il motivo per cui lo Starets raccontava questa storia: “Una donna, durante la confessione, disse al suo padre spirituale di essere una persona orgogliosa. “Di cosa sei orgogliosa?” le chiese. “Sei famosa?” – “No”, rispose lei. “Beh, hai qualche dote particolare?” – “No”. “Allora, sei ricca?” – “No”. “Humm… in questo caso – concluse lo Starets – puoi essere orgogliosa”. Alla domanda: come è possibile che i giusti, sapendo che stanno conducendo una vita morigerata secondo le leggi di Dio, non si esaltino a causa della loro pietà, lo Starets rispose: “Essi non sanno cosa li aspetta alla fine. Questo è il motivo”, e aggiunse: “La nostra salvezza è tutta giocata tra la paura e la speranza. In nessun caso ci si deve disperare, ma, allo stesso tempo, non bisogna sperare troppo”. (Starets Starets Ambrose of Optina, On pride).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 23 Ottobre 2016ultima modifica: 2016-10-23T22:33:49+02:00da fraternidade
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