Giorno per giorno – 13 Ottobre 2016

Carissimi,
“Per questo la sapienza di Dio ha detto: Manderò loro profeti e apostoli ed essi li uccideranno e perseguiteranno, perché a questa generazione sia chiesto conto del sangue di tutti i profeti, versato fin dall’inizio del mondo. Sì, io vi dico, ne sarà chiesto conto a questa generazione” (Lc 11, 49-51). Ancora una volta, “questa generazione” è anche la nostra. Ma come e perché ci si chiede conto del sangue di tutti i profeti? Perché obbidiamo tutti alla stessa logica, siamo nella stessa corrente di sangue, anche se, come ha appena detto Gesù, costruiamo monumenti, dedichiamo chiese ai martiri del passato, mentre disinvoltamente martirizziamo i profeti del presente. E i profeti non sono solo coloro che ci richiamano all’obbedienza di Dio, sono anche coloro che si fanno voce del lamento di Dio che muore della morte dei suoi figli, di cui noi, se non proprio conniventi, siamo spesso testimoni indifferenti. Succede così che andiamo in chiesa a celebrare il memoriale della morte del Signore, e contestualmente la perpetuiamo – perché è ancora Lui che muore, ad Aleppo, Kabul, Haiti, nel Mediterraneo, nei continenti della fame, della miseria, della malattia – con le nostre scelte, i nostri silenzi, il nostro volgere il capo altrove. Noi, dunque, responsabili di tutto quel fiume di sangue. Come ne pagheremo il conto? Non abbiamo risposte facili, ci dicevamo nel pomeriggio, riflettendo con gli amici della chácara di recupero. Perché, è vero, viene spontaneo di dire, di fronte all’enormità del conto, che Lui, Gesù, lo ha già pagato. Come se Dio, nel Figlio, dicesse: cercavate un colpevole, eccomi sono io. Ora, cominciamo da capo. Noi possiamo solo immergerci nel torrente della grazia che da Lui scorre fino a raggiungerci e a cambiare la nostra storia e, forse, lentamente, la storia del mondo. Dio, infatti, non è interessato a giudicare e condannare il mondo (come sono propensi a fare, da sempre, i religiosi), ma a salvarlo, a salvare, cioè a convertire, tutti i suoi figli e figlie.

Oggi è memoria di Madeleine Delbrêl, appassionata di Dio e della gente ordinaria.

Madeleine era nata il 24 ottobre 1904 a Mussidan (Dordogne – Francia). Ancora giovane si convertì dall’ateismo al cristianesimo. Assieme ad altre donne, trovò tra i comunisti di Parigi la possibilità di vivere una vita autentica di comunità cristiana, senz’altro scopo che quello di farsi “prossimo dei suoi prossimi” in una disponibilità incondizionata all’evangelo. Fu una vera umanista che amò Dio intensamente, incontrandolo in tutte le cose ordinarie della vita. Scrisse: “Ci sono persone che Dio chiama e mette da parte in conventi o monasteri. Ve ne sono altre che Dio chiama e le lascia nella società, quelle che Dio non ritira dal mondo. Queste sono le persone che hanno un lavoro ordinario, un matrimonio ordinario o un celibato ordinario. Persone che hanno malattie ordinarie e sofferenze ordinarie. Che vivono in case ordinarie e vestono abiti ordinari. Le persone che noi incontriamo in qualunque strada ordinaria…” “Noi, le persone ordinarie delle strade, crediamo con tutte le nostre forze che questa via, che questo mondo in cui Dio ci ha posto è per noi il luogo della nostra santità”. “Noi incontriamo Dio in tutti i “piccoli” che soffrono nel loro corpo, che sono disgustati, angosciati, che hanno bisogno di qualcosa. Noi incontriamo Cristo respinto in innumerevoli atti di egoismo. Come potremmo prenderci gioco di questa gente o odiare questa moltitudine di peccatori, di cui noi facciamo parte?”. Madeleine visse in pieno il travaglio della Chiesa pre-conciliare di reinventare l’esistenza cristiana nel mutato contesto storico e culturale. Conobbe, com’è inevitabile, incomprensioni, isolamento, ostilità, nei suoi fratelli di chiesa. Ma trovò anche chi la sostenne e l’appoggiò (tra questi il card. Montini). Alla convocazione del Concilio Vaticano II, volle vedere in esso il sorgere di una nuova primavera dello Spirito, a cui aveva dedicato la vita. Madeleine morì improvvisamente, il 13 ottobre 1964, nel suo pieno vigore.

I testi che la liturgia odierna porpone alla nostra riflessione sono tratti da:
Lettera agli Efesini, cap.1, 1-10; Salmo 98; Vangelo di Luca, cap.11, 47-54.

La preghiera del giovedì è in comunione con le religioni tradizionali dei popoli indigeni.

Nello stesso giorno che un Nobel della Letteratura ci lascia, un altro è consacrato, passandosi così l’un l’altro il testimone. Limitandoci solo ad un aspetto di quello che può essere stato Dario Fo, ci viene di dire che era un ateo che il buon Dio deve aver avuto in grande simpatia, per il genio teatrale che lo caratterizzava, sì, ma anche per certa carica anti-istituzionale, e per la libertà, l’originalità e l’irriverenza, con cui aveva riproposto, in alcuni suoi lavori, il messaggio evangelico, denunciandone le manipolazioni da parte del potere. Ora, come ha suggerito qualcuno, avrà già ripreso a recitare con la compagna di una vita, Franca Rame, per l’allegria degli inquilini dei piani alti. Quanto a Bob Dylan, continuerà a fornire le colonne sonore per i ricordi del passato di chi, tra noi, è più avanti negli anni, ma anche canzoni-poesie di cui godere e su cui riflettere per le generazioni di ogni tempo.

Anche per stasera, è tutto. Noi ci si congeda qui, lasciandovi ad un’ultima parola di Madeleine Delbrêl, tratta dal suo libro “La solitudine” (AVE). Che è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
Non c’è solitudine senza silenzio. Il silenzio è talvolta tacere, ma è sempre ascoltare. Un’assenza di rumore che fosse vuota della nostra attenzione alla parola di Dio non sarebbe silenzio. Una giornata piena di rumori, piena di voci, può essere una giornata di silenzio se il rumore diventa per noi l’eco della presenza di Dio, se le parole sono per noi messaggi e sollecitazioni di Dio. Quando parliamo di noi stessi, quando parliamo tra noi, usciamo dal silenzio. Quando ripetiamo con le nostre labbra gli intimi suggerimenti della Parola di Dio nel profondo di noi stessi, lasciamo il silenzio intatto. Il silenzio non ama la confusione delle parole. Sappiamo parlare o tacere, ma non sappiamo accontentarci delle parole necessarie. Oscilliamo senza posa tra un mutismo che affossa la carità e una esplosione di parole che svia la verità. Il silenzio è carità e verità. Esso risponde a colui che chiede qualcosa, ma non dà che parole cariche di vita. Il silenzio, come tutti gli impegni della vita, ci induce al dono di noi stessi e non ad un’avarizia mascherata. Ma esso ci tiene uniti per mezzo di questo dono. Non ci si può donare quando ci si è sprecati. Le vane parole di cui rivestiamo i nostri pensieri sono un continuo sperpero di noi stessi. “Vi sarà chiesto conto di ogni parola”. Di tutte quelle che bisognava dire e che la nostra avarizia ha frenato. Di tutte quelle che bisognava tacere e che la nostra prodigalità avrà seminato ai quattro venti della nostra fantasia o dei nostri nervi. (Madeleine Delbrêl, La solitudine).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 13 Ottobre 2016ultima modifica: 2016-10-13T22:38:40+02:00da fraternidade
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