Giorno per giorno – 25 Settembre 2016

Carissimi,
“Lui replicò: Se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno. Abramo rispose: Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti” (Lc 16, 30-31). È la sconsolata conclusione di quella che è conosciuta come la parabola del ricco gaudente. Stamattina, durante l’eucaristia nella chiesa del monastero, ci dicevamo che potrebbe essere la parabola di certo regime di cristianità, come si è venuto disegnando lungo i secoli. Che, paradossalmente, prende il nome da Cristo, ma che, lo stesso Cristo, Gesù (Dio-salva), di cui il nome Lazzaro (Dio-aiuta) è sinonimo, lo lascia languire alla sua porta. Fotografia di una realtà ancora in atto, nella quale si potrebbe dire che il padre Abramo abbia finito per cedere alla richiesta del ricco che intercede per i suoi fratelli, inviando il Risorto dai morti perché si convertano, ma, come del resto aveva previsto, inutilmente. Se, infatti, essi fossero in buona fede, sarebbe bastata e basterebbe la Bibbia, (o qualunque libro sacro), come egli dice, a riportarli sul retto cammino. Così, invece, anche il Crocifisso risorto è usato a mo’ di idolo, per giustificare la ricchezza disonesta (cf Lc 16, 9), come è disonesta ogni ricchezza accumulata e non condivisa. Immagine, dunque, realistica del sistema in cui viviamo, che ha scavato un abisso insuperabile tra ricchi e poveri, e che, impedendo al Gesù-Lazzaro di attraversarlo, si nega alla conversione e alla salvezza, annegando nel mare (loro, i ricchi!) dell’indifferenza e del godimento insensato. Qual è la nostra parte in tutto questo?

I testi che la liturgia di questa XXVI Domenica del Tempo Comune sono tratti da:
Profezia di Amos, cap.6, 1°. 4-7; Salmo 146; 1ª Lettera a Timoteo, cap.6, 11-16; Vangelo di Luca, cap.16, 19-31.

La preghiera della Domenica è in comunione con tutte le Comunità e Chiese cristiane.

Oggi facciamo memoria di Rabbi Akivà, maestro in Israele.

Akivà era nato a Lydda intorno al 50 d.C. Figlio di un proselito di nome Yosef, fino a quarant’anni fu povero, ignorante e, per dire così, anticlericale. Soleva infatti dire: Se incontrassi uno studioso della Bibbia, lo morderei come un somaro (Talmud, Pesachim 49b). Era pastore alle dipendenze di un ricco soprannominato Kalba Savua, perché si diceva che chiunque entrasse nella sua casa affamato come un cane (kalba), se ne ripartiva satollo (savua). Lì si innamorò della bella figlia di lui, Rachel, che accettò di sposarlo a patto che si mettesse a studiare seriamente la Bibbia. E fu un successo. Anche se questo significò per lei, almeno in un primo momento, la perdita dell’eredità paterna. Divenuto maestro famoso, Rabbi Akivà non dimenticò mai le sue umili origini e fu molto amato dal suo popolo. Insegnava che, tutto ciò che ci accade, Dio lo volge prima o poi al nostro bene. Sosteneva anche che ogni essere umano è creato a immagine di Dio e che per piacere a Dio non è necessario conoscere e praticare la Legge di Mosè (che è prerogativa e vocazione particolare d’Israele). È sufficiente vivere secondo la morale dettata dalle norme elementari della legge di Noè (vivere secondo giustizia, non praticare idolatria, non commettere incesto, non uccidere, non rubare, non prostituirsi, non cibarsi di carne viva). Amò molto il Cantico dei Cantici, diceva che alla sua luce possiamo leggere tutta la Bibbia come un rapporto d’amore tra Dio e il suo popolo. Questo lo spinse a battersi perché fosse incluso nel canone della Bibbia ebraica. Quando scoppiò la rivolta antiromana di Shimon Bar Kokhbà, la appoggiò con convinzione, convinto del suo carattere messianico. La rivolta fu soffocata nel sangue. Akivà, imprigionato per non aver obbedito al divieto imperiale di insegnare pubblicamente la Torah, fu condannato alla dilacerazione delle membra per mezzo di arpioni. La condanna fu eseguita il 25 settembre dell’anno 135 (9 del mese ebraico di Tishri) e Rabbi Akivà morì il giorno successivo, festa dello Yom Kippur. Le sue ultime parole furono: Adonai ehad. Il Signore è uno solo.

Per stasera è tutto. Nel congedarci, vi proponiamo una pagina di Irving M. Bunim a commento di un detto di Rabbi Akiva. La prendiamo dal suo libro “Ethics from Sinai” (Feldheim Publishers). Ed è, per oggi, il nostro

PENSIERO DEL GIORNO
“Diceva [Rabbi Aqiva]: Amato è l’uomo, che fu creato a immagine di Dio, e come prova di questo amore gli fu dato sapere di essere stato creato a immagine di Dio… Amati sono gli israeliti ai quali fu dato uno strumento prezioso (la Torah), e come prova di questo amore fu dato loro di sapere di aver ricevuto uno strumento prezioso, con il quale fu creato il mondo… Non abbandonate la mia Torah” (Pirqè Avot 3, 18). Esiste un contrasto interessante tra l’insegnamento di Rabbi Aqiva e quello di Rabbi Acavià ben Mahalalel. Entrambi cercano di inculcare nell’ebreo il significato della obbligazioni che egli porta con sé. Tuttavia ognuno di loro segue un approccio completamente differente. Acavià tenta di coscientizzarci in modo piuttosto scioccante su quanto sia patetica e triste la condizione umana. Ci dice infatti: la vostra origine fisica è sordida e riprovevole. Siete destinati a marcire e a decomporvi nella tomba dopo alcuni anni di ansietà e di caccia ai fantasmi. Dato che non vi è nulla nel vostro stato naturale che garantisca la gioia o la vostra sicumera, evitate il peccato e vivete religiosamente, per avere la speranza della grazia e della carità divine. Rabbi Aqiva, da parte sua, ci tranquillizza e rafforza la nostra autostima: siamo stati creati “a immagine di Dio”. Osserva che, come figli del nostro Padre celeste, non abbiamo nulla da temere in vita o in morte: possiamo confidare e credere nel suo amore e nella sua misericordia. E più ancora: rallegriamoci e compiamo la nostra missione nella vita con buona disposizione d’animo, poiché abbiamo “uno strumento prezioso” che rende l’esperienza significativa: con la Torah cresceremo e ci svilupperemo rettamente. Ora, entrambi gli insegnamenti sono efficaci e rappresentano visualizzazioni autentiche di una vita benedetta dal Cielo con la Torah. Essi sottolineano semplicemente elementi distinti, adeguati a temperamenti differenti. È noto che il movimento del Mussar, fondato dal Rabbi Israel Salanter, tende a seguire la prospettiva di Acavià, analizzando i motivi, sottolineando i sensi di colpa, mettendo a nudo la nostra debolezza, con l’obiettivo di guidarci meglio lungo il sentiero divino. Il movimento chassidico ha invece adottato la prospettiva di Rabbi Aqiva. Qui, l’enfasi è collocata sempre sull’ottimismo, la gioia e l’entusiasmo davanti al Creatore. Anche all’ebreo più semplice è sempre stato insegnato che può servire all’Onnipotente in maniera efficace e splendida. Ogni essere umano ha impressa in sé l’immagine di Dio, tutti sono veramente figli dell’Onnipotente; e se abbiamo e amiamo lo strumento prezioso che è la Torah, certamente questo deve essere motivo di gioia. Entrambi i sentieri conducono alla fede e all’adorazione. L’importante è avere un dérech, un sentiero chiaro e consistente verso Dio e seguirlo. “Che l’iniquo dimentichi il suo cammino. Il suo cammino non è un dérech, in assoluto. Non porta da nessuna parte. (Irving M. Bunim, A Ética do Sinai).

Ricevete l’abbraccio dei vostri fratelli e sorelle della Comunità del bairro.

Giorno per giorno – 25 Settembre 2016ultima modifica: 2016-09-25T22:22:22+02:00da fraternidade
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